Come avete potuto vedere, ho dedicato le parti cinquantesima e sessantesima di questa rubrica a una sorta di sunto, di sintesi del percorso finora fatto nella nostra ricerca, approfittando della sensazione che danno i numeri “tondi” di qualcosa di conclusivo, di aver raggiunto una meta.
Questo, non l’evidenzierò mai abbastanza, non perché io ritenga che Fabio Calabrese sia una persona particolarmente importante, né che qualche cosa sia importante perché affermato dal sottoscritto, ma perché la questione delle origini ha nella nostra visione del mondo un significato affatto centrale: sono le origini e la storia che abbiamo sin qui percorso a definire la nostra identità, come singoli e come comunità, come etnia, cioè precisamente quel che non vogliamo perdere, sotto l’aggressiva oppressione di una “cultura” mondialista e cosmopolita e la minaccia dello stravolgimento etnico, senza dimenticare il fatto che ciò che ci propongono (o ci impongono) la scuola, i mass media, tutte le “agenzie culturali”, è di segno esattamente opposto, e richiede di essere controbilanciato almeno nei limiti in cui le nostre forze ce lo consentono.
In altre parole, quel che è davvero importante non è sicuramente l’uomo ma l’idea.
Soprattutto dopo aver redatto la sessantesima parte, ho avuto la sensazione di aver lasciato il discorso incompleto (anche se una tematica come questa è forse impossibile da esaurire), e così stavolta ho deciso di non aspettare di aver raggiunto quota settanta per riprendere in mano il discorso di una sintesi complessiva degli argomenti sin qui trattati.
Noi abbiamo visto che la questione delle origini si può suddividere in quattro livelli: quello delle remote origini dell’umanità, quello dell’origine dei popoli indoeuropei, della civiltà europea, e infine di quel popolo o di quel complesso di popolazioni che conosciamo come italiche o italiane e di cui noi stessi, voglia o non voglia, facciamo parte.
La prima di queste questioni è stata affrontata su queste pagine con considerevole ampiezza, anche in ragione del fatto che qui c’è la mitologia fasulla dell’Out of Africa, trasformata in ortodossia “scientifica” imposta da controbattere, una “teoria” dai palesi intenti “democratici” e “antirazzisti” fatta apposta per farci accettare con rassegnazione la sostituzione etnica.
Anche riguardo alla terza questione, le origini della civiltà europea, c’è una quasi altrettanto pesante ortodossia democratica (ovvero, il che è uguale, menzogna di regime) da contrastare, quella che colloca a ogni costo l’origine della civiltà nella Mezzaluna Fertile mediorientale e nega il ruolo creativo dell’Europa, a dispetto dei grandi complessi megalitici che precedono di millenni le piramidi e le ziggurat, e dei molti altri elementi che abbiamo avuto modo di vedere. Questa parte del nostro discorso è stata sviluppata oltre che in questa rubrica, nella serie di articoli Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?, e anche a questo riguardo credo di aver sviluppato l’argomentazione in maniera sufficientemente completa.
Il quarto punto della nostra indagine sulle origini sembra essere una questione che non si affronta facilmente, sebbene anche qui noi abbiamo a che fare con una menzogna di regime che va respinta con la massima forza, quella che vorrebbe presentare il popolo italiano come unito dalla geografia molto ben caratterizzata geograficamente della nostra Penisola, da un (lieve, non illudiamoci!) collante culturale, ma da nient’altro, da nessuna coerenza etnica di sangue. In pratica, le canaglie marxiste e clericali che disgraziatamente ci governano (basterebbe questo per togliere ogni credibilità alla cosiddetta democrazia), sebbene robustamente smentite dalla genetica, vogliono convincerci di essere già adesso quello che vogliono farci diventare: un coacervo multietnico.
Non si ripeterà mai abbastanza che essere italiani non ha nulla a che vedere con il tricolore, l’inno di Mameli, la maglia azzurra, non significa nemmeno parlare la nostra lingua o essere nati sul nostro suolo, essere italiani significa essere di sangue italiano oppure non significa nulla.
E’ una questione difficile da affrontare, dicevo, che trova parecchie resistenze anche in ambienti “nostri”. Si vorrebbe essere padani, celti, longobardi, magni greci, bi-siculi (delle Due Sicilie), tutto meno che italiani, perché l’Italia da settant’anni ci si presenta col volto repellente e purulento di corruzione della democrazia antifascista, e diciamolo pure, si arrivasse un giorno a una Norimberga della democrazia, quello di aver distrutto negli Italiani il senso di appartenenza nazionale, non sarebbe il capo d’imputazione minore per i “signori” democratici. Ma non è di essere italiani che ci dobbiamo vergognare, è la democrazia antifascista che ci deve fare nausea e schifo.
