Il nostro Silvano Lorenzoni dopo essersi concentrato nella sua produzione recente sulle tematiche cosmologiche, scientifiche e filosofiche, nella sua ultima produzione sembra essere passato a quelle storico-biografiche, ricordiamo che il libro immediatamente precedente a quest’ultimo, è stato dedicato alla figura del caudillo venezuelano Tomàs Funes.
Vi devo confessare che almeno in prima battuta l’accostamento fra questi due personaggi storici, Stalin e Napoleone, mi ha sorpreso. Dal punto di vista geopolitico e militare, infatti, io avrei accostato alla vicenda di Napoleone piuttosto quella di Hitler, infatti l’uomo di Ajaccio e quello di Braunau sull’Inn presentano nella loro storia notevoli parallelismi: un forte potere personale costruito a partire quasi dal nulla grazie a una personalità eccezionalmente carismatica, il dominio su gran parte del nostro continente in pochi anni in ragione di una forte superiorità militare, l’attacco alla Russia come surrogato della mancata invasione dell’Inghilterra (riguardo a Hitler, però va detto subito, la similitudine è solo apparente, perché come vedremo l’Operazione Barbarossa fu in realtà motivata dalla necessità di prevenire un’imminente aggressione sovietica), un declino altrettanto rapido della loro ascesa e infine il crollo dei rispettivi imperi in conseguenza del fallimento di questo attacco.
Tuttavia Lorenzoni ha ragione: da un altro punto di vista, a Napoleone si avvicina piuttosto la figura di Stalin che non quella di Hitler, infatti:
“La carriera di Stalin presenta un’analogia del tutto ovvia con quella di Napoleone Bonaparte. Quest’ultimo si propose di cavalcare i rivolgimenti causati dalla rivoluzione francese per elevare se stesso a imperatore dei francesi e a uomo politico più forte d’Europa. Stalin si propose di strumentalizzare la rivoluzione bolscevica per erigere se stesso a zar rosso (…).
In ogni caso sia Napoleone Bonaparte che Jozef Stalin risultano nobilitati, se così ci si può esprimere, dal fatto che essi misero mano a quelle putride ideologie/religioni non con lo scopo di farne da missionari o perché pensassero che esse, in sé, fossero qualcosa di valido, ma esclusivamente come strumenti di uso pratico per scopi di gloria personale”.
Premesso dunque il senso di questo accostamento, il testo si accentra sull’analisi della figura del dittatore georgiano, storicamente più vicino a noi, e Lorenzoni ci tiene a precisare subito che:
“A scanso di equivoci, sia subito detto che l’intenzione dello scrivente non è quella di “dare una mano di bianco” sull’altamente problematica figura di Giuseppe Stalin, ma piuttosto quella di esporre l’uomo e la sua carriera sotto una luce obiettiva, con tutte le conseguenze del caso”.
Bisogna infatti dire che durante la Guerra Fredda Stalin è stato rappresentato dalla propaganda “occidentale” né più né meno che come il diavolo incarnato, come fino al 1945 era avvenuto per Hitler, attribuendo ai sovietici responsabilità di atrocità commesse durante la guerra che obiettivamente ricadono sugli “occidentali” e cercando di sottacere le complicità di questi ultimi con i sovietici durante il periodo bellico.
Jozip Vissarionovic Dzugasvili, il futuro Stalin, nato a Gori in Georgia nel 1879, iniziò la sua carriera nel seminario ortodosso di Tblisi. Qui verosimilmente si rese conto che non esiste nulla di meglio di una religione abramitica per suggestionare e dominare le persone, ma anche che, da questo punto di vista la religione marxista ormai si prestava molto meglio del cristianesimo. A partire dagli inizi del novecento, fu attivamente coinvolto nel movimento leninista, dove fece una rapida carriera.
Uno dei primi incarichi importanti, dopo la “rivoluzione” d’ottobre (in realtà un golpe militare) fu quello di reprimerei separatisti georgiani che volevano staccarsi dalla Russia, problema che risolse con spietata durezza mediante fucilazioni di massa.
