Era il 26 novembre 2009, Gino Ragno ci lasciava con la riconoscenza di chi lo aveva conosciuto nelle sue battaglie da politico e giornalista. Era l’ormai lontano 1972 quando un bel gruppo di giovani, tra cui chi scrive, si recò in Germania per le Olimpiadi di Monaco di Baviera. Tutti studenti universitari con pochi sghei ma nello zaino l’entusiasmo non solo per i cinque cerchi ma per l’idea d’una Europa dei popoli tutta da costruire, ancora oggi. Quello era il sogno di Gino quando fondò l’Associazione di Amicizia Italia-Germania ripartendo da due Patrie sconfitte, umiliate dopo l’ultimo conflitto mondiale. Furono un’esperienza forte quelle due settimane di tarda estate, Olimpiadi di sangue per l’attacco terroristico a sorpresa dell’organizzazione palestinese Settembre Nero. Assalirono gli alloggi degli atleti israeliani, ne sequestrarono nove dopo averne uccisi due a bruciapelo, finale una strage, nove ostaggi, cinque fedayyn e un poliziotto uccisi, Monaco blindata dal 5 al 6 settembre, cingolati per le strade, controlli, confusione, tanta impreparazione, Brandt piegato da Golda Meir nel no secco alla trattativa con i terroristi.
Il viaggio ci portò anche a Dachau, visita al primo campo di concentramento nazista voluto da H. Himmler, prototipo di tutti gli altri lager, persino con la satanica scritta Arbeit macht frei (“Il lavoro rende liberi”) sulla “porta dell’inferno”. Ma fu anche escursione d’un giorno a Berlino a vedere quel muro della vergogna, simbolo triste della cortina di ferro, della guerra fredda, imbecille, ottusa “barriera di protezione antifascista” (Antifaschistischer Schutzwall) della DDR. Costruito nel ’61 cadrà solo nell’89 (ne conservo una scheggia) lasciandosi dietro una lunga lista di vittime della VoPos (oltre duecento) con arresti e internamenti “rieducativi”, anche una farfalla se l’avesse sorvolato sarebbe stata catturata, considerata una spia del capitalismo. Per Gino quel muro era la sconfitta dell’Europa doganale, quella mercantile di otto Stati membri ma politicamente uno 0 spaccato come adesso. E’ stato lui Gino Ragno a sollevare la coltre sugli italiani che hanno spinto a tutta forza contro quel manufatto dell’orrore, quanti furono? Sedici per quel che s’è potuto ricostruire stante il silenzio ipocrita del nostro Paese impelagato nell’equilibrismo col Partito comunista più forte del vecchio Continente. Raccontava Gino: «Sono cinquemila gli italiani che parteciparono in 28 anni, a Berlino Ovest, a manifestazioni di protesta contro la dittatura della Germania Est; 16 gli italiani arrestati e rinchiusi nelle carceri della Stasi per attività di fluchthilfe, ossia per aver tentato di aiutare ad oltrepassare il Muro decine di tedeschi di Berlino est ». I primi eroi furono due studenti, Mimmo (Domenico) Sesta e Luigi Spina conosciutisi a Gorizia alle medie superiori, ragazzi di un’intelligenza contagiosa, erano in classe con Bruno Pizzul. Mimmo era di Vieste, orfano di padre caduto nella guerra civile spagnola, s’era trasferito al nord a Chioggia, “Gigi” era goriziano d.o.c., alto, smilzo, gran disegnatore, entrambi si iscrissero alla Technische Universität di Berlino. Mimmo alla facoltà di Ingegneria civile, Gigi all’Accademia di Arti grafiche. Quando i chiodati prussiani, decisero di sbarrare il confine est-ovest con fili spinati arrotolati e poi con blocchi di cemento per impedire, con una barriera sorvegliata, la fuga dei loro concittadini, Peter Schmidt compagno di studi universitari dei due italiani, restò intrappolato con la famiglia oltre la cortina di ferro, era il 13 agosto 1961. Il “mostro” aveva preso forma nel silenzio generale, alla fine sarà lungo 155 Km con un gemello parallelo al suo interno di pari lunghezza, lasciando, in mezzo, una zona brulla tra i due chiamata” striscia della morte”, dice tutto.
Da quella notte del 13 dicembre Berlino era spaccata a metà come una mela, impossibile per i tedeschi dell’Est fuggire ad ovest, erano in trappola, divisi dai loro parenti, amici, studi, Zac, la porta di Brandeburgo non era più simbolo di pace ma della guerra fredda ,“meglio un muro che la guerra” fu il lepido commento di J. F. Kennedy.
Che fare per il caro amico Peter Schmidt intrappolato con moglie e figlioletta, impedito di proseguire i suoi studi? Mimmo e Gigi pensarono di scavare un tunnel, come a volte fanno i carcerati, come sempre debbono fare i minatori, bisognava farsi talpe sotto quel muro di confine. Domenico era ingegnere civile, starà a lui progettare la galleria dirigendone i lavori, ma occorreva far presto e bene, servivano attrezzature e braccia dopo aver individuato, con un sopralluogo, il sito più adatto per dar corso al progetto. La guerra aveva bombardato una vecchia fabbrica lasciandone uno scheletro abbandonato, si trovava in Bernauer Strasse, quello era il posto giusto per iniziare a “bucare” il suolo, partendo dalla Berlino occidentale. Pale, picconi, vanghe e carriole furono prese “in prestito” da un cimitero, la luce elettrica con un allaccio volante, sputo sulle mani e si comincia a scavare in tre, oltre ai due italiani c’era un loro amico Harry Seidel cui si aggiungeranno i coniugi Fuchs, ma presto, per passa parola, il piccolo gruppo fece proseliti arrivando a 40 componenti impegnati nell’impresa, seppur le difficoltà incontrate già nel settembre del ’61 erano tante compreso il finanziamento dell’opera, i pochi soldi di quegli studenti volarono via rapidamente. Per finanziare l’opera Mimmo e Gigi ebbero l’idea di bussare alla televisione americana NBC dandole l’esclusiva delle riprese dei lavori nel tunnel in cambio di un contributo per eseguirlo, in pratica quel filmato sarebbe stato il primo reality ante litteram. Accordo fatto, si procedette con lena.
