La damnatio aeterna ha il volto tragico della xìrias, maschera tragica del vecchio senza memoria. Quel che fu è sepolto nell’oblio, rimosso dagli inetti con l’ orecchie cerate per non udire il canto della nostra Storia. Anche queste elezioni, snobbate dalla supponenza degli aristogatti del purismo, segnano la volontà, magari un po’ guascona, di riprendere un cammino interrotto brandendo l’orgoglio nazionale, chiamato dai cretini rossi populismo, parola magica come antifascismo, con identico significato l’essere contro l’eretico dissenso. Abbiamo assistito impotenti o al più bubbolanti su fb alle sfilate carnascialesche dei lanzichenecchi contro i “ lebbrosi spirituali ”, così definiti dall’inquisizione, i sedicenti fascisti, sappiamo, numeri alla mano, com’è finita. E’ sempre di quel fantasma che i paragnosti di regime dicono di sentire il perfido ghigno nelle sale del loro castello blindato. Quel maledetto assassinato senza processo, seviziato, sputacchiato, appeso “giù la testa” a una pensilina, proprio lui uomo dell’anno 1917 per un quotidiano romano.. Un fenomeno paranormale inquietante, occorrono i ghostbusters dell’ANPI per stanare l’ectoplasma e liberare dalla sua presenza il maniero. Speriamo sia finita questa pantomima.
Qui parleremo d’altri fantasmi che in apparenza non c’entrano niente, ma ci torneremo sopra, cominciando con un classico C’era una volta un imponente castello con torri ed alte mura merlate, inespugnabile al nemico, baluardo invalicabile d’ un Ordine sovrano, il castello di Rodi. Questa arcigna fortezza era dell’Ordine gerosolimitano dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, oggi conosciuti come Cavalieri di Malta quelli, per intenderci, appollaiati sopra all’Aventino. Quest’Ordine ospitaliero emise il suo vagito nel 1048 partorito da una puerpera di mercanti della Repubblica marinara di Amalfi. Per ecumenica concessione del Califfo d’Egitto, ottennero il placet di costruire, nella Città Santa, una chiesetta con annessi convento ed ospedale. Lo scopo era di accudire, cum fraterna caritate, ai tanti pellegrini che arrivavano stremati in Terra Santa dalla Francigena meridionale, offrendo loro cure sanitarie ed assistenza dopo l’ interminabile viaggio. I cavalieri non erano una moderna Onlus pelosa ma monaci professanti tre voti cardinali: povertà, castità, obbedienza. Papa Pasquale II, con bolla del 15 febbraio 1113, pose sotto tutela della Chiesa l’ospedale lasciando però al capitolo dei frati massima autonomia di autogoverno. Il profilo ispiratore dell’Ordine laicale fu, in principio, quello benedettino dell’ora et labora, in seguito i monaci abbracciarono quello eremitano degli agostiniani. Ma i consacrati non brandivano soltanto il crocifisso, impugnavano anche la spada per difendere i pellegrini da briganti e ottomani lungo la rotta verso il Regno di Gerusalemme. Nel 1291, con la perdita della Terra Santa, l’Ordine si trasferì pro tempore nell’isola di Cipro dove aveva acquisito numerosi beni. Ma nel 1306 il Gran Maestro Foulques de Villaret conquistò in armi l’isola di Rodi, nel Dodecaneso, sconfiggendo i turchi con la flotta navale offerta all’Ordine in leasing dal Governatore Vignolo de’ Vignoli che, da buon genovese, fece un grande affare. Tre anni dopo, nel 1309, Rodi fu proclamata Stato indipendente, baluardo del Cristianesimo verso il Medio Oriente. Nello stesso anno presero inizio i lavori di edificazione del castello sulle rovine d’un antico palazzo bizantino ed ancor prima di un tempio alle pendici dell’Acropoli, termineranno col 1346, parrebbe un’opera dell’Italia odierna, visti i tempi. La continua minaccia ottomana spinse in seguito il Gran Maestro dell’Ordine, Emery d’Amboise, ad ampliare la fortificazioni del Palazzo, siamo