di Giacinto Reale
Nell’immaginario collettivo post e neofascista, Trieste occupa un posto di assoluto rilievo: dalla Grande Guerra, che fu “di redenzione”, alla difesa dei confini da parte della Decima, dallo scempio titino alle manifestazioni anni cinquanta per il ritorno all’Italia , fino all’attivismo “nazionale” degli anni settanta.
La città ha, però, anche un ruolo importante nello sviluppo iniziale del fascismo: in un contesto nel quale l’italianità viene fortemente sentita, contro minacce slave, è naturale che gli uomini di Mussolini possano contare sul generale consenso della popolazione.
Ad essa si indirizza uno dei primi volantini distribuiti dai fascisti, che fa leva proprio sulla sensazione di insicurezza provocata dall’afflusso giornaliero di decine di slavi, che sono anche sovversivi:
“Cittadini ! Aprite gli occhi, tendete le orecchie, spiate agli usci, squadrate la gente che vi passa d’accanto. Non vedete? Non sentite? Dovunque, attorno a noi si nasconde l’insidia…Attraverso le rade maglie della linea di armistizio, o, più comodamente, con i treni espressi e le automobili, s’infiltrano e scendono nella nostra bella città torme oblique di propagandisti ben muniti di danaro e di denaro, forniti d’oro dai grandi centri di Belgrado, di Lubiana, di Zagabria…Denunziate a noi tutti quelli che offendono il nome d’Italia, tutti quelli che contro l’Italia tramano e cospirano. Noi li bolleremo come essi meritano”.
Alla guida del neonato Fascio vi è, dalla primavera del ’20, il fiorentino Francesco Giunta, dallo “stupendo coraggio”, instancabile animatore di mille iniziative.
Egli, “lungo, smilzo Tenente dei Granatieri, con gli occhi grifagni e il naso adunco, un vero fiorentino nel profilo e nel linguaggio”, nonostante le difficoltà, riesce in breve a fare del fascismo triestino, con il suo spericolato attivismo e le sue capacità organizzative, un sicuro punto di riferimento per tutto il movimento
La sede di via del Pozzo Bianco, che agli inizi funge soprattutto da centro di accoglienza e smistamento per i volontari diretti a Fiume, col passare del tempo diventa il punto di riferimento di tutti i “veri italiani” della città che, oltre alle minacce esterne, devono fronteggiare una forte presenza locale sovversiva che ha nel quartiere di San Giacomo e nel giornale “Il Lavoratore” i suoi centri di irradiazione.
È per questo che a metà maggio, in occasione dell’assemblea generale del Fascio, vengono formate ufficialmente le prime squadre d’azione, che fanno loro il motto coniato da D’Annunzio per il gagliardetto di un Reparto di mitraglieri legionari a Fiume: “me ne frego”.
La costituzione delle squadre avviene il 12 maggio: ogni squadra è formata da 30 a 50 elementi, è guidata da un ex Ufficiale ed ha assegnata la sorveglianza e la difesa di una zona della città, che è stata divisa in distretti, con criteri militari.
L’armamento individuale è il più vario: dal bastone alla sciabola, dalla pistola alla bomba a mano, e nelle occasioni di mobilitazione, la riunione degli uomini così “armati” è fissata nelle palestre di alcune scuole cittadine, da dove poi gli squadristi muoveranno sugli obiettivi assegnati.
La suggestione dell’esperienza bellica è forte all’interno delle squadre: vengono, infatti, prese precauzioni sussidiarie, come l’uso di un codice speciale per comunicare, e l’adozione di una parola d’ordine che varia di mese in mese. Anche la tessera del Fascio, per evitare contraffazioni ed infiltrazioni, è contrassegnata sul retro con una stella a cinque punte, non riproducibile.
Con questi espedienti, i fascisti vogliono evitare di restare vittime dello stesso scherzetto che sono soliti organizzare per i loro avversari, allorché, nelle giornate di maggiore agitazione sociale, arrivano da Fiume degli Arditi non conosciuti in città che si infiltrano, con vistosi garofani rossi all’occhiello, nei cortei e vanno su e giù per i quartieri rossi, in modo da tenere sotto controllo la situazione.
Il vero battesimo del fuoco avviene nella giornata del 13 luglio 1920, ed ha il suo antefatto in quanto successo due giorni prima a Spalato, dove, nel corso di violenti incidenti con la popolazione locale, sono stati uccisi due italiani: il Comandante Tommaso Gulli e il suo motorista Sottocapo Aldo Rossi, della nave “Puglia”.