Qui occorre fermarsi ed esporre alcune considerazioni cruciali per la comprensione degli eventi successivi. Secondo Lorenzoni, verosimilmente a partire dalla rivoluzione francese, tutte le rivoluzioni “liberali” dell’ottocento rientrano nel quadro di una grande cospirazione il cui ispiratore è il nemico atavico delle genti indoeuropee, e la “rivoluzione” bolscevica non ha certo fatto eccezione. Il suo scopo era la creazione di una Soviezia estesa all’intera Europa continentale, e l’instaurazione del potere sovietico in Russia non doveva esserne che il trampolino di lancio. Per quanto riguarda il mondo anglosassone, l’America e l’Inghilterra, esso costituiva già, e costituisce tuttora una Puritania già saldamente in mano allo stesso padrone circonciso che la governa dietro le quinte.
La strada per investire il cuore dell’Europa con l’ondata “rivoluzionaria” sembrava libera, perché la Germania, uscita sconfitta e distrutta dalla prima guerra mondiale e attraversata a sua volta da moti rivoluzionari, non sembrava in grado di opporre resistenza come ha sempre fatto nei secoli a tutte le aggressioni da est. Tuttavia, fra la Russia e la Germania aveva ripreso forma lo stato polacco, che sotto la guida di un grande condottiero, il generale Jòzef Pilsudski inflisse all’armata bolscevica una bruciante sconfitta (si inaugura qui una tradizione che resterà una costante nella storia del comunismo, dagli anni fra le due guerre, alla seconda guerra mondiale, agli scontri di piazza degli anni ’70, costoro non si dimostreranno mai capaci di vincere contro un qualsivoglia avversario a meno di non trovarsi in una situazione di schiacciante superiorità numerica).
Non è chiaro perché Pilsudski non abbia marciato su Mosca in un momento in cui era ancora possibile porre fine al crudele “esperimento” bolscevico. Con ogni probabilità, le centrali della “liberal-democrazia” internazionale si sono attivate dietro le quinte facendo pressioni sulla Polonia.
La classe dirigente bolscevica della prima ora era pressoché interamente ebraica. Riporto una notizia che ho trovato in Decadenza di Michel Onfray e che certo interesserà Lorenzoni: lo stesso Lenin era di madre ebrea, e quindi un ebreo a tutti gli effetti secondo la legge talmudica, come del resto Winston Churchill.
Sebbene fosse battezzato e non circonciso, grazie alla sua feroce determinazione, Stalin si fece rapidamente strada nella nomenklatura sovietica fino a quando nel 1924 l’improvvisa morte di Lenin gli sgomberò il supremo vertice del potere, scavalcando l’erede designato di Lenin, l’ebreo Lev Bronstein, in arte Trockij.
L’eliminazione dei seguaci di Trockij portò a un deciso sfoltimento degli elementi ebraici nell’entourage del potere sovietico, ma quest’ultimo non fu mai completo, perché questo avrebbe significato perdere gli aiuti sottobanco della Puritania, e quindi il collasso dell’Unione Sovietica, la cui economia era già disastrata dall’introduzione del collettivismo.
A Stalin, ci dice Lorenzoni, va almeno attribuito il merito di essersi servito dell’ideologia bolscevica per costruire il suo potere personale invece di servirla, così come fece Napoleone con il giacobinismo, ma rimane il fatto che quest’uomo fu un mostro sanguinario a cui, oltre a tutto il resto, va attribuita la responsabilità del più spaventoso genocidio della nostra epoca i cui numeri fanno impallidire quello attribuito ai nazionalsocialisti, l’holodomor, la carestia provocata, lo sterminio per fame di milioni di contadini, soprattutto ucraini, per i quali il tiranno aveva un odio particolare, e che del resto, per il fatto stesso di possedere un fazzoletto di terra, risultavano obiettivamente nemici di quel sistema collettivista di cui il dittatore si stava servendo come strumento di potere.
