‘Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso’.
Così prende avvio il celebre racconto La metamorfosi (anno 1915) di Franz Kafka. Non è difficile intuire che il protagonista, sostituendo alle due esse e alla emme in mezzo le altrettanto due kappa e la effe, sia in fondo un incubo dello stesso scrittore boemo. Egli era infatti nato a Praga nel 1883 da famiglia ebrea di condizione moderatamente agiata (chi ha occasione di visitare la città ceca a ridosso del Castello, la via degli Orafi, viene avvertito come vi ebbe qui residenza). E, tranne brevi viaggi all’estero e il progetto mai realizzato di stabilirsi a Berlino ove dedicarsi alla letteratura, quattro esili volumi di novelle pubblicati quasi a forza dagli amici, il fidanzamento interrotto, la sua esistenza non disegna tratti peculiari accadimenti di rilievo fino al ricovero in sanatorio nei pressi di Vienna e la morte qui a soli quarantuno anni. Della sua opera, raccolto quanto v’era di inedito, si fece carico l’amico Max Brod, contravvenendo a quanto Kafka aveva disposto, e ne diede sta
(Anche i discepoli di Platone non osarono eseguire le disposizioni del Maestro e noi beneficiamo di quei Dialoghi che sono, al contempo, grandiosa visione filosofica ed espressione di uno scrittore di razza. Forse solo qualche alunno, in prossimità d’interrogazione, impreparato e disattento, avrà maledetto un gesto così improvvido e carico di conseguenze letali. Mentre io, da professore, a bacchettare pur consapevole che, fuori dell’aula, l’aria di primavera ad altro chiama…). Chi è, in effetti, Gregor Samsa, trasformatosi in gigantesco coleottero? Kafka, dopo aver conseguito la laurea in Legge, s’era impiegato in due grandi aziende d’assicurazioni. E il protagonista del racconto, come quelli di gran parte delle sue novelle, altro non sono che esseri qualunque, degli anonimi, protesi a ritagliarsi una esistenza priva di affanni ignari di successo pavidi d’avventure. E’ il colore grigio di una piccola borghesia, attenta al decoro e timorosa in emozioni. Il brivido della passione sembra scorrere vano nelle sue vene. Sotto il giogo ferrigno del tempo e delle circostanze e della storia. ‘Uomini senza qualità’, ci suggerisce Musil.
Eppure… Eppure, se non sanno volare alto – là dove solo le aquile osano (e lo Zarathustra, nel tramontare, chiede simile attitudine) – in quell’apparente starnazzare da cortile, ove tintinnano le tazzine da tè e trepidano merletti inamidati, sanno essere portatori di malvagità recondite insofferenze feroci indifferenza crudele. A cercare le stelle facile è il perdersi nelle tenebre, il volo s’interrompe resta il precipitare. Icaro, con le sue ali di cera, docet e Saint-Exupéry in Volo di notte ci porta nel cielo stellato sopra le Ande dove il pilota sale e consapevole verso la morte. E’ pur vero anche il contrario: restare ancorati, grassi e placidi, alla terra apre verso il basso abissi oscuri e viscidi in compagnia di topi… (Così sono i genitori e la sorella di Gregor che pensano solo a come liberarsi di quell’essere immondo, senza alcuna commiserazione se non verso se stessi, e gioiscono della sua morte tanto da, negli ultimi paragrafi, indifferenti, essere descritti sereni e intenti a una gita fuori città).
Ritrovo una antologia di racconti, fra cui La metamorfosi, dal titolo Il messaggio dell’imperatore (è un dio di cui s’è in attesa e che, per chi si colloca ai confini estremi, è possibile che non lo raggiunga mai? Ciò che conta, forse questo è il messaggio dello scrittore praghese, non sta nel suo arrivo ma nella consapevole e paziente attesa). E’ datata 1976. L’anno precedente, al cinema il film distopico (l’utopia in negativo sul futuro della nostra società, modello George Orwell di 1984 o Fahrenheit 451 di Ray Bradbury) Rollerball. (Credo se ne sia prodotto un remake in anni recenti). Che abbia allertato il mio sistema di emozioni e m’abbia coinvolto lo deduco dall’averlo citato in Ezra Pound testimone e poeta (pubblicato nel 1983, anche se scritto un paio d’anni prima). Leggo: ‘Così Jonathan: egli è l’eroe del Rollerball, gioco spettacolare e violento, orchestrato da una ristretta oligarchia di potere, che – avendo abolito la guerra – nello entusiasmo verso la crudeltà di questo sport fa scaricare l’aggressività delle masse. In caso contrario il mondo apparirebbe più simile ad un cimitero che all’Eden perduto e ristabilito. Jonathan, resosi consapevole di essere soltanto una efficiente macchina ad uso del potere per l’abbrutimento della folla e, soprattutto, cosciente di essere stato privato troppo a lungo della propria personalità, fatta di emozioni e sentimenti, si ribella e si rifiuta di abbandonare il suo posto in squadra. E’ la guerra ormai l’ordine alle squadre avversarie è di ucciderlo durante le partite. E nell’incontro finale, battuti tutti gli avversari e rimasto solo con l’ultimo della squadra avversa, rovesciando le regole del gioco, non l’uccide in quanto vuole essere lui a decidere e, pertanto, si fa autenticamente libero. In quel momento incarna l’ideale del guerriero classico e tradizionale. E l’urlo cadenzato della folla, che scandisce il suo nome, è il riconoscimento dell’eroe-uomo’ (pag. 60-61). (Se fossi tentato a riscriverlo, con altro tono e diversi accenti).