nel 1505. Il successore Philippe Villiers de L’Isle-Adam proseguirà l’opera difensiva nel 1521 dopo la sua investitura a Gran Maestro. Ma il gatto mussulmano incombeva sulla preda, spiccò il balzo e a nulla valsero le richieste di aiuto in armi e uomini, l’Ordine dei cavalieri di Rodi restò da solo a pugnar forte per la sovranità del piccolo Stato contro gli ottomani di Solimano il Magnifico ( narcisismo mediceo?) arrivati con 400 navi e circa 60.000 soldati. L’assedio durò ben sei mesi dal giugno del 1522 al 22 dicembre dello stesso anno quando i cavalieri superstiti ottennero di lasciare incolumi la loro roccaforte per rifugiarsi a Malta. La lunga resistenza dei monaci soldati è infarcita di autentico coraggio e acume militare contro un nemico in schiacciante supremazia d’ uomini e mezzi. Quel castello inespugnabile, il migliore mai costruito in Europa, con i suoi terrapieni, gli 8 metri di spessore delle mura, le sue alte torri merlate, presentava ormai strappi d’artiglieria come le calze di una donna. Così Angelica cadde tra le braccia di Medoro il saraceno e Orlando, sconfitto non solo in armi ma nel cuore, dovette per mare raggiungere le coste maltesi, di certo non mancò il valore per difendere l’isola del Colosso, perla nel Mediterraneo d’una cristianità guerriera lontana anni luce da quella di Bergoglio.
Il 1856 fu un anno infausto per il Palazzo dei cavalieri, saltò per aria la polveriera del castello mettendolo in ginocchio, un fatto simile aveva pugnalato il Partenone di Atene dove i turchi avevano ammassato armi e polvere da sparo nel doppio νάος, centrato da una cannonata veneziana, fece Bum!!! Con quel che più non resta. C’era una volta anche un’Italia colonialista, contro un’Europa nostra storica nemica, cercava di conquistarsi nuove terre nel mare nostrum, toccò alla Libia, era il 1912. I berberi delle Tripolitania e della Cirenaica facevano un’imprevista resistenza grazie all’aiuto logistico di militari turchi. Si decise allora d’ aggredire territori ottomani come le isole del Dodecaneso, una manovra di disturbo ben riuscita tanto che l’arcipelago e la Libia divennero tricolori col trattato di Losanna sottoscritto dalla mezza luna nel 1923.
Dal ’12 al ’23 gli investimenti italiani nel Dodecaneso erano stati, a dire il vero, di entità assai modesta proprio per l’incertezza sulla “ proprietà ” ufficiale di quei territori occupati; ma dalla firma del Trattato gli interventi si moltiplicarono per italianizzare quelle isole. Fra le tante opere si decise di ricostruire ex novo il Palazzo dei Maestri cavalieri di Rodi così come ci appare oggi, con una cesta di sofismi sulla tipologia di restauro da seguire, se asciutta filologia o con mega deroghe per farne una sontuosa residenza estiva del re Vittorio Emanuele III oltre che la sede del Governatorato. Da qui inizia un’altra fiaba sempre con c’era una volta un gran bravo pittore di nome Pietro Gaudenzi, genovese del 1880 trapiantato a Roma, direi di più ad Anticoli Corrado dove si spense nel ’55. Il suo palazzo baronale, che aveva acquistato, è un autentico luogo dell’anima, palpi nel grande studio una densità quasi materica di quella sacralità che sempre sposa l’arte alla sua fucina, il genius loci non è un satiro bizzarro ma il pensiero macinato che si rende opera studiata, sapiente. Dotato di un giardino pensile all’italiana con aiuole incorniciate dai bossi, respiri il lirismo pacato, ancestrale del mondo sbucciato dalle sue croste, ti avvolge di un prezioso mantello mentre sorseggi un caffè e traguardi il verde intenso dei monti, si risveglia la poesia dei pochi autentici valori, il lavoro dei campi, il tempo dilatato dei luoghi, la famiglia amata, gli stessi che Pietro dipingeva con asciutta grandezza.
