“La nostra Città non perirà per volontà di Zeus:
non è questo il destino, non è questo il disegno degli Dei.
Una tale custode, magnanima, dal padre possente,
Pallade Atena, tiene le mani dall’alto su di noi.
I cittadini, con le loro stoltezze, vogliono distruggere,
proprio loro, la grande Città, corrotti dal denaro.
Ingiusta è la mente dei capi del popolo, cui incombe
patire molti dolori per grande tracotanza.
Essi non sanno contenere l’insolenza, né attendere
alle gioie lecite, nella pace del banchetto.
* * *
si arricchiscono sedotti da azioni ingiuste
* * *
non risparmiando proprietà sacre né pubbliche,
rubano e rapinano, chi da una parte chi da un’altra.
Non curano i sacri fondamenti di Giustizia
che, silenziosa, conosce ciò che avviene e che avvenne
e, col tempo, arriva per punire.
Questa piaga, cui non si può sfuggire, pervade tutta la Città;
ed essa cade presto nell’odiosa servitù,
che desta la rivolta civile e la guerra assopita,
e tanta bella gioventù andrà a morte.
A causa dei nemici, la Città molto amata
si consuma in alleanze care agli ingiusti.
Questi mali fra il popolo si aggirano; dei poveri
molti giungono nei paesi stranieri,
venduti e legati a turpi catene.
* * *
Così, il male pubblico raggiunge in casa ciascuno;
e la porta del cortile non riesce a trattenerlo:
oltre l’alto muro salta, e ti stana comunque,
anche se ti sei rifugiato nella parte più interna della casa.
Questi insegnamenti l’animo mi spinge a dare agli Ateniesi:
Cattivo Governo genera molti mali alla città;
Buon Governo ogni cosa fa vedere corretta e in ordine.
Spesso, attorno agli ingiusti getta ceppi:
leviga le asperità, fa cessare l’alterigia, oscura la tracotanza;
dissecca i germogli nascenti della sventura;
le storte sentenze raddrizza, mitiga
le azioni superbe; interrompe le opere della discordia;
pone fine al rancore della funesta contesa. Con lui
tutto fra gli uomini è misura e saggezza.”
Solone fr. 4
Con questo primo articolo, colgo l’occasione per ringraziare EreticaMente per lo spazio concessomi: cercherò di contribuire alla diffusione di conoscenza, in particolare a proposito di fatti generalmente poco noti relativi all’antichità, ossia relativi ai nostri Antenati e agli insegnamenti ed esempi immortali che ci hanno lasciato in eredità, affinché fossero a disposizione anche delle generazioni future, la nostra e quelle che verranno.
Un tema che ha certamente subito molte deformazioni e scorrette trasmissioni è il ‘mito’ della democrazia ateniese: fin dalle elementari, viene insegnato ai bambini che si deve essere grati agli Ateniesi soprattutto perché crearono un nuovissimo sistema politico, noto come demos-kratia, radice e fonte di tutte le moderne democrazie occidentali. Quello che, però, si tace è che la democrazia fu la causa prima della rovina cui andò incontro la gloriosa città di Pallade: infatti, quello che non si racconta ai bambini – e tanto meno agli adulti – è che l’esperimento democratico fu tutt’altro che un successo ed ebbe conseguenze catastrofiche, non solo per Atene ma per l’intera Ellade, fino almeno ai tempi del divino Alessandro. Questo per un motivo molto semplice: la profonda adikia che è tratto caratteristico della democrazia. In altre parole, come affermano i Sapienti, la sovranità viene da Zeus (cfr. il modello teologico dei Tre Re, ma soprattutto:
“la scienza politica si trova soprattutto presso il grande Zeus… e Zeus invia Hermes per portare agli uomini assennatezza e pudore, ed in generale la scienza politica” Proclo, Theol. V 88, 15-25)
– e, per questo motivo, la democrazia, invertendo il modello divino, storpiandolo, non può che essere causa dei mali più grandi, come, al contrario, un modello politico in accordo con il paradigma divino è sempre causa dei più grandi beni – l’Eunomia ed il buon governo, di cui parla Solone nel frammento sopra citato.
