di Giovanni Sessa
Riccardo Rosati, da anni, cura per “il Borghese”, una rubrica dedicata alla museologia e all’arte. Ha da poco dato alle
Il Museo di Alessandria era sede di una comunità consacrata alle Muse “le dee che tutto sanno e quindi sono all’origine di ogni vero sapere” (p. 5). Alle Muse, ad Apollo Musagete, a Mnemosine ed Ermes “dovevano sacrificare coloro che svolgevano una funzione paideutica e si occupavano dell’educazione e della formazione dei giovani” (p. 6). La dottrina antimoderna della bellezza, di cui Rosati si fa latore, come Coomaraswamy ha ricordato all’uomo contemporaneo, si fonda sulla ferma convinzione che il bello rappresenti una qualità essenziale del Principio. Da ciò consegue che un essere “è bello nella misura in cui partecipa della bellezza divina” (p. 7). Alla luce di tale convincimento, i musei d’arte antica, medievale ed asiatica, potrebbero svolgere un’eminente funzione educativa, qualora facessero appello, più che al sentimento ed al pathos, come oggi accade prevalentemente, all’intelletto dei visitatori. Inutile dire che la facoltà intellettuale cui qui ci si richiama, poco ha a che fare con la ratio moderna. L’arte, intesa in senso antimoderno, non procura piacere sensoriale, ma è Via che apre alla Conoscenza metafisica.
E’ bene, inoltre, che il lettore sappia che le pagine di Rosati sono un’esplicita “dichiarazione di guerra” nei confronti della “dittatura del brutto”, che domina incontrastata i nostri giorni. Lo si evince, in particolare, dagli scritti che discutono la situazione attuale della cultura in Italia. Premessa generale di quest’opera è la convinzione che il Museo debba essere pensato quale tempio della memoria di un popolo, in un momento in cui la realtà museale sta perdendo la propria specifica identità, ridotta, com’è, “a luogo dove avvengono ‘cose’: incontri, mostre, presentazioni di libri. Della sua anima[…] non interessa ormai a nessuno” (p. 10). Ciò ha indotto una confusione di giudizi senza precedenti: per troppo tempo il potere culturale ha, ad esempio, imposto mediaticamente la superiorità del Louvre, nei confronti dei Musei Vaticani. Finalmente tale giudizio inappropriato è stato, con coraggio, ribaltato da Vittorio Sgarbi che, in sintonia con quanto affermato da tempo da Rosati, ha sostenuto l’ineguagliabile splendore e l’italianità dei Vaticani.
L’autore accompagna il lettore nelle sale di numerosi e disparati musei del nostro paese, nella maggior parte dei casi poco conosciuti dal grande pubblico. Questo viaggio museale è facilitato dalla contestualizzazione storica, assolutamente fruibile, e dalla capacità critica, resa convincente dalla penna dell’autore. Questi presenta, innanzitutto i Musei militari, in quanto “L’Italia, oltre ad essere la Patria del Bello, è altresì un’autentica enciclopedia militare fattasi territorio” (p. 15). Non vengono trascurate neppure le collezioni di balocchi. Una di esse, che raccoglie oltre 30.000 pezzi, si trova a Roma nei magazzini della Centrale Montemartini, ma non è fruibile per gli errori di politici sprovveduti e per le consuete pastoie burocratiche. Vi è, invece, al Pigneto di Roma, la raccolta di giocattoli denominata “La memoria giocosa”. Questi luoghi “costituiscono una sorta di percorso parallelo all’evoluzione storica e sociale delle epoche che i medesimi riproducono” (p. 19). Alla varietà e ricchezza dei beni museali, in Italia fa da contrappunto “la figura del museologo, immancabilmente arrangiata”. A tale sconfortante considerazione, si somma la chiusura di istituzioni prestigiose, di luoghi di ricerca d’eccellenza, quali l’ IsIAO.
L’autore si occupa del parco storico di “Piano delle Orme”, presso Latina, lasciatoci in eredità da Mariano De Pasquale. In esso vengono ricordate tanto le vicende agrarie, quanto quelle belliche dell’Agro pontino, attraverso numerosissime testimonianze raccolte dal fondatore. Passando ad altro ambito culturale, Rosati presenta Il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, dove sono custodite insigni raccolte relative alla vita teatrale e musicale di Trieste e del mondo. Altrettanto rilevante è il Museo di Antropologia ed Etnologia, sezione del Museo di Storia naturale di Firenze, fondato da Paolo Mantegazza nel 1869. L’intenzione di questo studioso, effettivamente concretizzata, era “quella di documentare tutte le popolazioni del mondo[…]non europeo” (p. 42). Interessanti risultano i saggi dell’autore relativi alle mostre, in particolare quelli dedicati a Sironi e all’ EUR. Stimolanti i “viaggi” nelle collezioni della Cina imperiale.
Quello lanciato da Rosati è un grido d’allarme. Riuscirà la Bellezza custodita in Italia a sopravvivere ai proclami e al non-pensiero di Franceschini e simili? Ai posteri l’ardua sentenza.