Ne aveva fatta di strada quel figliol d’un musicista bergamasco tra opere premiate e riconoscimenti accademici, dalla sua Genova a Roma nel 1904 fino a quel paesino bucolico, incantato dove dall’Ottocento s’era fermati stuoli d’artisti squattrinati in cerca dell’Arcadia. Era già famoso Anticoli Corrado ( dal nome di Corrado d’Antiochia ), le sue pastorelle posavano per pittori e scultori ma anche gli uomini facevan da modelli all’occorrenza. Lì conobbe la sua donna Candida Toppi modella come papà Francesco, convolarono a nozze nel 1909. L’uomo del nord scoprì in quei luoghi ameni la fusione tra materia e spirito depurati, ciascuno, d’ ogni inutile retorica dove ciò che vediamo è senza la maschera dell’apparire. Questa simbiosi sarà il suo stile di narratore verista col pennello o con le tessere musive. Fu un amore inteso quello tra Pietro e Candida le cui sorelle si mariteranno tutte con artisti compresa Augusta seconda moglie di Gaudenzi. Dall’unione, in nove anni, nasceranno quattro figli, i primi due, Leonardo e Ruggero, voleranno via quand’ erano teneri germogli, resteranno Enrico, anche lui valente pittore e Giuliana. Quand’ero piccino i nonni mi parlavano ancora della “spagnola” un’influenza cavaliera della morte in tutto il globo, si portò via, in due anni, milioni di persone tra 25 e il doppio. Insorse nel 1918 portandosi via anche Candida modella di uno splendido dipinto in veste di madonna con bambino, era il celebre quadro interrotto. Le setole non pescheranno più i colori, riposeranno nel bicchiere dal momento che lei aveva varcato, d’improvviso, la soglia dell’ultima porta. La tela resterà un non finito a testimoniare il tempo che si arresta alla prematura scomparsa della sua Musa e sposa, una poesia a olio a lei dicata, un epitaffio alla sua memoria. Lo stesso Pietro trasformerà poi il dipinto in un’opera sacra, votiva, aggiungendo una leggera aureola dietro il capo di Candida e fornendo il quadro d’ una cornice dorata con sportelli per custodirne privatamente il ricordo, la trasformò in un’icona.
Pietro resta a Milano, città vulcanica per l’arte italiana negli anni ’20, si pensi a Novecento, mercato importante per le sue gallerie, la risonanza dei critici, l’illuminata borghesia industriale. Numerose le sue partecipazioni alla Biennale veneziana dal ’20 fino al ’42, alla Quadriennale romana, alla Mostre d’Arte sacra, condite di Premi e riconoscimenti. Nel ’35 quando torna definitivamente nell’amata Anticoli Corrado, Pietro è un artista di prua nel panorama italiano, impegnato anche nel sindacato fascista e vicino al progetto di arte nazionale di R. Farinacci ideatore del Premio Cemona che Pietro vinse nel ’41. Sempre in quel 1935 era convolato in seconde nozze con Augusta, la sorella di Candida che gli darà altri due figli, Iacopo e Maria Candida. Già professore emerito delle Accademie di Genova e Parma, proprio nel ’35 gli fu assegnata la cattedra di pittura all’Accademia di Napoli, nel ’36 vince il premio Mussolini nelle arti, nel ’37 è accademico di S. Luca, nel ’39 accademico d’Italia, nel ’40 viene insignito della medaglia d’oro dal Ministero dell’Educazione nazionale. Questo in riassunto “ Bolaffi ” per chiarire che Gaudenzi godeva di chiara fama nazionale nel campo delle arti, questo spiega l’affidamento alla sua mano degli affreschi per il castello dei cavalieri di Rodi. Vi chiederete quale fosse il suo stile, beh da un amore per la pennellata veloce, memoria dell’impressionismo o forse ancor più della scapigliatura, la tavolozza si era dimagrita, il segno aveva scelto una composta severità, l’attimo che passa si era trasformato in assorta meditazione compositiva, il realismo delle immagini si spogliava del tempo per varcare la soglia del’eterno. La lezione di Sironi era magistrale, impossibile non recuperare dalla storia il rinascimento spogliandolo di tutto il superfluo e dandogli i panni del presente. Definiremmo il suo stile lirismo magico, là dove coglie dalla realtà l’essenza dello spirito dell’uomo nella sua grande dignità di natura naturans, il tutto senza l’ombra di orpelli.
