Negli articoli precedenti avevo accennato al concetto della “doppia fase” del dispiegamento femminile; concetto cosmologico ed antropologico assieme che, ricordiamo, comporta un momento inizialmente “libero”, promanativo/espansivo, e poi uno più stabilmente “imbrigliato”, ancorato all’elemento virile. Ebbene, l’ipotesi di partenza è che tale “doppia fase” potrebbe essere collegata ad un parallelo e corrispondente “doppio stato” del Maschio; un tema in probabile relazione con il mitico episodio del “sonno di Adamo”, che si colloca a partire dagli esordi del Secondo Grande Anno del nostro Manvantara. Seguendo questa linea, ora quindi potremmo immaginare Adamo in un’analoga doppia veste, cioè all’inizio – durante il “sonno” – in una situazione “latente”, e successivamente “ridestato” ad una nuova coscienza.
La prima fase – che più specificatamente analizzeremo in questo articolo, lasciando la seconda al prossimo – si presenterebbe quindi secondo una modalità “notturna” e connessa alla nascita di Lilith, qui avente un significato più generale (cioè, come abbiamo visto, tutta la materialità umana); una modalità che sembra anche proporsi piuttosto palesemente, visti i chiari rimandi mitici che la collegano alla notte, agli incubi del sonno e, soprattutto, del suo accostamento simbolico con la Luna, in particolare con la sua fase “nera”.
In termini più generali si può dire che notoriamente la Luna impersona l’essere femminile, e ciò soprattutto nel suo perenne aspetto di mutevolezza e variabilità; una concezione che sembra attestata in diverse aree del mondo (America, Pacifico, Asia meridionale, Mediterraneo, Africa), soprattutto nell’idea che l’astro selenico rappresenti il simbolo fondamentale del divenire cosmico. Di ciò, la manifestazione più evidente è infatti il continuo alternarsi delle fasi lunari con il movimento incessante dalla Luna nera alla Luna piena: quindi un appalesarsi visibile del fattore-tempo e che non a caso implica ora l’ingresso in campo della sua personificazione più conosciuta, cioè Kronos, il titano con la falce, chiarissimo simbolo selenico.
Se la Luna nera nel mito è accostata a Lilith, d’altro lato sembra naturale porre Eva in relazione alla Luna piena: fase, almeno inizialmente, di accordo con Adamo, che in quest’ottica è correlabile al Sole (come vedremo anche nel prossimo articolo) e dal quale infatti riceve e riflette la luce nella sua misura massima. Da qui la possibilità che le due donne possano essere considerate anche secondo una modalità che le sequenzia cronologicamente, aspetto che in effetti traspare quando si ricorda Lilith come prima compagna di Adamo, precedente ad Eva stessa. Peraltro è interessante notare come, nella mitologia iranica, l’Uomo Primordiale Gayomart si unisca proprio a due regine dalle caratteristiche opposte, una Bianca ed una Nera; nel quadro di una possibile interpretazione plurima dei simboli tradizionali (già più volte sottolineata in precedenza), a mio avviso tutto dipende dal significato che attribuiamo all’Uomo Primordiale, dal quale conseguirà quello da assegnare alla regina bianca (Eva) ed alla regina nera (Lilith). In particolare quest’ultima potrà rappresentare, come abbiamo visto, il concetto più ampio della fisicizzazione umana (e, ad esempio, Eva la parte “sottile” della manifestazione individuale, quale paradossale sinonimo dell’Adamo psichico); ma, su un livello interpretativo più ristretto, ritengo che Lilith possa anche simboleggiare – segnatamente in qualità di “regina nera”, analoga alla Luna che “fugge” dal cielo e si fa oscura – una sola frazione dell’umanità corporeizzata, ovvero quella “australe” e tendenzialmente “melanoderma”. Fino anche ad arrivare, come vedremo, ad uno specifico ramo di questa.
A mio avviso è precisamente questo il punto nel quale interviene la prima, radicale, dicotomia umana – quella Nord-Sud – evento che è stato enfatizzato soprattutto nell’approccio interpretativo adottato da Julius Evola; il quale, non a caso, definisce “notturne” le razze nere.
