Dove ti volgi c’è Mussolini, c’è del Fascismo. Per settimane sequenze del film Sono tornato, di Benito che si ritrova in questo nostro presente. Un film dalla pretesa di facile ironia, guitti e saltimbanchi, su imitazione di analoga operazione di un Hitler redivivo, più farsesco più cialtrone più adatto ad un pubblico abituato ai cinepanettoni natalizi. Con un certo imbarazzo l’attore confessa di aver girato molte scene tra un pubblico che lo esaltava in selfie a braccio teso. A strappare una facile risata o c’è altro di tacito e forte richiamo? Sfilano per le vie di Macerata, tra slogan duri e feroci e anacronistici, tra cartelli di stupido e volgare femminismo retti da giovani donne la cui fisiognomica legittima il disprezzo verso ogni forma di bellezza. E sempre il male assoluto – il Fascismo – a fare da collante. Negli anni Trenta Robert Brasillach intitolava, con altro spirito e diversi intenti, un capitolo de Il nostro Anteguerra Questo male del secolo, il Fascismo… Allora e oggi, quasi a saldarsi dopo circa ottanta anni. Eterna eco della ‘poesia del XX secolo’. Ecco perché mi ostino contro ‘gli indecenti e servili’ a narrare di uomini e donne che ci insegnarono come sempre lo stile anteceda la cretineria e arroganza del presunto intellettuale…Giovanna siede accanto al banchetto, allestito all’esposizione di oggettistica militare hotel Ergife con il basco grigioverde del SAF (il Servizio Ausiliario Femminile) i grandi occhiali neri a nascondere le cicatrici con cui le ricucirono le orbite ormai vuote. Era la notte del 21 ottobre 1940, Verona, fra i primi bombardamenti inglesi. A coprire la sorella e il fratellino con il suo corpo di adolescente (aveva quattordici anni). Un atto immediato d’amore. Il sangue che le cola sul volto il buio intorno a lei. Per sempre. E la luce interiore, inestinguibile fiamma, che l’accompagnerà tutta la vita. Siede e sfoglia un libro di raccolta fotografie, il Duce a Milano il 16 dicembre del ’44, il discorso al Lirico, il suo canto del cigno, per le strade della città ferita dalle bombe, in piedi su un carro armato della Leonessa.
La saluto, pronunciando il mio nome. Mi sorride. ‘Sto vedendo queste fotografie del Duce; sono commoventi e bellissime’. Dice proprio ‘vedere’ con tanta immediatezza e semplicità che mi rendo conto quanto sia reale per lei. Le sfiora con le dita. Mistero e fascino del linguaggio del corpo. Ora tocca a lei, con devozione ed affetto, percorrere le immagini del Capo del Fascismo, memore di quando le mani di Mussolini strinsero le sue avendo voluto incontrare le vittime civili di quella guerra feroce e totale. C’è una fotografia che la ritrae con un mazzo di fiori, incorniciata d’argento, nella sua abitazione a testimoniare quell’incontro. ‘E fu il calore di un momento…’, no, quell’attimo ha acceso una fiamma di Fede, inestinguibile. Allora il suo sacrificio diviene un dono sacro, oserei dire di gioiosa offerta, poca cosa forse nell’immane tragedia di uomini e popoli contro, ma pur sempre un dono da preservare integro e tale è rimasto. Accompagno alcune mie alunne da Giovanna per un sorta d’intervista, una tesina da portare all’esame di maturità sul Servizio Ausiliario Femminile, nato con decreto del 18 aprile ’44, in RSI, prima esperienza per consentire al mondo femminile di svolgere un ruolo attivo, di indossare l’uniforme. Nella sua breve esistenza accoglierà migliaia di giovani donne ‘in entusiasmo e umiltà di servizio’. E saranno, in quanto donne e in divisa, a pagare il prezzo più duro, la brutalità dei vincitori, del branco sulla preda più debole. (Altro che la volgarità l’indecenza la bruttezza di recenti immagini di ‘femministe’ a sfilare per le vie di Macerata con cartelli idioti e, questi sì, sessisti). Altresì sarà l’unico reparto della Repubblica che non riceverà l’ordine di scioglimento, consentendo loro di considerarsi in servizio permanente effettivo…
