Louis-Ferdinand Céline, un profeta del nostro tempo. Nel corso di un’esistenza travagliata e tragica, visse e scrisse, le due cose in lui coincidevano, per ingannare la morte, sempre prossima alla condizione umana, e per irridere l’entropia che, nella nostra epoca, sembra trionfare anche sul piano storico. Questo è il giudizio che abbiamo ricavato dalla lettura di un volume prezioso che raccoglie un’enorme mole di documenti céliniani. Si tratta di Luois-Ferdinand Céline, Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze, da poco nelle librerie per Bietti (per ordini: 02/29528929, euro 25,00). Il testo è curato da Andrea Lombardi, uno dei massimi studiosi italiani dello scrittore francese. Dalla Prefazione di Stenio Solinas si evince come l’unica “bagatella presa sul serio da Céline è in realtà quella musicale, la pétite musique della sua arte” (p. 12). Non si tratta, si badi, di mera ricerca linguistica, di divertissment stilistico, effimero e sterile, in quanto da essa emerge “una visione del mondo, uno stile nuovo per vivificare l’antico, un modernismo reazionario” (p. 12), la creazione artistico-linguistica si configura, nelle sue produzioni, nella prosa sincopata, mirata a far emergere le dissonanze del mondo, un mondo che la ratio e il logocentrismo hanno inaridito.
“Emozionatevi dio cristo! […] Saltate! Vibrate! Fate scoppiare il guscio […] Trasponete o è la morte!” (pp. 16-17). Mostrano di aver contezza di tale radicalità poietica, nello scritto che compare nella sezione Commenti del volume, il filosofo Gilles Deleuze e lo psicanalista, vicino alle posizioni dell’antipsichiatria, Félix Guattari. I due intellettuali ritengono che la lingua possa prestarsi ad un uso intensivo“che la faccia filare secondo linee di fuga creatrici” (p. 437). E’ ciò che, nelle sue opere, e soprattutto in Guignol’s band ha fatto Céline, adottando la modalità dell’ “esclamativo spinto all’estremo” (p. 437). Al termine della sua notte stilistica, egli giunse al silenzio. Un esito inevitabile, mistico. Mentre attorno a lui, anche da parte degli acerrimi nemici, letterari e politici, il linguaggio veniva ridotto alla retorica della lingua ufficiale e di Stato, ossificando il reale, la lingua céliniana mirava a destrutturare le false certezze, i facili moralismi, le ragioni fuorvianti che hanno accompagnato l’affermarsi delle sicurezze moderne. Commenta Abel Bonnard, Ministro a Vichy e membro dell’Académie Française dal 1933, che a lungo frequentò lo scrittore a Sigmaringen, mentre questi espletava la funzione medica per la colonia francese che aveva trovato rifugio in quel luogo,“Credo di poter assicurare che il sentimento dominante di Céline nei confronti del mondo attuale fosse la disperazione” (p. 89).
Un profeta dell’Apocalisse mostra l’ambiguità della vita, con estrema chiarezza, a volte con durezza assertoria, come nelle corde dello stile telegrafico perseguito da Céline. Del resto, da queste pagine, Céline stesso emerge in dimensione camaleontica. Sostenitore estremo ad un tempo dell’antisemitismo e del pacifismo, autore ‘per caso’, come si definì, che aveva scritto Viaggio al termine della notte solo per comprarsi un appartamento e che, in realtà, fece dello scrivere ragione di vita, tombeur de femmes e frequentatore di salotti, intellettuali e non, che divenne clochard. Si comprende come il francese fosse un uomo oltre: oltre il proprio tempo e i suoi fin troppo scontati schematismi ideologici. Vogliamo dire in sostanza che la parola céliniana testimonia una possibilità: quella di una vita in cui gli opposti non siano pensati (e soprattutto vissuti!) come contraddittori (secondo il canone eleatico-aristotelico), ma nella loro dimensione relazionale. Per questo Céline è eretico, reprobo, corpo estraneo alla cultura del proprio tempo. Il collaborazionismo non è che elemento secondario, rispetto al rifiuto dei principi che hanno fondato la civilizzazione europea, a cominciare dal quello d’identità. Il nostro autore recupera la dimensione del sogno e del possibile, non tradendo mai la vocazione alla scrittura che maturò, come ricorda il saggio che inaugura il libro, durante il soggiorno in Inghilterra.
Venne destinato a Londra in qualità di impiegato all’ufficio passaporti, presso il consolato francese, dopo essere stato ferito durante il Primo conflitto mondiale La frequenza dei quartieri periferici e malfamati, nei quali poté osservare in vitro il degrado cui l’esistenza umana può giungere, lasciò in lui traccia indelebile. Lo ricorda un collega di allora, Georges Geoffroy. Dalla sua testimonianza è possibile rilevare come, con molta probabilità, i due a Londra stringessero una relazione con Mata Hari, spia del Kaiser. Testimonianze, saggi e lettere, quindi, consentono al lettore, questo è il maggior pregio del libro, non solo di cogliere i contenuti essenziali della produzione céliniana, ma anche il cuore avventuroso dello scrittore: dalle difficoltà patite nell’infanzia alla laurea in medicina, dalle esperienze di lavoro in una gioielleria parigina, a quelle vissute all’estero, dagli incontri appassionati con danzatrici e spogliarelliste ai matrimoni e alla relazione affettuosa con la figlia, il vivere di Céline è connotato dal tratto dell’intensità. Altrettanto può dirsi della scelta politica collaborazionista, che tanto gli costò in termini di sofferenza e discriminazione, e che fu a lungo travisata. Ricorda Hermann Bickler, colonnello SS durante l’occupazione, che frequentò lo scrittore nel ‘rifugio’ di Montmartre, che questi “era pessimista sulla guerra, sulla posizione dei tedeschi. Sono portato inoltre a supporre […] che molti tedeschi non gli fossero simpatici” (p. 81).
Del resto per Brasillach “Cèline dice ciò che pensa, e pensa ciò che vuole” (p. 77). Uomo libero, lo scrittore. Nota un medico che lo conobbe a Meudon, dove trascorse l’ultimo periodo della vita, “Era uomo buono […] Era contro l’ingiustizia […] non era religioso ma mistico”(p. 9). Durante i drammatici mesi a Sigmaringen, all’altezza dello stomaco, in un tascapane, teneva l’amatissimo gatto Bébert e guardava disilluso alla vita, pur convinto che l’arte gli avrebbe concesso l’immortalità. Lo scultore tedesco Arno Breker, annota ciò che Céline gli riferì nel loro ultimo incontro “Questo non è un addio! Noi rimarremo”(p. 101). Lo scrittore fu sepolto clandestinamente, poco dopo, nel cimitero di Viex-Meudon: al seguito dl feretro un gruppo sparuto di amici fedeli. Sulla lapide sepolcrale volle fosse inciso un veliero, simbolo della metamorfosi, del continuo veleggiare verso l’infinito della vita eternamente ritornante.
Giovanni Sessa
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