Ecco perché le Leggi di Licurgo sono così strettamente legate all’Oracolo e Sparta può vantare quindi “la costituzione più bella”; ecco perché, nella stessa Atene, la figura dell’Arconte Re, il Basileus, mantenne sempre inalterato almeno il suo potere religioso (“colui che dirigeva praticamente tutti i sacrifici ancestrali”, come risulta evidente dal Calendario Religioso Ateniese), dal momento che nessuno osò negare, neppure in pieno V secolo, la sacralità connessa con il Re. Non dimentichiamo inoltre che i più importanti genoisacerdotali – Eumolpidai (genos degli Ierofanti), Erysichthonidai (strettamente associati con il culto di Apollo Pythios e Patroos), Eteoboutadai (da cui venivano le sacerdotesse di Atena Polias e Parthenos – principale culto di Atene, infatti questa sacerdotessa aveva materialmente e simbolicamente le “chiavi della Città” – e da cui venivano anche i sacerdoti di Poseidon Erechtheos. In altre parole, i due maggiori culti gentilizi di Atene, insieme a quello prima menzionato di Apollo Patroos) – furono sempre, come è naturale, di ‘fazione aristocratica’, non solo in merito alle questioni interne di Atene, ma in senso più ampio. Un ottimo esempio fu quello che fece lo Ierofante Archia: Pelopida ed i democratici tebani intendevano, con un ‘colpo di mano’, rovesciare il governo aristocratico in Tebe e distruggere la guarnigione spartana che li supportava. Ebbene, colui che informò gli aristocratici, aiutandoli a salvare ancora per qualche tempo, il governo aristocratico, fu proprio Archia, somma autorità, a quel tempo (379 aev), del Santuario di Eleusi.
Molti studiosi, che non comprendono e non tengono in considerazione la profonda Eusebeia/Pietas degli Antenati, non si spiegano questi avvenimenti e, solitamente, sorvolano e tendono ad ignorare segnali importantissimi, che ci permettono invece di conoscere tutta un’altra storia rispetto a quella che cercano di far passare per vera. La chiave per comprendere le motivazioni profonde dell’avversione dei nobili sacerdoti nei confronti della demos-kratia, e dei conseguenti demagoghi e sofisti dell’agorà, è Protagora. Questo personaggio, ben noto a tutti per la sua celebre quanto empia frase “l’uomo è misura di tutte le cose” (cfr. l’opposta affermazione platonica e neoplatonica “il Dio è misura di tutte le cose”), è appunto la chiave per comprendere cosa vi sia di davvero empio e sgradito agli Dei nella democrazia: Protagora fu, in un certo senso, l’ideologo di Pericle, quindi i principi agnostici e relativistici del sofista sono tutti rintracciabili nel sistema politico che Pericle portò a compimento, prima di morire a causa di una… saetta del Dio di Delfi! Non dobbiamo inoltre dimenticare che Protagora fu costretto all’esilio da Atene e che i suoi testi furono bruciati pubblicamente, perché contenenti dottrine contrarie alle Leggi sacre e a quelle ‘non scritte’ (cfr. Filostrato, Vite dei sofisti I, 10, per maggiori dettagli). Qualcuno potrebbe rimanere sorpreso di fronte a questa azione – da tener comunque presente che le accuse di asebeiaerano appunto valutate dall’Arconte Basileus, mai da corti popolari tout court – bisogna però tener conto di un fatto: Protagora fu uno dei primi ad affermare pubblicamente che non si poteva essere certi dell’esistenza degli Dei. Arrivare a pensare di negare l’esistenza degli Dei (lo stesso motivo per cui i cristiani vennero poi definiti ‘atei’ dai Sapienti) è il più alto grado di hybris e di empietà possibile, e l’empietà è, come abbiamo detto, sempre causa di grandi sciagure, in quanto allontana gli uomini dagli Dei, e sottrae di conseguenza ai mortali la possibilità di partecipare ai doni elargiti dagli Dei in maniera conveniente ed abbondante, come invece accade quando gli uomini agiscono in accordo alla “volontà di forma simile al Bene”, che è, infatti, causa di tutte le cose belle e buone.
Esemplificazione pratica di questo enunciato, ossia il “caso ateniese”: quando gli Ateniesi affrontarono i barbari a Maratona, quando ancora mantenevano quasi inalterato il culto patrio e la Patrios Politeia, quando i sacerdoti presero parte alla battaglia, gli stessi Dei furono al fianco dei mortali ed uno scontro che sembrava lasciare poche speranze agli Ateniesi, si risolse in una fulgida vittoria. Al contrario, solo pochi anni dopo, sotto la guida di Pericle e del suo ateo ideologo, dopo aver stravolto tutte le leggi ancestrali, all’alba della rovinosa guerra del Peloponneso, il Dio di Delfi annunciò agli Spartani che li avrebbe assistiti nella guerra contro la hybris ateniese che stava flagellando gli Elleni, “invocato o meno” – la peste colpì poco dopo la Città, i morti aumentarono a dismisura, fino a giungere alla resa totale di Atene… per il suo stesso bene!
