Per chi scrive, il primo approccio con Profondo Rosso avvenne all’età di cinque anni. Ne adocchiai un abbozzo per televisione (era la metà degli anni ’80), abbastanza da rimanerne scioccato. La sequenza era quella in cui l’occhio scrutatore dell’assassino sbuca dalla più nera oscurità dell’appartamento di Amanda Righetti, la povera scrittrice cui verrà data una morte orribile con l’acqua bollente. La Righetti, come ricorderemo, è l’autrice del libro – chiaramente immaginario – Fantasmi di Oggi e Leggende Nere dell’età Moderna all’interno del quale è riportato il racconto di una misteriosa villa dove anni addietro era avvenuto un fatto di sangue legato a una canzoncina per bambini. In Profondo Rosso, così come in diversi altri lavori del regista, pensiamo alla trilogia zoonomica composta dai suoi primi tre lungometraggi, L’Uccello dalle Piume di Cristallo, Il Gatto a Nove Code e 4 Mosche di Velluto Grigio, l’occhio è un elemento fondamentale per comprendere la poetica argentiana. L’occhio pesantemente truccato dell’assassino, che si acconcia prima di “andare in scena” nelle sue cruenti scorribande dando libero sfogo al suo lato più recondito, alla sua parte Hyde, è il mezzo attraverso cui lo spettatore ha la possibilità di calarsi nella psiche malata di un individuo di cui non si conosce il sesso, ma di cui nondimeno viene dato di osservare i suoi feticci: coltelli, bamboline inquietanti, pupazzi diabolici e billie rotolanti, oggetti appositamente ingigantiti da un altro occhio, quello della speciale telecamera Snorkel, scelta dal regista per pervadere e suggestionare il più possibile l’occhio di chi osserva dall’altro lato dello schermo.
Addentrandosi nell’abitazione della sensitiva Helga Ullman, lo sguardo del protagonista Marc Daly, interpretato da un intoccabile David Hemmings, passa in rassegna una serie di lugubri quadri, abbacinanti rappresentazioni angosciose ad opera del pittore piemontese Enrico Colombotto Rosso (il colore nel cognome è del tutto casuale) rimanendo particolarmente impressionato da una composizione di volti per cui si convincerà di aver captato un particolare importante. Un po’ come succede al protagonista di Blow Up, in cui un medesimo Hemmings, ma con qualche anno in meno, scopre un dettaglio allarmante dall’ingrandimento di una foto. In Profondo Rosso, Marc non sa di essere uno spettatore vittima di una realtà ingannevole e invertita: egli vede sì un quadro, ma l’immagine da lui captata è solamente il riflesso di uno specchio. “Certe volte”, gli dice Carlo (un indimenticabile Gabriele Lavia), “quello che vedi realmente e quello che immagini si mischia nella memoria come un cocktail, del quale tu non riesci più a distinguere i sapori. No Marc, tu credi di dire la verità, e invece dici soltanto la tua versione della verità”.
In Profondo Rosso a predominare è l’aspetto onirico-surreale, dove tutto può sembrare il contrario di tutto e la logica finisce per essere inglobata dal senso dell’assurdo. Per paradosso l’assassino, pur essendo personificato da un’attrice ormai avanti con l’età (Clara Calamai aveva all’epoca 66 anni) possiede virtù infinite di ubiquità ai limiti dell’insensatezza; è in grado di insinuarsi nelle case delle sue vittime con una facilità indicibile, muovendosi con passo felino e armeggiando con gli interruttori della luce come se si trovasse contemporaneamente in più punti. Molti elementi paiono assurdi in Profondo Rosso, elementi tradotti però impropriamente – da critici e presunti tali – come veri buchi di sceneggiatura da cui dilagherebbe troppa irrazionalità. Il sangue è troppo corposo per sembrare vero; tralasciando l’epilogo, in cui Marta/Calamai si palesa agli occhi di Marc in tutta la sua natura folle e omicida, l’assassino presenta fattezze palesemente maschili ogni qualvolta entra in azione. Verrebbe quasi da pensare, a questo proposito, che a compiere gli omicidi sia più di un soggetto (si veda, ad esempio, l’omicidio Giordani, il cui nome viene pronunciato da una voce maschile e la cui brutale aggressione non è preceduta dalla classica nenia infantile, “il motivo conduttore dei delitti”, come lo stesso Professore definisce nel film). Si ha l’impressione che Argento fosse vieppiù interessato a rappresentare non un assassino in particolare, pertanto riconducibile a una persona specifica, bensì l’assassino per antonomasia, quello imbardato di scuro dalla testa ai piedi che ci rimanda a Sei Donne Per L’assassino, il giallo con cui un troppo spesso dimenticato Mario Bava ha imposto la figura classica del killer con cappello, impermeabile e mani guantate (mani che in Profondo Rosso, così come in altri suoi lungometraggi, sono sempre quelle di Argento). In molti faticano a comprendere che Profondo Rosso altro non è che la rappresentazione di un sogno morboso e angosciante, un incubo, e come tale dev’essere inquadrato. Marc si sente perseguitato da una presenza che lo anticipa in ogni sua mossa, una mente perversa che sembra quasi utilizzare la telepatia per entrare in contatto coi suoi pensieri, un po’ come succede con la povera Helga al Congresso di Parapsicologia. Egli è ossessionato dalla soluzione di quel mistero che gli ha investito il quotidiano e con l’aiuto della giornalista amante/amica Gianna Brezzi (una splendente Daria Nicolodi, poi compagna di Argento e madre di Asia) improvvisa un’indagine parallela a quella della polizia, istituzione che nei film di Argento si muove sempre a rilento e pure con una certa goffaggine.