Fra Stalin e Trockij, fra Stalin e la vecchia nomenklatura bolscevica esisteva un solo punto di contrasto “ideologico”: mentre per questi ultimi la Russia era solo un trampolino per la rivoluzione mondiale, a Stalin l’esperienza della fallita aggressione alla Polonia del 1920 aveva insegnato che era meglio consolidare “il socialismo in un solo Paese” in attesa del momento opportuno, essendo il fine ultimo assolutamente lo stesso: l’estensione a livello planetario della tirannide bolscevica.
E’ un fatto ormai accertato: l’attacco tedesco all’Unione Sovietica nel giugno 1941, attacco condotto con una chiara inferiorità numerica di uomini e mezzi, fu una mossa disperata per prevenire un’ormai imminente aggressione sovietica. Le prove di ciò sono emerse con l’apertura degli archivi del Cremlino dopo la caduta dell’Unione Sovietica, in particolare le rivelazioni esposte in una serie di libri, nessuno dei quali mi consta sia stato tradotto in italiano, dell’ex funzionario dei servizi segreti sovietici Vladimir Rezun, che li ha firmati con lo pseudonimo di Viktor Suvorov, ma abbiamo anche le testimonianze dei militari tedeschi (ad esempio Hanns Urich Rudel, l’asso degli stuka nel suo libro autobiografico Il pilota di ferro) che hanno potuto vedere grandi masse di truppe e materiale sovietico accatastati immediatamente dietro il confine, una disposizione del tutto illogica a fini difensivi, ma perfettamente coerente con l’imminente preparazione di una vasta offensiva.
E d’altra parte, mettetevi nei panni di Stalin: Bolscevismo e nazionalsocialismo erano due realtà inconciliabili, lo scontro era inevitabile. Quale momento migliore per passare all’attacco, se non quello in cui la Germania era impegnata in un conflitto, che non aveva voluto, con i franco-britannici?
Io ho affrontato questa questione storica di primissimo piano in un articolo su “Ereticamente”, La grande menzogna patriottica. Questo titolo ha la sua ragion d’essere nel fatto che Stalin nella circostanza fu abbastanza furbo e pragmatico da mettere fra parentesi le fisime ideologiche comuniste e fare appello al patriottismo russo per combattere “la grande guerra patriottica”, ma non si trattava – appunto – se non dell’ennesima menzogna, perché ai comunisti non importava del popolo russo se non come trampolino per la rivoluzione mondiale.
A Stalin, ci racconta Lorenzoni, con la Guerra Fredda è stata fatta recitare da parte degli Occidentali la parte del mostro, del diavolo incarnato che negli anni del conflitto e nel periodo precedente avevano invece assegnato a Hitler. Tuttavia bisogna ammettere che ci sono diverse cose che non tornano. Per prima cosa, sembra che Stalin non volesse il totale annientamento dello stato e del popolo tedesco, come era invece nei programmi mica tanto reconditi degli “occidentali”. Egli condusse tra il 1942 e il ’44 alcuni tentativi di arrivare a una pace separata con la Germania, che fallirono, da un lato per la diffidenza dei Tedeschi, dall’altro per la determinazione degli “occidentali” a non arrivare ad alcuna pace che non fosse la resa incondizionata, cioè l’annientamento della Germania.
Bisogna inoltre notare che Stalin rifiutò sempre che l’Unione Sovietica partecipasse ai bombardamenti aerei “alleati” sulle città della Germania e dei Paesi occupati, giudicandoli un crimine del tutto privo di giustificazioni militari.
L’Armata Rossa si macchiò di atrocità spaventose tra il gennaio e l’aprile-maggio 1945, cioè dopo il suo ingresso in terra tedesca, ma anche a questo riguardo le cose sono un po’ diverse da come sono di solito raccontate. Prima di tutto, il grande organizzatore e aizzatore delle violenze, dei saccheggi, degli stupri, dei massacri di civili inermi fu Ilija Erenburg che era – guarda caso – uno degli ebrei rimasti nell’entourage di Stalin o, come appunto pare fosse il caso dello stesso Erenburg, vi si trovavano in veste di attaché degli “occidentali”, cioè della Puritania giudeoanglosassone intenzionata all’annientamento del popolo tedesco, e queste violenze non ebbero per nulla un andamento sistematico.