La V Legge Delfica afferma: “sii sopraffatto da Dike”, Giustizia che siede accanto al trono di Zeus e riferisce al Padre di Dei e uomini qualsiasi, seppur piccola, violazione delle leggi divine; già Omero (Iliade 16.388) lascia intendere molto chiaramente che Zeus ‘punirà’ quelle città che consentono la violazione delle Leggi da Lui stesso emanate – del resto, non è infrequente trovare negli scritti degli Antichi la connessione fra adikia e disastro, fra empietà e sconfitta. Ho lasciato fra virgolette il verbo ‘punire’, perché nella Tradizione Ellenica è assente l’idea di una divinità irata che punisce i mortali, la prospettiva è opposta: gli Dei non sono soggetti alle passioni legate al mondo del divenire e sono solo causa di bene, secondo il celebre assioma platonico. Pertanto, sono i mortali, con le loro follie, ad auto-infliggersi i mali, mali che nascono appunto dall’ignoranza di ciò che è bene sia a livello generale sia a livello individuale, ed anche a causa della mancanza di misura, di attaccamento al bello e al buono, della mancanza di giuste azioni compiute con spirito disinteressato, per onorare proprio quella figlia di Zeus e Themis che è grandissima benefattrice del genere umano.
Perciò, fatte tutte queste considerazioni, è evidente che, quando il sistema democratico trionfò definitivamente attorno alla metà del V secolo, gli aristocratici si trovarono nella condizione di dover spezzare a tutti i costi quella perniciosa forma di hybris, quella forma di governo che, come vedremo, poneva – e pone – al primo posto i peggiori e così violava una delle norme basilari della Giustizia: onora i migliori, e che i buoni guidino coloro che sono lontani dalla perfezione, per il bene comune. Parlo di vera e propria necessità, dal momento che la nobile città di Pallade, definita “ornamento dell’intera Europa” (Aretalogia di Maronea), sprofondava giorno per giorno, allontanandosi drammaticamente dallo splendore dei tempi – tanto per fare un esempio lampante – dei Pisistratidi o dello stesso Solone, senza menzionare i tempi aurei delle stirpi reali discese dagli Dei stessi. Basta leggere le commedie di Aristofane per avere un quadro chiarissimo della degenerazione dei costumi cui erano costretti ad assistere quotidianamente i sacerdoti ed i nobili: loschi personaggi che, imbonendo il popolo in assemblea, riuscivano ad ottenere la direzione degli affari dello Stato; empietà dilagante, favorita dalla circolazione di dottrine atee come quelle sopra nominate; strapotere dei tribunali popolari, in cui si rischiava di venir condannati alla pena capitale solo perché invisi alla massa che regnava sovrana, in sfregio all’antichissimo potere dell’Areopago, sancito da Atena stessa ed ormai ridotto a nulla – si legga con attenzione, per avere un’idea chiara della situazione, questo passo delle Rane di Aristofane:
“Così anche tra i cittadini, quelli che conosciamo per nobili, saggi, giusti, educati nelle palestre, alla danza, alla musica, questi li scartiamo, e ci avvaliamo invece delle facce di bronzo, forestieri, furfanti e figli di furfanti, gli ultimi venuti, che un tempo la città non avrebbe usato nemmeno come capri espiatori.” (Rane vv. 727-733)
Il tema di questa commedia è noto, ma sarà bene descriverlo nuovamente, insieme ad un breve riepilogo degli ultimi anni del V secolo, in quanto estremamente utile per meglio comprendere: come abbiamo detto, la Città stava andando in rovina (guarda caso, la commedia fu rappresentata nell’inverno del 405, ossia un anno prima che Atene cadesse definitivamente nel 404; nell’estate successiva alla rappresentazione delle Rane, avvenne infatti la disastrosa battaglia di Egospotami). Notare la successione degli eventi, un altro segno lampante: 410, armistizio con i persiani, ripristino della costituzione democratica dopo la caduta del governo aristocratico dei 400; 409, trionfale ritorno di Alcibiade, nonostante tutte le empietà perpetrate – 407, sua caduta definitiva; 406, l’assurdo e tragico processo ai vincitori delle Arginuse; ed infine, 405 aev, battaglia di Egospotami; 404, Lisandro occupa il Pireo e finalmente, “al suono dei flauti”, gli aristocratici in esilio fanno ritorno e ripristinano, per qualche tempo, la Patrios Politeia ed il primato dell’Areopago.
