Qualche giorno fa Repubblica ha dedicato due paginoni alla figura dell’eroe: tema abbastanza inconsueto di questi tempi, e ispirato, peraltro, da un protagonista dei nostri giorni che proprio allo stereotipo dell’eroe non corrisponde: Nelson Mandela.
A lui è mancato, infatti, il requisito dell’azione, della “specialità” dei tempi, e, anche della morte da giovane. L’eroe, tradizionalmente, deve “agire” – soprattutto sotto il profilo “fisico” – non limitarsi a subire l’azione altrui (questo è “stoicismo”, non eroismo), sia pure con 28 anni di carcere; deve manifestare questa sua azione in tempi particolarissimi e “unici”, quali una guerra, una catastrofe, un’emergenza speciale (“l’eroe del quotidiano” è un ossimoro); deve, il più delle volte, proprio in virtù di questa sua “azione” fare dono della vita da giovane, come chiunque sia caro agli dei. È, insomma, un concetto che è pure inutile richiamare nei tempi moderni fatti di mediocrità e di quotidiani “adeguamenti”.
C’è, però, un’altra figura che molto si avvicina a quella dell’eroe, ed è quella dell’avventuriero (espressione preferibile a quella più fanciullesca di “avventuroso”), personaggio al quale oggi si usa dare una connotazione esclusivamente e certamente negativa, carica di intrinseco disprezzo. Di avventurieri si parla infatti, con riferimento al mondo degli affari, intendendo spregiudicati business men privi di ogni scrupolo morale; di avventurieri si parla, con riferimento al mondo dei sentimenti, intendendo inveterati “conquistatori” (e anche, con i tempi che corrono, grintosissime “conquistatrici”) protesi alla esclusiva ricerca di fisici piaceri; di avventurieri si parla – e qui mi fermo – con riferimento al mondo della politica, intendendo arruffoni senza ideali, sempre disponibili al cambio di bandiera.
Una definizione, insomma, assolutamente negativa, che prescinde dalla valutazione di ogni motivazione ideale (ideologica?) a base dell’azione dell’avventuriero e ignora l’originario significato che voleva invece individuare, come recitano i vocabolari: “avventuriero: chi va incontro alle avventure e ai pericoli”.
E allora, come nasce questo travisamento? Nel mondo moderno – che può brechtianamente fare a meno degli eroi – non c’è forse più nemmeno posto per l’avventura? In un libro molto bello, scritto da J J Langdendorf, e dal titolo “Sfida nel Kurdistan”, che, per singolare coincidenza si svolge in tempi lontani ma in luoghi tuttora “avventurosi” (esiste anche una geografia dell’avventura? bel tema, andrebbe approfondito), si può, in un certo senso, trovare una traccia per individuare i lineamenti di quell’avventuriero che viene da molto lontano, per approdare, in questo inizio di secolo oppresso da mille paure, a splendide individualità, figure senza paura (e alla fine, un nome mi proverò a fare, per non limitarmi solo ad astrazioni…).
I lineamenti, dicevo: innanzitutto la solitudine, perché l’avventuriero è solo anche nell’azione, quando è circondato da molti… non è un solitario, si badi bene: glielo vieta la sua stessa natura di uomo d’azione, ma è comunque solo. Può essere seguito, può avere dei compagni fedeli, degli estimatori e degli ammiratori, ma da essi non sarà – meglio, non si sentirà – mai veramente compreso, se non in modo epidermico, superficiale. Ammireranno tutti la grandezza delle sue azioni, ma pochi o nessuno, capiranno veramente le sue motivazioni Questo fin dalla giovinezza, che è essenziale per l’avventuriero (come ho già detto per l’eroe), non vista come semplice dato anagrafico, ma come atteggiamento verso il mondo e gli altri Walter Benjamin ha detto che: “un uomo resta giovane finché non ha tradotto in realtà il suo ideale”, ed è indubbiamente vero…ma dirò di più: l’avventuriero è un uomo che non tradurrà mai in realtà il suo ideale, e perciò resterà sempre giovane. Per certi versi, egli è veramente “l’eroe dell’inutile”: rifugge e quasi teme la materialità di una realizzazione che toglierebbe al suo ideale il sapore remoto del vento, per incanaglirlo, involgarirlo. È così che l’avventura in sé diventa l’unica possibilità riconosciuta che gli consente di misurare se stesso. Gli potrà capitare di conoscere la gloria, o almeno la fama e il successo, di avere denaro e potere, ma ciò non gli basterà Nulla sarà per lui pari all’inebriante sensazione di dare, con l’avventura, un senso all’esistenza, per vedere se essa vale veramente la pena di essere vissuta. Ecco perché, per molti, l’avventuriero resta un visionario. In realtà, invece, come ha detto qualcuno: “Il suo sogno è l’unica e vera dimensione del reale possibile”.