“Si faccia il confronto, per esempio, tra il fato di Breslau, dove sia la guarnigione che la popolazione civile furono trattati cavallerescamente dai sovietici il cui comandante era un russo; e il fato spaventoso di Koenigsberg dove a comandare i sovietici era un ebreo. Il quale, fra l’altro non fece alcunché per risparmiare le proprie truppe”.
Vediamo come andavano le cose sull’altro lato, sul fronte occidentale. Qui, Dwight Eisenhower, questo squallido figuro che fu ricompensato per i suoi servigi all’usurocrazia circoncisa con la presidenza degli Stati Uniti, si rese responsabile della morte di un milione e 700.000 prigionieri tedeschi, lasciati morire di fame, freddo e percosse. Nell’immediato dopoguerra ai parenti di questi soldati venne falsamente comunicato che erano caduti in mano sovietica, tanto per preparare il clima della Guerra Fredda.
Questo è un punto sul quale occorre essere estremamente chiari, poiché si tratta di ristabilire una verità storica a lungo misconosciuta: l’Armata Rossa nel complesso si rese responsabile di atrocità inenarrabili nei confronti della popolazione civile tedesca e dei prigionieri disarmati, ma il comportamento degli “occidentali” non fu per nulla migliore. Semmai, la differenza consiste nel fatto che mentre da parte di Stalin non c’era l’intenzione di annientare il popolo tedesco, questo era invece appunto ciò che si proponevano gli “anglosassoni”, dietro le cui azioni è costantemente riconoscibile “la manina” circoncisa. Era stato elaborato persino un piano, il piano Morgenthau che prevedeva né più né meno che l’annientamento della Germania e del popolo tedesco, piano che probabilmente fu sospeso non certo per motivi umanitari, ma unicamente perché esso avrebbe creato nell’Europa centrale un vuoto pericoloso nel momento in cui scoppiò la Guerra fredda fra “occidentali” e sovietici.
Le atrocità degli “occidentali” furono falsamente attribuite ai sovietici o ai tedeschi stessi. Lorenzoni segnala ad esempio una sua scoperta: il massacro di Oradour in Francia, contrariamente a quanto di solito affermato, non fu opera dei tedeschi, ma dei maquis, i partigiani gollisti.
In generale, la preferenza accordata dai Tedeschi all’Occidente “cristiano” piuttosto che all’est “mongolo”, idea diffusa quanto, alla prova dei fatti, falsa, ebbe conseguenze disastrose. Essa aveva indotto Hitler a rifiutare le proposte di Stalin per una pace separata tra il 1942 e il ’44, analogamente indusse dopo la morte di Hitler, il suo successore Karl Doenitz a rifiutare la proposta sovietica di una capitolazione separata, dalla quale i Tedeschi avrebbero probabilmente avuto un trattamento migliore. Egli in seguito definì questo rifiuto come il peggior errore della sua vita.
I civili tedeschi che si rifugiavano in “occidente” per sottrarsi all’invasione sovietica caddero, si può dire, dalla padella nella brace:
“I campi di concentramento destinati a questi sfollati erano spesso gestiti congiuntamente da “anglosassoni” e da sovietici, e gli sfollati venivano spesso radunati in gruppi e massacrati a raffiche di mitra”.
Un concetto deve essere ben chiaro: se l’Armata Rossa si è resa responsabile di atrocità inenarrabili verso le popolazioni civili tedesche, queste ultime hanno sempre avuto da parte degli “anglosassoni” piena collaborazione e complicità. Di più, da parte degli stati maggiori americani ci si ebbe a lamentare che la guerra nel teatro europeo fosse finita “troppo presto”, non dando loro modo di sperimentare sulla Germania l’arma atomica, come invece fu fatto sul Giappone.
Paradossalmente, non rendendo possibile oltre un certo punto l’esecuzione del piano Morgenthau, Stalin fu il salvatore della Germania e forse dell’intera Europa.