Ritornando alla commedia, Dioniso decide dunque di recarsi nell’Ade per riportare in vita un tragediografo affinché salvi la Città, tornando ad ammaestrare i cittadini; all’inizio ha in mente Euripide, salvo poi optare per Eschilo (sempre per ‘caso’: Eschilo di Eleusi, combattente a Maratona ed amatissimo dagli aristocratici per l’alto valore etico e spirituale della sua poesia). Il modo in cui si chiude l’opera è esemplare e merita di essere citato interamente:
(Esce dalla casa di Plutone un corteo, guidato da Dioniso – n.d.r. tutta la commedia è ricca di rimandi ai Misteri di Eleusi)
Plutone: Arrivederci Eschilo. Va’ a salvare la nostra città, con buoni consigli ammaestra gli imbecilli: abbondano.
(gli porge una spada, dei capestri ed infine una coppa di cicuta)
Prendi questa e portala a Cleofonte (celebre demagogo e democratico radicale della fine del V secolo) e questi ai gabellieri, siano essi Mirmece o Nicomaco, e quest’altra ad Archenomo. Ma digli di venire giù da me più presto che possono, senza tardare. E se non arrivano subito li vado a marchiare, proprio io, per Apollo, col ferro rovente e, legati mani e piedi, li sbatto sotto terra con Adimanto, il figlio di Leucolofo (da non confondere perciò con il fratello di Platone)…
(Plutone al coro)
Accendete dunque per il nostro amico le sacre fiaccole, accompagnatelo intonando i suoi stessi canti e le sue melodie.
Coro: innanzitutto assicurate un buon viaggio al poeta che si accinge a tornare alla luce, voi Daimones sotterranei; alla Città buoni consigli per una migliore fortuna. Saremo così totalmente liberati da questa grave angoscia della sofferenza di scontrarci in armi (da intendere sia come guerra civile interna, che contrapponeva Ateniesi aristocratici e democratici, sia come ‘guerra civile’ interna all’Ellade, che invece doveva – e deve – essere unita contro i barbari). Pensi Cleofonte o chi altro voglia di costoro a combattere nelle patrie lande!”
Dunque, la situazione era ed è chiarissima: la democrazia condusse Atene alla rovina (“gli Ateniesi prevedevano di dover subire il medesimo trattamento, durissimo, che avevano inflitto ai Melii (…) e agli abitanti di Istiea, Scirone, Torone, Egina, e a tanti altri Elleni” – cfr. Sen. Hell. II.2), tanto che, effettivamente, durante la riunione dei symmachoi, i Tebani, i Corinzi e altri alleati proposero di radere al suolo la Città e trasformarla in terra da pascolo – fu Lisandro, e tutta la fazione guidata da Sparta, “la polische vanta la costituzione più bella”, ad opporsi e ad impedire anche che tutta la popolazione fosse ridotta in schiavitù. In altre parole, gli Spartani e gli aristocratici Ateniesi volevano salvare la Città di Pallade dalla rovina cui la democrazia e l’ateismo l’avevano condotta – tutta la Città, incluso il demos, che sarebbe stato ricondotto dalla hybris all’Eusebeia grazie alla sophrosyne – moderazione, sapienza – dei béltistoi, dei migliori. Che cosa si debba intendere con il ‘modello politico basato sulla sophrosyne’ lo spiega direttamente un discendente di Crizia e Carmide, il divino Platone (non a caso, proprio nel Carmide, cfr. 171-d):
“ci sarebbe di grandissima utilità, diciamo, possedere la sophrosyne: infatti vivremmo esenti da errore, noi stessi che possediamo l’assennatezza e tutti gli altri, quanti fossero governati da noi. E difatti non cercheremmo di fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che sappiano, le affideremmo a loro, né permetteremmo agli altri, sui quali esercitiamo il comando, di fare nient’altro se non ciò che potrebbero fare bene, e questo sarebbe ciò di cui abbiano scienza; così, una casa amministrata dall’assennatezza sarebbe ben amministrata, una città ben governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l’assennatezza…”
Non è dunque un caso che proprio Crizia, in un breve frammento sulla costituzione degli Spartani (DK 88 B 33), affermi che la moderazione, la via di areté, conduce a Hygeia, “alla più gradita per gli uomini fra le divinità, Salute, e a Sophrosyne, vicina di Pietà religiosa (Eusebeia).” Qui ritorniamo al punto di partenza, ossia alla hybris congenita alla democrazia: Crizia fa elegantemente uso di una metafora – si riferisce infatti ai differenti modelli di simposio, quello moderato e aristocratico, in antitesi a quello volgare e democratico, quello dei “brutti discorsi” e degli avvinazzati che cantano carmi simposiali di bassissima qualità, skoliacome quelli che Aristofane (Vespe1222) considera usuali per convitati che “sono un’infilata di cleoniani in presenza del loro capo” – perciò, intende appunto evidenziare che, in ogni ambito, il modello democratico sovvertiva sempre i valori fondamentali della Sophia tradizionale: bellezza, appropriatezza, misura e dominio delle passioni; in altre parole, questo frammento non è una ‘tirata moraleggiante’ sul simposio, è piuttosto una ripresa ed un mettere in evidenza la superiorità, sempre ed ovunque, dell’areté, della sophrosyne e, di conseguenza, della pietà religiosa.