Forte della sua passione per il pensiero freudiano, Argento chiama in causa temi come l’irrazionalità, l’angoscia, la paura, l’inconscio, il trauma. Lo stesso trauma che si insinua nel piccolo Carlo dopo essere stato suo malgrado spettatore del brutale omicidio natalizio ai danni del di lui padre perpetrato dalla di lui madre, donna affetta da problemi di schizofrenia. Un trauma e dunque un malessere così predominante che un Carlo in età adulta cercherà di occultare non solo annaffiandosi il fegato con l’alcol ma anche attraverso la musica, essendo anch’egli pianista come l’amico Marc. “Sai, Marc? La differenza tra noi due è una differenza politica”, dice Carlo a quest’ultimo. “Tutti e due suoniamo piuttosto bene, ma io sono il proletario del pianoforte, tu invece sei il borghese. Tu suoni per l’arte, […] io lo faccio per sopravvivere”. Il luogo dove Carlo suona per professione il suo strumento è il Blue Bar, la cui struttura fu fatta erigere appositamente da Argento riprendendo nel dettaglio il bar raffigurato nel superbo dipinto Nighthawks (“I Nottambuli”), composto nel 1942 dall’americano Edward Hopper. Ecco un altro omaggio all’arte pittorica, iperrealista, in questo caso, che non può far altro che arricchire un film da cui, oltre al sangue, scorrono abbondanze di riferimenti culturali. Come rimanere indifferenti davanti alle abbacinanti cornici architettoniche torinesi, come la storica Piazza C.L.N. delle due fontane, quella del Po (dove Carlo siede ubriaco) e quella della Dora Riparia; il Teatro Carignano, di cui osserviamo gli interni inondati da una patina di rosso profondo e accecante per concessione della splendida fotografia di Luigi Kuveiller; la lugubre “Villa del Bambino Urlante”, ovvero la superba Villa Scott, tra le vette architettoniche dell’Art Nouveau (o Liberty, se ci piace di più), nata sulla base di un progetto dell’architetto Pietro Fenoglio, nel 1902, in un periodo in cui proprio a Torino il noto stile floreale viveva un momento di forte espansione. Il film è ambientato in una Roma immaginaria, giacchè i luoghi simbolo del film sono quelli della città sabauda ed è lì che il film fu girato in prevalenza. Il cimitero in cui si svolge il funerale della sensitiva è però quello monumentale di Perugia e diverse scene, sia esterne che interne, furono comunque riprese nei pressi della Capitale e agli studi De Paolis. All’inizio del film Marc/Hemmings dirige i suoi allievi tra le mura di un fantomatico Conservatorio (Hemmings era peraltro un pianista anche fuori dal contesto cinematografico). Siffatto luogo è lo splendido Mausoleo di Santa Costanza, a Roma. Quei giovani che suonano in modo “un po’ troppo pulitino” erano nella realtà gli allievi del jazzista Giorgio Gaslini, cui Argento aveva inizialmente affidato l’accompagnamento sonoro per il film. Certamente, senza la pregnanza della musica il capolavoro del thrilling all’italiana non avrebbe avuto l’impatto che ha avuto sulle generazioni che si sono succedute dall’epoca della sua uscita. Musica che appare sin dal primo secondo del film, che riproduce il famoso tema ad opera dei giovani Goblin, che tanto turbò le vite degli italiani. Lo stile cui si rifaceva (ma con un piglio più spettrale) la band di Simonetti, Pignatelli e gli altri era quello del rock progressivo inglese dei King Crimson, dei Genesis o dei Van Der Graaf Generator, genere che tanto predominava nel periodo in cui Profondo Rosso fu fatto. Pare che per le musiche Argento avesse inizialmente consultato anche i Pink Floyd, ma il gruppo declinò l’invito principalmente perché impegnato con le registrazioni dell’album Wish You Were Here. E fu un bene, perché con tutto il rispetto dovuto, Roger Waters e compagni non sarebbero mai stati all’altezza di comporre una colonna sonora altrettanto ispirata come quella lasciata ai posteri dal fu Giorgio Gaslini e dai geniali Goblin.
In copertina: Hemmings – Nicolodi – Argento