Penso a Gina Romeo, con i capelli folti e bianchi (vi ironizza sopra quale regalo dei partigiani che la rasarono in piazza, a Vimercate), minuta e silenziosa, con la camicia nera e il distintivo sul petto (mi confida d’essersi fatta confezionare una veste del medesimo colore per quando verrà sepolta), seduta tra il pubblico alla presentazione di Atmosfere in nero, raccolta di racconti dove narro anche di lei (dopo averne chiesto il permesso). L’orgoglio di aver partecipato al primo corso, Avanguardia, del SAF, di essersi imposte mantenere ‘il nero’ a chi le voleva inquadrate in grigioverde, della cattura da parte partigiana (vennero riconosciute – erano in quattro – dagli scarponcini militari), denudate, il seno e il pube dipinti con vernice rossa, esibite per le vie della cittadina, le ciocche di capelli ‘donate’ a Stalin, la cella e – dopo essere stata liberata dagli alleati – per giorni settimane svegliarsi in piena notte urlando e sudata al ricordo dei corpi brutali e infami su di lei. Eppure è qui, fiera e umile al contempo, a difendere senza rimpianti e rancori la sua scelta. A Roberta, che s’è prestata a introdurre il libro e che, volendola conoscere, l’ha ringraziata per l’esempio che ha donato, ha risposto ‘Dovere’. Un mozzicone di parola, sussurrato, quasi con timidezza, un macigno un intero vocabolario di idee valori uomini e donne in armi ben più nobile e significante di troppe chiacchiere conferenze libri (compresi i miei, va da sè) di tutti gli ‘indecenti e servili’ che banchettano sulla storia per farsi tronfi, mentre altro non sono che spennati galletti, senza gloria…
Saliamo al quinto piano. L’appartamento si caratterizza per l’ordine meticoloso, le finestre si aprono verso la periferia romana là dove la città si estende verso il mare. La serenità nel raccontare, il tono pacato, l’istintivo e naturale desiderio di sentirsi coinvolta di coinvolgere. I sentimenti non sottostanno alla diversità generazionale, spiega, poi, riflettendo, aggiunge ‘noi, però, non conoscevamo la parola problemi’ (lezione, che mi è rimasta impressa, in tempi in cui lo psicanalista imperversa e, per un niente, tutti ci sentiamo ‘depressi’…). Mi conferma come sono esistite due forme inconciliabili d’Italia, prima del ’45 una fiera e semplice, nonostante le sue illusioni e forse qualche inganno di troppo; l’altra plebea e consumista e accattona nella quale siamo immersi. Racconta di come si era rivolta direttamente al Duce (non pronuncia mai, per rispetto, il nome di Mussolini), in un incontro a Gargnano, per essere arruolata nella GNR, dopo che s’era sentita rifiutare per la sua menomazione. Come se la sua cecità fosse colpa e non il prezzo pagato alla Causa. L’adesione alla RSI di tutta la famiglia e del fratellino Aldo – ‘i miei occhi’, lo definisce –, divenuto la mascotte della Brigata Nera di Verona e, non aveva ancora compiuto i quindici anni, assassinati in riva all’Adige, tre mesi dalla fine del conflitto. Le umiliazioni e l’ingiuria e l’insulto e le difficoltà in un paese ostile o indifferente mai però un rimorso il rimpianto o il rancore. ‘La vita mi ha dato tanto amore…’, quasi un testamento nobile ed alto. (Dodici volumi, numerati e rilegati con robusta copertina nera, una lunga intervista documenti fotografie su Léon Degrelle, in lingua francese e inediti in Italia. E’ regalo di Giovanna. Me li porta durante una cena di Combattenti della Repubblica. Li ha recuperati in Belgio, eredità di un matrimonio breve e sfortunato con un militante del Rexismo, rifugiato a Roma. Un dono che va ben oltre. Lo accolgo a riconoscimento, immeritato, per l’impegno a difendere ed esaltare la loro storia. E tanto mi basta e sono io a ricevere e non certo loro da me).
Mi telefona Gina. Mi chiede di accompagnarla al cinema a vedere Il sangue dei vinti. Esito, ma non mi posso sottrarre. Ho visto in televisione alcune sequenze, quelle dello stupro e dell’impiccagione di una ausiliaria. Come le vivrà Gina che ha condiviso e patito una esperienza analoga, mi chiedo. Vilmente, lo confesso, mi organizzo e con altri camerati si va. Usciamo dopo la proiezione. Con cautela cerco di raccogliere le sue impressioni. E’ serena. Ricorda come, da ausiliarie della GNR, non usassero armi. Poi, in confidenza, mi bisbiglia che sì il film l’è piaciuto anche se, avendo un paio di scarpe strette, se l’è sfilate nel buio della sala… Anche per lei il sacrificio la violenza subita l’oltraggio sono un dono, poca cosa in fondo per il Fascismo, quell’Idea che le ha preso mente e cuore. Per sempre. Giovanna, Gina… Mi tornano a mente gli ultimi versi del Canto LXXIII di Pound, uno dei due scritto direttamente in italiano: ‘Ma che ragazza! – che ragazze, – che ragazzi – portan’ il nero!’. L’anagrafe, impietosa, ci ha sottratto della loro presenza, non può privarci però che ci si volga loro con il nostro sincero e fedele ‘Presente!’.
Mario Michele Merlino