Cosa accomuna Jonathan E. e Gregor Samsa? Ammoniva il filosofo greco Eraclito come ‘la strada in salita e in discesa è una sola e medesima’, nella mutevolezza delle forme nei suoi contrari l’esistenza è unica, unico il logos ispiratore. Non m’è ignaro che il solaio con il lucernaio che consente di spaziare per il cielo stellato non si può confondere con la botola che ci porta verso gli angoli oscuri i percorsi umidi e malsani il regno delle fogne… Però la difformità non sta nell’essere uomini (il razzismo biologico, ad esempio, poco o nulla mi ha mai convinto), ma essa ripone come si vive da uomini. (Errore d’ogni principio egalitario quando, come nel 1789, volle coniugare la uguaglianza con la libertà. Se si è uguali non si può essere liberi e viceversa). Ciò vale per i protagonisti qui accostati dalla personale – e arbitraria – memoria di chi scrive. Assunti a paradigma di un modo d’essere, tempo e circostanze consentendo eppure non vincolando. Franz Kafka è robusto scrittore, ove l’intreccio delle immagini le più fantastiche non tradiscono mai, pur se celati, significati valenze morali stati d’animo riflessioni sulla condizione umana. Se non un pensare riflettente o d’ampio afflato religioso, certo uno spasmo la tentazione d’esistere. (V’è in qualche misura, mi sembra di ravvisare, quanto per il filosofo Martin Heidegger viene espresso con il termine Geworfenheit, quell’essere gettato ‘a caso’ nel mondo).
Egli è un figlio della crisi, di quello ‘spazio di Vienna’ come giustamente s’è definita la presenza di intellettuali ad esprimere crollo e rovine di quell’Impero, austro-ungarico, che stava rovinando e non soltanto lungo le trincee del Carso… Gregor Samsa si trasforma in insetto, senza ragione alcuna, ma è il rapporto con l’altro – qui genitori e sorella – che misura inconsistenza dell’essere umano ormai privato del senso più autentico di comunità. Fuori dalle regole – ormai rese forma e non più valore – il nulla. Là dove regna il principio di necessità.
Jonathan E. (perchè solo l’iniziale del cognome, non ne conosco la ragione) è solo il prodotto di una realizzazione cinematografica, spettacolare per quegli anni, oggi si mostra primitiva rispetto alle innovazioni tecnologiche. (Mi sono rivisto su Youtube la scena finale e scopri che tu e quelle sequenze siete più simili ai documentari visivi intorno alla Grande Guerra, magari con una spruzzatina di colore e qualche effetto sonoro in più). La psicologia del protagonista ridotta a qualche espressione, un gesto o poco più. A far cassetta ad altro l’intento. Però, lo confesso, qualcosa ancora riesce a suscitare fra le pieghe delle ormai sopite ondate ormonali… Vedo – perdonate la modestia – un Merlino esile e inquieto (56 chili peso forma) con l’asse della panchina in una mano e nell’altra la bottiglia da scagliare. Valle Giulia, il 1 marzo di cinquant’anni da poco trascorsi. Vedo Claudione correre lungo il Viale a Trieste – dietro la canea urlante dei ‘rossi che non fan paura’ – e, all’improvviso, sereno e ridente slacciarsi il cinturone e ‘Non mi va più di scappare, io carico!’. E, 28 aprile del ’67, università, noi soli pochi irriverenti mentre dalle arcate delle facoltà ci giunge l’urlo ‘Assassini! Assassini!’ e centinaia di compagni ci vengono contro. Il ghigno di Flavio Cataldo che si slaccia la cravatta Saverio arrotola la cinghia e, modesto, il sottoscritto che si vergogna d’aver paura e resta… Scegliere per non essere scelti, contro il tempo e le circostanze. Finire magari, pochi anni dopo, simile a immondo coleottero, tra sbarre e chiavistelli. Mai sentirsi Gregor Samsa, in ogni caso, anche quando per altri lo si diventa…
Mario Michele Merlino