Dei quattro livelli suddetti, quello che è rimasto più fuori, quello di cui mi sono occupato di meno, è il secondo, ossia la questione delle origini indoeuropee, e il motivo è facilmente intuibile: di indoeuropeistica dal nostro punto di vista si sono occupate firme ben più autorevoli della mia: Hanns F. K. Gunther, Julius Evola, Adriano Romualdi, Ernesto Roli, e anche il nostro Michele Ruzzai mi sembra più ferrato di me in proposito, tuttavia, una cosa importante su questa tematica credo di averla detta. La vulgata corrente dell’ortodossia “scientifica” di regime pretende che gli Indoeuropei fossero agricoltori di origine mediorientale che si sarebbero espansi in Europa e verso l’area indo-iranica attraverso l’Anatolia espandendosi alla ricerca di nuove terre.
Ora, come l’Out of Africa, l’origine mediorientale della civiltà, la presunta disomogeneità etnica degli Italiani, anche questo è un falso, una menzogna di regime. Oltre alla smentita fornita dai dati della genetica, che ci rivela una presenza di geni mediorientali in Europa troppo esigua per supportare una simile “teoria”, c’è un altro fatto che mettevo in luce: noi abbiamo diversi esempi storicamente accertati di questo tipo di espansione di comunità contadine, i più notevoli sono probabilmente l’antica Cina e l’India pre-ariana. In questi casi, c’è un’espansione lenta, duratura, che porta alla formazione di comunità popolose e relativamente omogenee, e non lascia sostrati, perché i cacciatori-raccoglitori nomadi sono in netta inferiorità demografica rispetto a essa, e sono rapidamente assorbiti o allontanati.
Non è quello che vediamo con l’espansione degli Indoeuropei nel nostro continente. Essa è “a macchia di leopardo” e lascia ampi sostrati e vaste aree di popolazione che in età antica parlavano lingue non di ceppo indoeuropeo, non si tratta di aree marginali, ma dei territori di importanti civiltà, come quella etrusca e quella minoica, è la situazione tipica di stati e culture nelle quali un’élite di conquistatori si sovrappone a popolazioni sottomesse. Gli Indoeuropei erano con ogni probabilità cavalieri e guerrieri nomadi provenienti dalle steppe eurasiatiche.
L’Idea che il nomadismo preceda sempre lo stadio dell’agricoltura sedentaria, che si passi dal cacciatore-raccoglitore all’allevatore e poi all’agricoltore come una sorta di evoluzione automatica e obbligata, faceva notare N. C. Doyto, è probabilmente errata, e circostanze diverse possono spingere al nomadismo una popolazione già sedentaria, l’eccedenza demografica in primis. Noi nella storia moderna abbiamo l’esempio di una popolazione già sedentaria trasformatasi in nomade, rappresentato dai pionieri del West. La conquista del nostro continente da parte degli Indoeuropei può ben aver seguito modalità paragonabili, anche se non ha verosimilmente portato allo sterminio delle popolazioni preesistenti.
Nella sessantesima parte ho fatto un excursus sugli articoli non compresi in Una Ahnenerbe casalinga nei quali avevo affrontato la questione delle origini a vario titolo. Un lavoro, come ho detto, che ha poche probabilità di essere esauriente, perché questo tema: da dove veniamo ritorna di continuo ogni volta che si cerca di rispondere alla domanda chi siamo?
Sempre partendo dall’ottica che quel che è importante sono le idee e non la persona che le ha espresse, e tanto meno i testi in cui sono espresse, che non si pretende certo abbiano una valenza da testo sapienziale, oltre quanto già esposto ci sono due nuclei tematici che rientrano in questo ambito, dei quali sarà utile fornire un piccolo riepilogo.
Non era possibile non parlare di queste tematiche anche in Scienza e democrazia, e in effetti la prima parte di questa serie di articoli è dedicata appunto alle democratiche falsificazioni della scienza storica e archeologica (anche se poi il discorso delle mistificazioni intese a conciliare forzatamente la ricerca scientifica con la “political correctness” democratica si estende a tutti i rami del sapere). Forse il caso più notevole che ho citato in questo articolo, è quello di Colin Renfrew. Questo ricercatore inglese, considerato uno dei più insigni studiosi della preistoria, e che per i suoi meriti “scientifici” è stato promosso barone (non semplicemente baronetto, “sir”) dalla Corona britannica, è stato uno dei principali assertori della “teoria” dell’origine mediorientale dei popoli indoeuropei e della civiltà in genere.