Stalin morì il 5 marzo 1953, ufficialmente in seguito a un ictus, ma sulla sua morte ci sono dei sospetti, infatti, “stranamente” essa avvenne poco dopo che egli aveva cercato di creare un sistema economico internazionale parallelo a quello di Bretton Woods, coinvolgendo non solo i Paesi comunisti, ma anche l’Iran, l’Islanda e diversi Paesi sudamericani, e pareva avesse in animo di eliminare l’inefficiente dirigismo “socialista” sovietico, cioè scomparve esattamente nel momento in cui stava per diventare realmente una minaccia per l’usurocrazia planetaria, e questo rende molto sospetta la naturalità della sua morte.
Forse la conclusione più appropriata della vicenda umana e politica di Stalin, Lorenzoni la da riportando il giudizio di un ex internato nei gulag staliniani, secondo cui “Stalin era un mostro, ma almeno evitato l’americanizzazione della Russia”.
Della Russia e dell’Europa dell’est. Noi oggi possiamo vedere come a tutti gli effetti l’americanizzazione sia un veleno che lentamente, nell’arco di sette decenni ha distrutto il senso dell’appartenenza nazionale nei Paesi dell’Europa occidentale, che oggi non oppongono alla sostituzione etnica quelle reazioni, quegli anticorpi che sarebbero invece logici e necessari, laddove queste resistenze si trovano invece nell’Europa dell’est, dove la lunga notte comunista ha stravolto le identità dei popoli molto meno di quanto l’americanizzazione e l’assimilazione dei (dis)valori liberal abbiano fatto da noi. Se l’Europa riuscirà a trovare la via della salvezza, lo si dovrà anche a Stalin.
In appendice al libro, Lorenzoni ha messo alcune considerazioni sulla Vita e morte di Benito Mussolini. La figura del leader fascista è controversa, soprattutto per l’incompletezza della rivoluzione fascista fermatasi davanti a due troni: quello regio e quello papale e, come appunto ebbe a dire Stalin, “La colpa di Mussolini fu quella di non aver messo al muro tutti i suoi nemici”. In queste condizioni, fu impossibile per il fascismo compiere quell’opera di rigenerazione etica che invece Hitler portò efficacemente a termine in Germania, e i risultati si videro con la guerra, quando i nostri combattenti furono continuamente pugnalati alle spalle da comandanti che volevano la sconfitta come mezzo per eliminare il fascismo.
Resta comunque il merito di Mussolini quello di aver dato vita per primo in Europa a un socialismo nazionale, e probabilmente durante il periodo della Repubblica Sociale, di essere rimasto a un posto sempre più “scomodo” per evitare all’Italia disgrazie peggiori, un inasprimento della reazione tedesca verso un alleato rivelatosi infido, e della tragedia della guerra civile.
“Mussolini”, ci dice Lorenzoni, “dimostrò in extremis anche delle qualità personali di spicco”.
L’assassinio del duce e lo scempio di piazzale Loreto compiuti dai partigiani avvennero in esecuzione di ordini che non venivano da Mosca, ma dagli angloamericani – Stalin non volle mai la morte di Mussolini – mentre gli “alleati” occidentali si, soprattutto Churchill, che aveva tutto da temere dalle rivelazioni che Mussolini poteva fare sui retroscena politici e diplomatici del conflitto – a ciò “stranamente” si accompagna la “misteriosa” sparizione dei documenti che Mussolini aveva con sé.
La tragica pagliacciata di Piazzale Loreto fu una messinscena accuratamente preparata: già dal giorno prima vi erano appostati i cineoperatori e i fotoreporter americani. La “rabbia popolare” contro il presunto tiranno si sarebbe presto mutata in vergogna, e chi si percepisce vile, è più pronto al servilismo.
Io mi auguro che questo libro, che merita un’attenta lettura, aiuti a comprendere sempre meglio il fatto che oggi, dopo la fine del sistema sovietico, il nemico che minaccia i popoli europei e la loro stessa identità, non si trova più ad est, ma precisamente nella direzione opposta.
Silvano Lorenzoni
Stalin e Napoleone
Associazione Culturale Identità e Tradizione
Gennaio 2018
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