Possiamo infine ricordare, per completare questo breve scorcio sulla prima forma di democrazia, quella ateniese, il monumento funebre dedicato agli aristocratici periti durante la battaglia di Mounychia, fra loro anche Crizia e Carmide: Anche questo sta ad indicare il regime politico dei Trenta. Infatti, morto Crizia, uno dei Trenta, eressero sopra il suo sepolcro Oligarchia che tiene una fiaccola e che dà fuoco a Democrazia, ed incisero queste parole:
“Questo è il sepolcro di uomini buoni che per qualche tempo frenarono il maledetto popolo ateniese dall’hybris” (Μνῆμα τóδ’ἔστ’ἀνδρῶν ἀγαθῶν, οἳ τὸν κατάρατον δῆμον Ἀθηναίων ὀλίγον χρóνον ὕβριος ἔσχον)
– da notare che questo monumento fu certamente eretto fra il 403 ed il 401, gli anni in cui gli aristocratici sopravvissuti si ritirarono ad Eleusi, trasformando la città sacra in uno stato aristocratico separato. Il popolo viene definito ‘maledetto’, in quanto non esiste sciagura più grande del preparare la propria rovina, consapevolmente evitando qualsiasi strumento di guarigione: come chi, ammalato, rifiutasse qualsiasi cura, credendosi perfettamente sano… non è forse da considerare folle e maledetto un simile sciocco individuo? Per di più, la sua follia è causata dalla hybris, perciò, rimanendo nella metafora dell’ammalato, è come se costui non solo rifiutasse le cure dei medici, ma si ostinasse anche a non rendere omaggio ad Asclepio, tenendo il Dio in nessun conto, perché, come appunto diceva Protagora “chi può sapere se gli Dei esistono?” Però, come in tutte le circostanze avverse, gli Dei inviano sempre giusti, sapienti ed iniziati per indicare ai mortali la via dell’Eusebeia, ad ogni livello: infatti, le tenebre della democrazia del IV secolo ebbero vita breve, e nemmeno dopo un secolo dalla caduta dei Trenta, si manifestò il divino figlio di Zeus, Alessandro, distruttore di ogni barbarie e propagatore dei valori Ellenici, dell’areté e della pietà religiosa – valori che sono parte fondamentale anche della scienza politica, una delle principali virtù dell’essere umano. Sophrosyne, Dike ed Eusebeia trovano dunque la loro massima espressione nel sistema aristocratico, come spiega il divino Proclo:
“Se dunque la giustizia caratterizza la virtù politica, come può non essere una conseguenza necessaria che la giustizia sia per ciascuna anima la costituzione, ed al contempo che la costituzione nel suo autentico significato sia per ogni città la giustizia? Pertanto non dobbiamo dire che due sono gli scopi (della Politeia), ma uno solo che riguarda allo stesso tempo la giustizia politica e la costituzione migliore, e che l’indagine ha preso le mosse dalla giustizia in quanto costituzione di un singolo individuo, poi si è spostata a quella sulla costituzione migliore in quanto giustizia nei molti, proprio come quando è avvenuto il passaggio dalle lettere piccole a quelle più grandi, come egli afferma, senza che la differenza in rapporto al soggetto trattato implichi un mutamento della forma, che rimane una sola e la stessa nei differenti soggetti trattati… Egli esprime a proposito della costituzione aristocratica e di quella tirannica lo stesso giudizio che a proposito della giustizia in sé e dell’estrema forma d’ingiustizia, in quanto, a suo parere, non vi sarebbe alcuna differenza fra le une e le altre, ma la giustizia in uno solo corrisponde all’aristocrazia nella città, e l’estrema forma di ingiustizia corrisponde alla tirannide nella città. Dunque diremo che anche il titolo dell’opera è in perfetto accordo con l’indagine sulla giustizia, in quanto esprime proprio ciò che è la giustizia, la quale è la costituzione di un’anima che vive secondo la corretta ragione.” (Proclo, In RP. I Dissertazione, 14)