Giunta la notizia in città il Fascio di Trieste organizza, in segno di protesta, per il giorno 13, alle ore 18,00, un comizio in piazza dell’Unità; mentre gli oratori si avvicendano sul palco, si verificano
incidenti tra squadristi e nuclei di sovversivi che si sono sistemati sotto i portici del Municipio. Viene così pugnalato a morte un simpatizzante fascista, il cuoco Giovanni Nini.
incidenti tra squadristi e nuclei di sovversivi che si sono sistemati sotto i portici del Municipio. Viene così pugnalato a morte un simpatizzante fascista, il cuoco Giovanni Nini.
Immediata la reazione dei compagni di fede dell’ucciso: Giunta balza giù dal palco, e si pone alla testa di un corteo che si dirige verso piazza della Borsa. Obiettivo dei manifestanti è l’hotel Balkan (“Narodmi Dom”, casa della cultura slovena, finanziata dal neonato Stato dei SHS – Regno dei Serbi-Croati-Sloveni -), sede cittadina delle organizzazioni slave e centro di propaganda anti italiana.
Il gran numero (si parla di varie decine di migliaia) dei manifestanti che si incolonnano dietro i dirigenti fascisti dà vita a tre distinti cortei (per via Roma, per via San Spiridione e per il Corso) che, all’arrivo, bloccano da tutti i lati l’imponente fortilizio del Balkan, che si presenta con ingressi sbarrati, saracinesche del pianoterra abbassate e finestre sprangate.
Con singolare analogia a quanto successo l’anno prima all’Avanti milanese, mentre la folla è ferma, incerta sul da farsi dalle finestre dell’hotel spunta una pistola e si inizia a far fuoco e a lanciare bombe sulla massa.
Come scriverà la relazione ufficiale delle Autorità: “Tutto si sarebbe probabilmente ridotto ad una manifestazione ostile, quando ad un tratto, da una finestra del Balkan fu gettata una grossa bomba, ferendo gravemente alcuni dimostranti”.
La scarica di fucileria è così forte e continua, che dalla vicina Caserma Oberdan accorrono, a dar manforte a quelle già in servizio di vigilanza, truppe con le mitragliatrici (tra i militari ci sarà un morto, il Tenente dei Carabinieri Luigi Casciana), mentre gli squadristi si appostano sui tetti degli stabili vicini per rispondere al fuoco, che dura per una ventina di minuti, e si conclude con la fuga, attraverso via d’uscita secondarie, di gran parte dei difensori del Balkan.
È a questo punto (siamo alle 19,30 circa) che, con una ritualità destinata diventare abituale e già sperimentata nell’assalto milanese del 15 aprile 1919, viene dato fuoco all’edificio. Accertatisi che all’interno non ci sia più nessuno (e, infatti, ci sarà solo una vittima, Hugen Roblek che si getta dall’edificio con in braccio la figlia, rimasta incolume), un gruppo di squadristi, comandato da Carlo Lupertina, si procura delle latte di benzina e procede alla bisogna
Le fiamme irradieranno i loro bagliori sulla città per diversi giorni, alimentate probabilmente anche dagli esplosivi ancora all’interno dello stabile, e senza che sia consentito ai vigili del fuoco di intervenire.
L’importanza dell’episodio del 13 luglio è rilevantissima, tanto da farlo giudicare “vero battesimo dello squadrismo organizzato”; nei fatti, esso ripropone, la validità e l’efficacia risolutiva di un’azione diretta contro i sovversivi che, a Trieste, sono anche “stranieri”, e dimostra, ancora una volta, che gli unici in grado di contrastare e sconfiggere i socialisti sullo stesso terreno sul quale essi sono stati fino adesso incontrastati dominatori, quello della violenza di piazza, sono i fascisti.
Prende corpo così il mito dell’invincibilità fascista (non più necessariamente “futurista” o “ardita”), al quale fa da contrappunto il declino dell’altra assoluta convinzione postbellica, quella dell’invincibilità e dell’imbattibilità socialista.
Mussolini, sul Popolo d’Italia parla di “capolavoro del fascismo triestino”, e veramente, le fiamme del Balkan danno una boccata di ossigeno ed un anelito di speranza per un ambiente compresso e da troppo tempo sulla difensiva.
Il vero trionfatore della giornata è Francesco Giunta: con alterne vicende sarà protagonista del fascismo anche negli anni a venire, fino ad aderire alla RSI. Arrestato e processato dopo la “liberazione”, traccerà, davanti al giudice (che lo manderà assolto) il bilancio della sua vita: “Sono stato un fascista ed uno squadrista convinto. Non lo rinnego. Ho creduto di servire il mio Paese e l’ho fatto col massimo disinteresse. Si è detto che sono stato un fazioso. Anche Gesù Cristo è stato un fazioso per i farisei. Ma io l’ho fatto per la mia fede e non l’ho mai rinnegato”