Quel budello era esattamente come una galleria mineraria, realizzarono un carrello su monorotaia per tirar fuori terra e detriti, illuminarono il tunnel, rinforzarono con travi e puntoni le volte e le pareti dello scavo, spicconavano quasi in ginocchio, lavorando i turni di tre ore, questo esofago doveva raggiungere inizialmente i 170 m. Ma i problemi erano tanti, il più grave in assoluto quello dell’allagamento imprevisto della galleria, con conseguente fermo dei lavori, blocco dell’erogazione idrica, idrovore in prestito, tirar via la fanghiglia con evidente allungamento dei tempi ed il pericolo d’essere scoperti. Per recuperare si decise una variante, accorciare la lunghezza del tunnel a 126 m. Man mano che ci si avvicinava alla bocca d’uscita ad est, prevista nello scantinato del palazzo al civico 7 di Schonholzer Strasse, si rendeva necessario organizzare la fuga istruendo i prossimi fuggitivi sul come, dove, quando. A tutto questo pensò una donna sola, Ellen, residente a Düsserdolf, fidanzata di Domenico (diverrà poi sua moglie) che aveva libertà d’accesso a Berlino Est. Il coraggio ed il lavoro di questa ragazza furono determinanti allorché, dopo sette mesi, il 14 settembre 1962, fu aperta la bocca della fuga, fu lei ad organizzare in segreto l’operazione, accompagnare a piccoli gruppi i fuggitivi, facendo la spola, riuscendo a beffare l’occhio grifagno della Stasi. Così quel giorno 29 persone, in primis l’amico Peter con moglie e figliola, s’infilarono in quel cunicolo raggiungendo la libertà. Appena in tempo, come in un thriller, perché gli ultimi già uscirono col fango fino ai fianchi, il tunnel purtroppo si stava allagando, non fu possibile portare fuori altra gente, fu per questo che passò alla storia col nome di tunnel 29 o “tunnel della libertà” titolo del romanzo scritto da Ellen Sesta nel 2002. A chi legge queste nostre scarne righe suggerisco di vedere il filmato della NBC cliccando su Un eroe italiano. La storia di Mimmo Sesta e del tunnel 29- stonehenge, più delle parole le immagini trasmettono l’umanità dei fatti.
Domenico Sesta e Luigi Spina non si fermeranno, rimasti a lavorare in Germania continueranno a favorire la fuga verso la libertà di altri cittadini “reclusi” nella Repubblica di Pancow, fino ad essere insigniti della medaglia d’oro al valor civile conferitagli, nel 2000, dall’allora Presidente Ciampi.
La fuga del tunnel 29 fu vincente, ma, come ricordava G. Ragno altri connazionali si son tirati su le maniche, fatto il cuore grande per riuscire ad aggirare il muro, scoperti dalla Stasi, finirono nelle carceri della DDR abbandonati dalla coraggiosa Repubblica Italiana. Le loro storie sembrano dissolte nella memoria come il ballerino Nereo Darmolin cui molti tedeschi dell’est debbono la conquista della libertà, lui non finì ai ceppi che conobbero invece Graziano Bertussin, Benito Corghi (freddato dalla polizia doganale), Pasquale Cervera, Ernesto De Persilis, Antono Di Muccio, Michela Duani, Nicola Marcucci, Vittorio Palmieri, Natale Pirri, Pietro Porcu, Elena Sciascia. Quest’ultima, italo-tedesca, nel ’73 venne arrestata dalla polizia segreta con l’accusa di aver tentato di far fuggire da Berlino Est la sua amica Eva Solingen. Venne torturata in carcere per estorcerle una confessione, poi condannata a 7 anni di reclusione, fu rimessa in libertà nel ’76 dietro il pagamento cauzionale di 80.000 marchi della Germania Federale. Sevizie e regime carcerario le piagheranno per sempre le forze, un marchio a fuoco indelebile, procurandole nel tempo due ictus, il primo a pochi mesi dalla scarcerazione, il secondo in modo irreversibile nel ‘96 tanto da ridurla in coma per sette anni fino alla morte avvenuta il 14 ottobre del 2003. Tra tante memorie e condimenti postumi di lacrime ci chiediamo il perché non siano degni di un ricordo questi eroi quotidiani seppelliti, a loro tempo, per meschine ragioni di diplomazia da bottega.
Emanuele Casalena
Bibliografia
- Ellen Sesta, Il tunnel della libertà, 126 metri sotto il muro di Berlino, Garzanti Editore, 31/05/2002.
- https://albtex.wordpress.com/2012/04/08/un-eroe-italiano-la-storia-di-mimmo-sesta-e-del-tunnel-29/
- sanfrancesco, Italiani contro il Muro, Redazione online, Rivista della Basilica di S. Francesco ad Assisi.
- Gilberto Mastromatteo, Il muro che ci ha divisi, il Messaggero di Sant’Antonio, 16 ottobre 2009.