Bene, in un suo brano del 1972 che il nostro Felice Vinci ha puntualmente scovato e riportato in Omero nel Baltico, si contraddice apertamente. Le indicazioni emerse grazie all’analisi del radiocarbonio hanno difatti rivelato che l’Europa occidentale vanta sviluppi di civiltà significativi che vanno dalle costruzioni megalitiche alla lavorazione dei metalli, ben prima, qualche millennio prima delle culture mediorientali, da cui si supponeva invece che tali sviluppi derivassero. E’ poi superfluo dire che della riscrittura della preistoria e della storia antica che sarebbe dovuta derivare dalla “rivoluzione del radiocarbonio”, non si è vista traccia. Cosa volete che conti la realtà dei fatti, cosa volete che contino le prove, di fronte alle esigenze di un potere mondialista che mira quanto più possibile a deprimere l’idea che gli Europei hanno di loro stessi, in modo che offrano la minor resistenza possibile alla sostituzione etnica prevista dal piano Kalergi?
Apparentemente, la serie di articoli raccolta sotto il titolo Tra due fuochi, appare quanto di più lontano ci possa essere dalle tematiche delle origini, è attualità, e tragica attualità come dimostrano i ripetuti attacchi e le stragi compiute dal terrorismo islamico.
Tra due fuochi, perché è precisamente questa la situazione nella quale ci troviamo. Per quanto spiacevole ciò possa essere, è meglio prenderne atto piuttosto che nascondere la testa nella sabbia. Io non so se si possa parlare di scontro di civiltà o piuttosto di inciviltà fra “l’Occidente giudaico-cristiano” e l’islam. Quel che mi è chiaro, è che l’Europa si trova in mezzo, assediata da due nemici.
“Occidente” significa a conti fatti l’egemonia americana sul vecchio Continente, egemonia dietro la quale non è poi così difficile vedere lo zampino delle lobby sioniste che controllano ed esercitano il potere reale nella democrazia a stelle e strisce. Gli USA, occorre sottolinearlo, non esercitano sull’Europa semplicemente una dominazione, ma attraverso l’importazione di una “cultura” mediatica superficiale e fracassona che agisce come un veleno corrosivo, stanno gradualmente demolendo l’identità europea. Nessun occidentalismo alla Oriana Fallaci, la cui rabbia e il cui orgoglio sono quelli di una cagna fiera della propria catena.
Nello stesso tempo, non possiamo neppure essere islamofili. Su questo concetto ci sono nei nostri ambienti dei grandissimi equivoci perché oltre settant’anni fa i fascismi guardavano con simpatia all’islam soprattutto nella speranza di sollevare il mondo arabo-islamico contro gli imperi coloniali francese e britannico, ma oggi la situazione è radicalmente cambiata.
Oggi che queste popolazioni si riversano sull’Europa e non con intenti amichevoli come dimostra la lunga scia di attentati che abbiamo subito, persistere in questo atteggiamento è un suicidio.
Essere islamofili per anti-sionismo od “occidentalisti” per spirito anti-islamico, è come bere la stricnina per dimostrare che non ci piace il cianuro.
Tuttavia, ed è la ragione per cui ce ne occupiamo adesso, queste tematiche di attualità drammatica si saldano a un discorso più in generale sulle civiltà, la loro origine, la loro possibile morte. Basterebbe fare un nome, quello del grande Oswald Spengler cui si deve l’intuizione che non esiste LA civiltà, ma esistono LE civiltà. Intuizione a cui sarebbe solo da aggiungere l’osservazione che ogni civiltà crea la propria cultura, ma la base su cui questa cultura si sviluppa, e ciò che in ultima analisi determina il senso di appartenenza degli individui a essa, è un fatto etnico.
Islam contro cristianesimo? Non direi proprio: la contrapposizione fra mondo europeo e mondo mediorientale è più antica del cristianesimo e dell’islam, la ritroviamo nelle guerre puniche di Roma contro Cartagine, e prima ancora nelle guerre persiane tra la Grecia e un impero persiano che sarà anche stato guidato da un’élite indoeuropea, ma che era un vasto agglomerato di popoli mediorientali e asiatici. La religione potrà anche servire da bandiera a una o, come è successo in età medioevale, a entrambe le parti in conflitto, ma la vera ragion d’essere di questo conflitto non è religiosa, è etnica.
Viste le cose in questa prospettiva, si comprendono molte cose: prima di tutto l’impossibilità della cosiddetta integrazione: detto con brutale franchezza: o noi o loro, più spazio vitale si prendono loro, meno ne rimane per noi, le balineue degli immigrati sono altrettanto spazio che all’interno delle nostre città ha cessato di essere Europa.
In secondo luogo capiamo la natura del terrorismo islamico fondamentalista. Al di là delle motivazioni dichiarate e coscienti, più o meno condite di religione, esso ha il significato preciso di marcare il territorio, è un messaggio rivolto a noi che significa: “Guardate che questa non è più la vostra terra, adesso è terra nostra”.
Cosa c’è dall’altra parte è estremamente chiaro. Quello che resta da capire, è se negli Europei lo spirito delle Termopili, di Zama, di Poitiers, di Kosovo Polje, di Lepanto, è ormai morto o può ancora risvegliarsi.
NOTA: Nell’immagine che correda l’articolo, il monumento di Leonida alle Termopili.