La Galleria del Laocoonte a Roma nell’ottobre del 1914 dedicò una vernissage agli affreschi scomparsi di Pietro Gaudenzi nel Palazzo dei Maestri cavalieri di Rodi. Fu il Governatore dell’Egeo e dell’isola della rosa ( significazione di Rodi ) Cesare Maria De Vecchi a commissionare il ciclo pittorico al valente pittore genovese, da eseguirsi nelle sale poste al secondo piano del castello. I temi erano cari al fascismo, il pane e la famiglia in tempi di orgogliosa autarchia. Sappiamo dalla testimonianza del figlio Jacopo che il papà si mise all’opera nel ’39 e proseguì fino ai primi anni ’40. Dopo l’8 settembre del ’43 le truppe tedesche, pur in netta inferiorità numerica, occuparono con la forza Rodi l’11 del mese ed a seguire, fino al 17 novembre, le altre isole del Dodecaneso sottraendole al Governatorato italiano che s’ era girato il pastrano schierandosi con gli Alleati dopo il voltafaccia di Badoglio. In seguito Rodi venne occupata fino al ’47 dall’esercito inglese, quella “follia fascista” come aveva definito la ricostruzione del Castello la stampa anglosassone, divenne sede del loro Comando succedendo alla Wehrmacht tedesca. Gli affreschi scomparirono nel nulla, volatilizzati , finiti in Germania? in Inghilterra? Solo ipotesi, se prima o dopo il 10 febbraio del ’47 quando l’Italietta di De Gasperi cedette tutti i territori dell’Impero agli Alleati, Grecia compresa. Si suppose che quei dipinti, testimonianza del fascismo, fossero stati censurati con un “braghettone” di bianco, un po’ come accadde all’affresco di Sironi nell’Aula Magna del Rettorato della Sapienza a Roma. Quelle stanze restarono blindate per anni, inaccessibili a studiosi o semplici turisti, quasi a nascondere un misfatto. La realtà cruda testimonia che i muri affrescati sono stati scalpellati fino a riportare a vergine i blocchi di arenaria, il pavimento d’ antichi mosaici ricoperto, il muro divisorio con camino abbattuto, questo è lo stato dei luoghi, una canaglia di “ fantasma “ li ha resi tali.
Era il capolavoro di Gaudenzi, l’impresa di più vasto impegno e respiro, è stato divelto o strappato via, finito chissà dove, magari rivenduto a pezzi come una pala o distrutto perché non ci fosse memoria alcuna dell’arte dell’invasore, una pulizia etnica delle figure italiane che narravano il duro lavoro dei campi, la mietitura del grano, la fragranza del pane, o ancora lo sposalizio della vergine, la visitazione, la natività. Erano personaggi di Anticoli che vestivano con inalterata dignità le vesti dei lavoratori, delle massaie per poi cambiarli con quelli sacri della famiglia di Nazareth. Gli umili restano tali, le donne di Gaudenzi sono segnate dalla vita ma portano in carne una sapienza arcaica che venera la terra miniera di vita.
Ma l’Italietta pifferaia dei potenti in oltre settant’anni ha voltato le spalle, in fondo erano opere che incarnavano lo spirito del fascismo, meglio se distrutte da antesignani talebani alla Boldrini, papè satan aleppe, papè satan ma come infinite volte la poesia cancellata, dimentica gli scadenti attori e riaffiora sulle labbra dei credenti creduti fantasmi.
Emanuele Casalena
Bibliografia
- Amarilli Marcovecchio, Pietro Gaudenzi, Dizionario biografico degli italiani, vol. 52, anno 1999 Enc. Treccani.
- Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Anticoli Corrado, Pietro Gaudenzi: gli affreschi perduti del Castello dei Cavalieri a Rodi.
- Maria Onori, Le modelle di Anticoli, il Manifesto del 22 settembre 1917
- Galleria del Laocoonte, Pietro Gaudenzi, gli affreschi perduti del castello dei cavalieri a Rodi.
- Via Gallica, la Storia di Rodi al tempo dei cavalieri.