10 Ottobre 2024
Teatro

Il Nuovo Partito della Vita: Giorgio Albertazzi (Fiesole 1923-Roma 2016). A cura di Emanuele Casalena

A vent’anni scelse la parte dei perdenti, la RSI, senza pentitismi postumi o infamie d’italica furbizia di cui anche la storia del terrorismo o della Mafia hanno riempito le gabbie dei tribunali. Due anni di carcere  con l’accusa pesante di aver partecipato, come ufficiale, alla  fucilazione di un rinnegato della RSI,  lui che da nobile umanista, aveva salvato la pelle a 19 ebrei, stessa storia d’un repubblichino in bicicletta, Gino Bartali come lui toscano. Fièsole è il sobborgo più elitario dell’hinterland di Firenze, un vipcomune d’ anime elette coi conti in banca molto gonfi, il più ricco della Toscana, dicono. Noi lo teniamo a memoria per la severa villa di Maiano che un tempo fu dei Pazzi acerrimi nemici degli Agnelli fiorentini: i Medici del Mugello. Poi ricordiamoci   dell’appuntamento con l’estate fiesolana, cartello ricco d’ eventi tra danza, musica, teatro più la settima arte, c’è di che scegliere sul come suicidarsi di noia. Per me  la città si lega al nome d’ un maestro dell’architettura del secolo breve, il pistoiese Giovanni Michelucci, quello in gruppone per la stazione di Firenze e della chiesa sulla A1 dedicata alle morti bianche dei lavoratori dell’arteria. Beato lui risiedeva sulla collina fiesolana nella sua casa-studio villa “Il  Roseto”, fu, nel ventennio “maledetto”, un fassista come Albertazzi, anzi assai di più, salvo convertirsi al nuovo credo post bellum, o meglio rielaborare, sviluppare le tesi d’avanguardia del Razionalismo italiano. Comunque l’architetto Giovanni non pagò pegno mentre il prossimo architetto Giorgio conobbe le murate fiorentine, lucchetti e chiavistelli di Bologna e S. Vittore a Milano, un tour carcerario  giunto all’ultima tappa con la liberazione dalle bocche di lupo per la legge Togliatti (sic!).

Era il 20 agosto 1923, a meno di un anno dalla marcia su Roma, quando il piccolo Giorgio sbocciava nella campagna d’ una mini frazione fiesolana, Borgo San Jacopo come lui sosteneva, ufficialmente a S. Martino a Mensola sempre in quel di Fiesole. E’ di famiglia umile, operaia, il suo papà lavora in ferrovia, s’occupa degli scambi, la mamma è casalinga, vivono in una dependence di villa I Tatti di Bernard Berenson, l’illustre storico dell’arte lituano naturalizzato statunitense, prima maestro poi rivale del nostro Roberto Longhi. Stavano lì per  grazia di nonno Raffaele, vissuto oltre cent’anni, che nella proprietà  svolgeva la mansione di mastro muratore, niente a che fare con la massoneria, impastava, come dicono in Toscana, la calcina, dandole alloggio sotto i mattoni. Un’infanzia vissuta all’aria aperta quella di Giorgio, respirando odori forti di campagna, serenità bucolica dei gesti, meraviglia nello scoprire il rinnovarsi della bellezza. Morirà tanti e tanti anni dopo sempre in campagna nella sua tenuta in Maremma , niente è casuale nella saldatura del cerchio.

E’ tipico del nostro Bel Paese giocare al tiro della corda, si afferra  un personaggio per le braccia lo si tira con tutte le  forze per trascinarselo dalla propria parte e poter dire: è nostro, c’ appartiene! Ma Albertazzi non è stato un politico, un artista schierato come il suo rivale Dario Fo, “impegnato” ad affabular rosse qualunquate anche per seppellire un passato in camicia nera; Giorgio è stato Adriano, imperatore delle scene, come il regio condottiero del romanzo di  M. Yourcenar. Ci sovviene ora quella brevissima poesia dell’imperatore esteta che recita così: “Animula vagula blandula/ Hospes comesque corporis/Quae nunc abibis in loca/Pallidula, rigida, nudula/Nec,ut soles, dabis iocos…/

