“ Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga…”
Questa la rivendicazione dell’eccidio di Acca Larentia firmata dai Nuclei armati per il conptropotere territoriale, forse di Autonomia Operaia.
Roma quartiere Tuscolano 7 gennaio 1978, ore 18 circa via Acca Larentia 28 è una sede missina. A quell’ora è già buio pesto, in sezione si tiene una riunione del Fronte della Gioventù. Sono ragazzi attivi sul territorio fanno attacchinaggio e si azzuffano coi rossi del liceo classico Augusto. Terminata la riunione in sede restano alcuni attivisti fra cui Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta. Quando i ragazzi escono dal portone per chiudere la sede, vengono assaliti da quattro o cinque (dopo tanti anni ancora non si sa con precisione) giovani armati che sparano con una mitraglietta Skorpion, arma che ha una lunga storia di sangue, appartenuta al cantante Jimmy Fontana verrà usata in altri agguati e sarà poi ritrovata a Milano in un covo delle Brigate Rosse dieci anni più tardi.
Bigonzetti, 20 anni, era cintura nera di judo. Iscritto al primo anno di Medicina, si pagava gli studi lavorando per una società addetta alla manutenzione stradale. Alle ragazze piaceva, nonostante la sua forte timidezza. Franco prima di uscire aveva lasciato un biglietto sul tavolo in sede “Siamo a Prati. Ci vediamo domani.”, appuntamento che non potè rispettare perchè fu il primo a essere falciato a sangue freddo.
Francesco Ciavatta, 18 anni, liceale, era un simpatico burlone. Amava andare in giro per il quartiere con il suo Boxer, un ciclomotore Piaggio assurto a icona dei giovani in quegli anni. Insieme a Maurizio Lupini, amico inseparabile, ne combinava di tutti i colori. Durante l’agguato cercò di fuggire verso le scalette poco lontano, fu raggiunto e colpito alla schiena, ferito gravemente, morirà sull’ambulanza durante il trasporto in ospedale.
Resta ferito in maniera non grave Vincenzo Segneri che si salva riuscendo a rientrare e a barricarsi, insieme a qualche altro, dentro la sede che aveva la porta blindata.
Subito dopo l’attacco la notizia vola per tutta Roma e l’intero popolo missino raggiunge la sede di Acca Larentia.
Fra loro Stefano Recchioni, 19 anni, frequenta la sezione di Colle Oppio, molto bravo con chitarra e pianoforte suona con il complesso dei Janus, il taglio degli occhi affilato, i capelli biondi e il sorriso spavaldo, è un artista completo oltre alla musica ama disegnare, la sede era piena di suoi manifesti dipinti a mano e scrive poesie. Gli piacevano De André e Guccini, e gli piaceva anche il paracadutismo Avrebbe militato nella Folgore per coronare un sogno accarezzato da tempo: librarsi in aria col paracadute.
I giovani accorsi davanti la sede sono sgomenti, animosi, gridano slogan, la tensione è altissima e tanto è il desiderio di vendetta. Il luogo pullula di Polizia e Carabinieri, di giornalisti e di cameramen della tv, tutti a riprendere, a girare intorno al luogo dove sono caduti Bigonzetti e Ciavatta e dove il selciato è ancora rosso del sangue versato. I giovani non tolleravano la mancanza di rispetto di questi avvoltoi dell’informazione, non volevano essere ripresi durante la loro protesta, sta di fatto che, quando un giornalista getta, una cicca di sigaretta a terra su quel sangue ancora caldo, iniziano a volare pugni calci e spintoni.
In una foto d’epoca, che nel tempo divenne famosa, si vede Gianfranco Fini accanto a Stefano Recchioni, ripresi pochi minuti prima che succedesse il secondo atto della tragedia. Allo scoppio della rissa Stefano si getta nella mischia mentre Fini, manco a dirlo, restò defilato dove si trovava.
I Carabinieri sparano ad altezza uomo e il capitano Franco Sivori colpisce a morte in piena fronte Stefano. Il militare sarà poi condannato per eccesso di legittima difesa, senza conseguenze per la sua carriera. Le versioni sulla morte di Stefano sono diverse e, nell’antologia del “depistaggio”, rientrano anche gli interventi in aula dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga.