Ho detto prima che intendevo fare un nome, e lo spunto mi è dato da un libro di qualche anno fa, che mi è capitato fra le mani (in uno dei periodici tentativi di mettere ordine) quasi in contemporanea al paginone di Repubblica cui accennavo all’inizio : “Un’avventura: Almerigo Grilz dalla lotta politica al giornalismo di guerra”, Settimo Sigillo 1988. Suppongo che i miei amici lettori conoscano la storia di Almerigo Grilz e la riassumo molto sommariamente: dirigente del FdG e del MSI triestino negli anni settanta, è costantemente in prima linea nella battaglie che in quella particolarissima città si combattono, per la difesa dell’italianità sempre minacciata… consigliere comunale, agli inizi degli anni ottanta si dimette e sceglie di fare il giornalista “sul campo”, in tutte quelle zone del mondo dove ci sono
conflitti e tensioni…muore il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre con una cinepresa sta documentando una cruenta battaglia fra i miliziani anticomunisti della Renamo e i soldati fedeli al governo in carica, colpito da un “proiettile vagante”…i suoi resti sono sepolti nei pressi del luogo dove ha trovato la morte.
conflitti e tensioni…muore il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre con una cinepresa sta documentando una cruenta battaglia fra i miliziani anticomunisti della Renamo e i soldati fedeli al governo in carica, colpito da un “proiettile vagante”…i suoi resti sono sepolti nei pressi del luogo dove ha trovato la morte.
La prima osservazione me la suggerisce il titolo stesso del libro: se quella di Almerigo fu un’avventura, può lui stesso definirsi un “avventuriero”? Non l’ho personalmente conosciuto: ho letto molto di quello che ha scritto e ciò che su di lui è stato scritto… Credo di sì, perché ebbe una grande capacità di sognare, di immaginare, di apparire “visionario” (nel senso sopra detto) in nome della sua Trieste, della sua Italia, della sua idea, e questo “corrisponde”, e poi morì giovane, e anche qui… Ci sono poi le foto: in esse i suoi occhi sembra intravedano cose che ai più sfuggono, quasi sognasse, come il Che, un altro “avventuriero” da lui lontanissimo eppur vicinissimo, di: “sentire sotto i talloni gli zoccoli di Ronzinante… Rimettersi in cammino con lo scudo al braccio, per essere un avventuriero di quelli che rischiano la pelle per dimostrare la propria verità” Ma fu Almerigo anche un uomo “solo”? Non lo so: nelle foto egli è spesso con gli altri, in mezzo agli altri, ma sembra sempre un passo avanti, e non solo fisicamente (anche se è quasi sempre così) quanto idealmente: vicino e lontano nello stesso tempo. Una mi ha colpito particolarmente: è quella in cui è solo, davanti al portone della sede del FdG triestino, in via Paduina…Qui il senso di “distacco” anche fisico, è più evidente.
Chiunque abbia vissuto quegli anni turbolenti, sa del rapporto molto particolare che legava gli uomini alle sedi, costantemente minacciate dalle bombe avversarie e dai sigilli polizieschi. Almerigo lì solo, davanti a quel portone, sembra testimoniare di quel rapporto, immagine viva di un baluardo alzato a Trieste come a Roma, Milano, Bari e in mille altre città d’Italia. Se anch’io sono qui oggi a scrivere di queste cose, su questo sito, lo devo a lui e tanti altri “avventurieri” come lui…