Ritornando quindi al monumento funebre, dedicato a Crizia dagli esuli aristocratici in Eleusi, dobbiamo ricordare che il modello della personificazione dell’Aristocrazia che combatte vittoriosamente contro l’adikia e la hybrisproprie della democrazia ha le sue radici nella celebre contrapposizione fra Dike ed adikia (notevole che Esiodo, Erga213, contrapponga proprio hybris a Dike, a sottolineare lo stretto collegamento fra empietà/tracotanza ed ingiustizia in senso primario): “una donna di bell’aspetto nell’atto di trascinarne una orrenda, stringendole con una mano la gola e con l’altra percuotendola con un bastone; è Giustizia che così tratta l’ingiustizia.” (Paus. V 18). Inoltre, nel monumento degli aristocratici il simbolismo è reso più complesso dalla presenza della fiaccola rovesciata che, come hanno notato alcuni studiosi (Bultrighini; Musti-Pulcini), si trasforma in simbolo funerario distruttivo, legato alle potenze ctonie – possiamo anche intuire che abbia a che vedere sia con Hecate-Artemide venerata a Mounychia sia con le Dee di Eleusi, in quanto chi combatte per la restaurazione delle norme di Dike non può non essere anche connesso con queste divinità, così come con le Eumenidi (e qui ritorna il ruolo fondamentale assegnato all’Areopago durante il breve governo dei 30), e con Plutone stesso, come abbiamo visto nelle Rane.
Per chiudere il quadro, questa iconografia rimanda ad un altro tema: è identica a quella di Eracle che lotta contro l’Idra di Lerna. Nel linguaggio simbolico del V secolo, Eracle e la sconfitta dell’Idra (spesso paragonata, per le molte teste e la sua mostruosità e ferocia, o al demosoppure alla iperlegislazione democratica o anche ai demagoghi – per i quali, in Platone comico fr.200, si lamenta l’assenza di un eroe che dia loro fuoco) erano il modello paradigmatico per gli aristocratici che dovevano reagire alla degenerazione causata dal regime democratico, paragonato quindi al mostro che l’eroe deve annientare. Un modello, ci tengo molto a sottolinearlo, estremamente attuale: contro il caos, la corruzione e l’ingiustizia caratteristiche di ogni democrazia, diretta o meno, gli esseri umani dispongono degli ‘antidoti’ generosamente elargiti dagli Dei: la vittoria sulle passioni, la Via di Eracle ossia della Virtù, le misure di Dike, le Leggi di Zeus, la Sophrosyne dei nobili e dei sapienti, che unici possono guidare in modo appropriato lo Stato, realizzando così in modo completo il bene comune. Volendo essere veramente fedeli alla verità e alle nostre radici, questo è il messaggio che ci è stato trasmesso e che deve essere tramandato alle nuove generazioni, quello che, assai giustamente, uno studioso (cfr. Bultrighini, Studi su Crizia) definisce come “voce di Eleusi” – perché, se Atene è l’ornamento dell’Europa, Eleusi lo è di Atene, ed è nostro dovere domandarci perché quella voce è stata tacitata così a lungo, e quale sia in definitiva la verità che manifesta…
“Pace (Hesychia) cortese,
immensa città
figlia della Giustizia (Dike),
che tiene le somme chiavi
dei consigli e delle guerre,
accogli Aristomene che torna
vittorioso da Pito e ti fa onore.
Tu sai agire obliosa,
sentire uguale nell’attimo perfetto:
ma aspra col nemico
che insacca nel suo cuore
un’ira senza miele,
affronti con la forza la sua offesa,
la getti al fondo.
E questo non sapeva Porfirione
quando contro giustizia ti irritava.
Il guadagno più caro
è quello che il signore della casa
ti dà col cuore;
la violenza col tempo abbatte l’arrogante.
Non scampò Tifone,
il cilicio dalle cento teste,
né il re dei giganti,
l’uno vinto dal fulmine
l’altro dalle saette
d’Apollo.”
Pindaro, Pitiche VIII, 1-27
Daphne Varenya Eleusinia
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