Il primo verso è inciso  su una lastra di travertino all’ingresso della sua tomba monumentale , il mausoleo di Adriano, assai  più noto come Castel S. Angelo, fortilizio agguerrito dei Papi.
Nel suo schizzo della persona ritroviamo il D’Annunzio amante dell’estetica, della leggerezza nella vita come in arte, il tombeur des femmes, non l’erotomane però. L’io espanso permea di sé ogni cosa piegando il mondo ai piedi della bellezza creata con la parola, fino all’ultima goccia del bicchiere Albertazzi assapora il miele dell’esistenza non senza un retrogusto amaro per la propria barca, il corpo, che lo sta abbandonando. A lui si confà gemella la lunga riflessione di Adriano nel romanzo della Yourcenar, più che all’amato Antinoo, il sessantenne imperatore ripassa la sua vita al filtro della sopraggiunta vecchiezza, l’amato corpo lo sta lasciando, l’idropisia del cuore declina l’accostarsi alla fine nonostante il suo medico Emogene cerchi di nascondergli la morte. Amaro constatare che ”E’ difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone.”. Quel corpo non è solo il proprio aggregato ma lo stesso Impero, mosaico di popoli e culture, Europa, Africa, Medio Oriente, costato sangue e ferrea legge ( alla quale il mite Adriano poco credeva), un organismo complesso da governare ma la cui fine egli intravedeva. Dopo imperatori matti o grandi conquistatori come Traiano, suo zio adottivo, Adriano aveva scelto una politica di rafforzamento dei confini dell’impero senza ulteriori espansioni territoriali, pax romana insomma, sia dentro l’immensa casa che all’esterno uniti alla conoscenza dei territori per cui intraprese lunghi viaggi arricchendo la propria cultura personale. Un esteta, filosofo, poeta, architetto, imbevuto di cultura greca al quale Roma deve opere monumentali quanto simboliche, una per tutte il Pantheon ma in UK anche il famosissimo vallo in Britannia che porta il suo nome,  Roma è a sud, Braveheart a nord.

Memorie di Adriano è un romanzo di introspezione, il personaggio si cala nel pozzo della propria memoria attraverso sei passaggi partendo da una scelta chiave la ricerca della libertà sia essa assoluta oppure relativa dato il ruolo del protagonista, egli afferma: Quanto a me, ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché, in parte, secondava la libertà”. Ma Adriano è “lo studente greco” come era chiamato in Senato, amava l’otium da dedicare alle arti e al sapere, adorava viaggiare e mordere a piccoli bocconi il piacere per meglio gustarlo, altro dal guerriero Traiano, miles invictus, lui era ellenista anche nel suo amore per l’androgino.  Talmente compreso nella vocazione estetica da poter affermare, nel testo: ”Io mi sentivo responsabile della bellezza del mondo”. Queste poche e inesaustive righe per dire che Giorgio Albertazzi aveva trovato in Adriano il corpo e l’anima gemelli nei quali far abitare la sua persona, un alter ego letterario sì ma anche una placenta calda nella quale nuotare. Oltre ottocento repliche del suo spettacolo Le Memorie di Adriano, sui palcoscenici di tutta Italia, compresa la stupenda cornice del teatro romano di Tuscolo, occasione che non persi, in alto il cielo d’estate brulicante di stelle mute ad ascoltare la voce di quell’imperatore.

Torniamo all’incipit, a quel 1943 dopo la fine della Patria l’otto settembre, Giorgio risponde alla chiamata alle armi, poteva darsi renitente, farsi partigiano, no! Si arruola  nell’esercito della RSI, non sono pochi quei ragazzi e quelle ragazze, 800.000 a schierarsi da quella che i resistenzialisti chiamano la parte sbagliata.

L’Ufficiale con la bustina nera sulla testa è Giorgio Albertazzi

La sua scelta di campo, da ventenne, di combattere, col grado di sottotenente, nella Legione Tagliamento terza compagnia del 63° battaglione M non l’ha mai nascosta, mai rinnegata, non s’è versato cenere sulla testa battendosi il petto invocando: perdono! Ebbe a dire in un’intervista:” “Scelsi la parte dei perdenti, quella della Rsi, e lo feci più che per un istinto anarchico che non per convinzione. Fu un mio dramma personale, ma senza rinnegarlo o cercare scorciatoie. Poi a me il pentitismo non piace” e sull’epilogo infamante di Piazzale Loreto fu lapidario:“Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì. Il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile.”

Purtroppo l’orrore è della razza umana non degli animali, la Siria è un’altra macelleria aperta nel teatro della storia dove i burattinai del gas infilzano aghi nei bambini. Finiamolo qui questo tiro della corda per arraffarsi la giacchetta d’ un uomo; rispetto per vincitori ma soprattutto per i vinti, quell’humànitas di Enea nostro progenitore, valoroso guerriero in battaglia quanto il nemico Achille, però solidale con gli sconfitti quando prese in braccio il giovine Lauso, dopo averlo ucciso, pulendogli la chioma intrisa di sangue. Essere stati o essere fascisti, senza sgattaiolare in pleonastici destra, centrodestra, destra radicale, ecc…, è una macchia indelebile, inutile strofinare per portarla via, è consentita solo l’abiura in attesa di poter entrare al banchetto nuziale della Repubblica. Inutile fare gli speleologi del passato politico d’ un intero gregge di convertiti, scoiattoli e saltimbanchi sui quali Leo Longanisi fu lapidario, a noi interessa dire di Albertazzi, come di pochissimi altri: “Questo è  un uomo! ”.