Erano presenti sul luogo anche Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Franco Anselmi. Per questi tre l’ingiustificabile morte di quei giovani amici segnerà il battesimo dei NAR in un rito di morte e vendetta compiuto da Anselmi stesso che bagnò il passamontagna ancora sporco del sangue di Mantakas col sangue fresco di Bigonzetti. Proprio la morte di Stefano e quello che non fu fatto dal partito, determinò la rottura di molti giovani con l’MSI. Per la prima volta e per tre giorni i fascisti spareranno contro la polizia. E questo segnò un punto di non ritorno. Il 28 febbraio 1978 i NAR uccisero Roberto Scialabba di Lotta Continua, per vendicare i camerati caduti e la scia dei morti da ambo le parti era appena incominciata.
“Noi ragazzi venivamo usati per il servizio d’ordine ai comizi di Almirante, quando serviva gente pronta a prendere botte e a ridarle, ma in quell’occasione dimostrarono che se per difenderci bisognava prendere posizioni scomode, come denunciare i carabinieri e il loro comportamento, allora non valeva la pena” (Francesca Mambro)
Stefano Recchioni, che morì dopo due giorni di agonia, aveva gli occhi azzurri, la Mambro in seguito ebbe a dire che il suo ricordo degli anni di piombo era associato a quegli occhi azzurri che si chiudevano. Fu lei infatti una delle prime a soccorrerlo e a rendersi conto che stava morendo.
Stefano apparteneva a una famiglia di sinistra, il fratello Massimo era simpatizzante di Lotta Continua, questa la sua dichiarazione alla stampa:
“chi vuole questo fa pagare agli altri, i giovani, ma lui non paga mai di persona. No non mi sento di perdonare questa gente. Le idee di mio fratello non le approvavo prima e non le approvo ora, ma l’importanza delle idee è diversa dal valore delle persone. Se ora Stefano fosse qui proverei a parlare, ad ascoltare, a capire. E soprattutto vorrei ringraziarlo per tutte le cose che ha fatto per me”.
Da ambo le parti si avvertiva la sensazione di essere pedine del sistema e di un disegno molto più grande.
La strage lasciò strascichi non indifferenti tra i giovani e le loro famiglie Dopo poco tempo il padre di Francesco Ciavatta si suicidò bevendo, fino all’ultima goccia, l’acido muriatico contenuto in una bottiglietta. Fu ritrovato cadavere, senza labbra, nei giardinetti pubblici. Era originario di Montagano e oggi riposa insieme al figlio nel tranquillo cimitero di paese in terra molisana.
La scia delle morti non si fermò, il 10 gennaio dell’anno successivo in occasione della manifestazione per il primo anniversario di Acca Larentia, un altro giovane il diciassettenne Alberto Giaquinto viene ucciso da un agente in borghese.
Livia Todini militante di sinistra, nel 1988, fa incarcerare, accusandoli di essere gli esecutori della strage, i compagni di Lotta Continua: Cesare Cavallari, Fulvio Turrini, Francesco de Martiis e Mario Scrocca. Gli arrestati verranno assolti per insufficienza di prove, ma durante la detenzione preventiva, avvenuta in seguito alla confessione della pentita, Mario Scrocca, si impicca in carcere dopo aver dichiarato la sua innocenza nell’interrogatorio tenuto con i giudici che seguivano il caso.
Chi ha sparato ad Acca Larentia dunque per lo Stato Italiano, non fu mai arrestato e punito.
La lotta armata fu sicuramente un’esplosione di follia che portò alla guerra nelle strade contro lo Stato e la società, ma ha un sapore politico e di complicità istituzionale, fu diretta conseguenza di una pericolosa instabilità di governo e di un gioco torbido voluto e provocato dagli alti vertici, dai servizi segreti (coinvolti fin dalla strage di piazza Fontana) e nei cui tranelli sono caduti sia i giovani fascisti che quelli comunisti, con una conseguente degenerazione della violenza politica e dell’odio ideologico oltre che al mantenimento di uno stato di tensione caratteristico della prima repubblica.
Noi giovani militanti nelle varie sezioni d’Italia, venimmo accusati di essere stragisti, golpisti, di essere manovrati da forze retrive ed oscure, ci chiamavano “il braccio armato del potere”, ma eravamo invece innocenti , animati di buoni propositi e di sani ideali, morimmo per questo e quasi sempre senza ottenere giustizia e quando raramente si trovavano i colpevoli la giustizia si dimostrò strabica, figlia di uno Stato che strumentalizzava i giovani per mantenere la propria mediocrità e consolidare il potere nelle proprie mani sanguinanti.
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