In un CV di formato europeo alla voce studi dovremmo scrivere: Maturità classica e Laurea post bellum in Architettura presso il Politecnico di Milano, ma la sua vocazione era il teatro, lui libertino amò due muse Talìa e Melpomene ma sposò Pia de’ Tolomei.

Dai suoi esordi di attore nella scuola elementare, bimbetto Casanova innamorato della sua maestrina, ai palcoscenici del dopoguerra; dall’esordio al maggio fiorentino del ’49 con un’opera minore di W. Shakespeare Troilo e Cressida (tragicommedia piccante) per la regia di Luchino Visconti fino alla sua ultima apparizione sul palco con Puccini-Sprechgesang, (Puccini-recitativo) regia di Giovanni De Feudis, tributo al grande compositore lucchese, gemello di carattere con Albertazzi, entrambi amanti delle cosce delle donne “ la vera prova dell’esistenza di Dio” come  della leggerezza, sostanza della vita.

Superfluo elencare i suoi mille impegni di attore dai fotoromanzi rosa per le cameriere, alla TV ( memorabile il suo dottor Jekil ), al teatro che conta con l’amata Anna Proclemer, e ancora al cinema di cui si ricorda  soprattutto L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, leone d’oro al Festival di Venezia del ’61. candidato al premio Oscar, per inciso, ero appena adolescente, mi parve un film quasi muto, stitico di dialoghi, surreale. Di tutto e di più hanno scritto di lui in settant’anni di carriera, non sta a noi aggiungere una virgola all’uomo attore di se stesso. Spulciando, per mia natura sono curioso, abbiamo incontrato la sua amicizia con Pierfranco Bruni, giornalista, archeologo, poeta e scrittore, grande divulgatore della cultura mediterranea e soprattutto intellettualmente onesto (dati i tempi).  Ebbene il Bruni nel 1990 scrisse e pubblicò per le edizioni Demetra un saggio su Robert Brasillach dal titolo La voce e i destini incentrato sulla figura del grande scrittore francese, fucilato a 36 anni con l’accusa di essere “un’intelligenza del nemico” cioè un collaborazionista dell’occupante tedesco.

M.M.M. (Mario Michele Merlino) ha scritto molto su questa scomoda figura cogliendone coerenza, dignità ideale e personale, basti richiamare alla memoria che al termine della lettura della sentenza di condanna a morte, dal pubblico qualcuno gridò: “E’ una vergogna! E lui impassibile affermò: “E’ un onore…!” Perché Brasillach? A margine dell’uscita del saggio ci fu un incontro dibattito a Caserta tra l’autore ed Albertazzi, il tema era il poeta dei Poèmes des Fresnes, quali le convergenze? L’uomo Brasillach nella sua interezza come scrittore e attivista politico per questo votato al sacrificio, una coerenza esistenziale che Albertazzi faceva propria, ma Robert era anche profondamente cristiano posizione divergente dall’attore notoriamente non credente, neppure ateo voleva definirsi, Dio se c’è è un motore immobile indifferente al brulichio umano.  In Brasillach, come osserva Bruni, la parola è l’oro del minatore scavata nel cuore e nell’anima, è la compagna amata che l’ accompagna nel suo cammino. Per lui essa diventa poetica della distinzione, della coerenza nel tragitto, non è solo strumento della comunicazione ma specchio del pensare che oltre la crudezza della morte c’è la rivelazione. Invece la poesia è tutta qui, ora, per l’attore, mentre la poesia è segno profetico di una realtà altra oltre l’ultima porta per Robert. Infatti quell’hic et nunc senza attese di un oltre portò forse Giorgio Albertazzi a confessare; ““La vecchiaia è più corporea della giovinezza, ti costringe a fare i conti con il tuo corpo, che reclama le sue esigenze. Quando sei giovane non ti accorgi di averlo, ti obbedisce. Ma poi arriva il momento che ti dice ‘no, questo non lo puoi fare perché sei vecchio” stessa riflessione di Adriano. Nessuno dei due ha tradito, nessuno dei due ha chinato il capo, entrambi hanno amato visceralmente il verbo, la poesia che travalica l’immaginario, ma il Lazzaro di Brasillach dice: “Tutto è possibile quando Voi volete,Signore/Il catenaccio viene tirato sulla soglia della prigione,/Il fucile s’ abbassa davanti al bersaglio,/I morti già pianti escono dal sepolcro”. Albertazzi invece era iscritto e militante del Nuovo Partito della Vita di F. Nietzsche.

Emanuele Casalena

Bibliografia

Pierfranco Bruni, La voce e i destini, Ed. Demetra, 1990

 

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