In merito al significato “australe” di Lilith sembrano piuttosto eloquenti alcuni accenni mitici quali, ad esempio, l’accostamento che ne è stato fatto con le Arpie, creature che – dettaglio molto importante – nel corpus ellenico vengono attaccate e cacciate proprio dai figli di Borea. Nella tradizione ebraica Lilith rifiuta di sottomettersi ad Adamo e quindi entra ben presto in contrasto con lui: pronuncia allora il nome di Dio, ottiene le ali per allontanarsi dal Paradiso Terrestre e dirigersi, pur con il rimpianto dell’irreversibile perdita edenica, verso le sponde del mar Rosso (altri punti del mito arrivano a collocarla fino nell’Africa nera). Un ulteriore elemento arabo-giudaico associa direttamente Lilith alla Regina di Saba, figura che peraltro, secondo alcune tradizioni, sarebbe connessa alla stirpe dei “Jinn”, i “Geni”, esseri del mondo psichico che instaureranno con l’umanità ordinaria un rapporto ambivalente (e che sarà oggetto di uno dei prossimi articoli); è comunque estremamente significativo il fatto che la Regina di Saba spesso sia stata considerata un simbolo dell’estremo Sud e denominata “Regina dell’Austro”. Inoltre, nella tradizione apocrifa ebraica essa viene anche descritta con i piedi palmati dell’oca, segno considerato demoniaco e connesso ad un animale che, come già visto nel precedente “Unità dualità e molteplicità umana”, rappresenta una regressione “totemizzante” dello stesso simbolo iperboreo del Cigno, quale oscuramento della pura luminosità olimpica con il prevalere del tema mutevole, vitale e legato all’inesausta fecondità generatrice. Ma non mi sembra nemmeno azzardato accostare Lilith anche alla figura dell’Orsa inferocita, nel momento in cui, in diverse narrazioni, questa appare come la trasformazione animalesca di una donna che un tempo aveva rifiutato il proprio ruolo respingendo tutti i pretendenti; il comportamento dell’Orsa presenta delle notevoli analogie con quello di Lilith, che nel mito ebraico non accetta il ruolo di subalternità nei confronti di Adamo, forse a simboleggiare la ribellione di una prima frangia di kshatriya verso la superiore autorità sacerdotale, creando quindi le condizioni per una sua precoce uscita dalla sede nordica.
Credo inoltre che la parte di umanità avvicinabile alla figura di Lilith possa anche essere accostata alla vicenda di Hefestos, il dio greco che anticamente fu cacciato dal cielo ma che viene considerato, pur essendo zoppo e deforme, anche civilizzatore dell’umanità, quasi a significare l’intervento di una primissima stratificazione culturale. Hefestos viene ritenuto dotato di poteri di carattere demiurgico e vari elementi vi evidenzierebbero tracce di arcaiche forme sciamanico-estatiche; ma l’aspetto che mi sembra particolarmente interessante è che il dio viene spesso indicato come nano, ed anche che alcune versioni del mito sembrano alludere alle sue deformità come causate proprio dalla caduta dall’Olimpo.
Questi ultimi punti potrebbero riferirsi, a mio avviso, al primo enuclearsi di quel particolare ramo dell’umanità genericamente definibile “equatoriale” ed al subentrare delle specifiche caratteristiche fisiche di tipo “pigmoide”; caratteristiche le quali, come vedremo, da diversi antropologi vengono considerate “protomorfe”, cioè della massima antichità, e quindi tutto sommato coerenti proprio con quell’aspetto mitico nel quale sembra evidenziarsi un’anteriorità di Lilith rispetto ad Eva. E’ probabile che il ramo pigmoide godrà, su scala globale, di un periodo di predominanza numerica e culturale un po’ più tardi, ovvero subito dopo la fine del Satya Yuga e per una certa parte del Treta Yuga (come vedremo in un prossimo articolo), fase contrassegnata dall’arrivo del quinto Avatara di Visnu, Vamana, che significativamente appare anch’egli sotto forma di “nano”; ciò, tuttavia, non toglie che a mio avviso vi possa essere un certo scarto temporale tra il primo sorgere di una data forma e la fase nella quale essa giungerà ad esercitare una temporanea egemonia sulle altre (come forse avverrà anche per i Giganti, sui quali torneremo in futuro).
In ogni caso, vari antropologi ipotizzano che le forme probabilmente considerabili come le diramazioni più antiche separatesi dal comune tronco umano, siano oggi rappresentate dalle popolazioni pigmoidi, boscimanoidi e proto-australoidi, anche se va detto che non sono del tutto chiari i rapporti intercorrenti tra questi gruppi: ad esempio, diversi autori considerano i Boscimani a loro volta come un sottoinsieme dei pigmoidi, mentre secondo Coon tutti i pigmoidi conterrebbero, essi stessi, dei significativi elementi australoidi.
In ogni caso, è alle genti pigmoidi che viene spesso attribuito il primo popolamento di vaste aree del pianeta, come il continente africano, la zona indonesiana e quella australiana, in queste ultime forse associabile a popolazioni simili agli attuali Tapiro della Nuova Guinea; successivamente sarebbero subentrati i caratteri più marcatamente australoidi osservabili oggi, giunti dall’Asia orientale con popolazioni di tipo veddoide. I veddoidi, peraltro, da alcuni autori vengono considerati come una parte del gruppo pigmoide o ad esso strettamente connesso; Coon, e qualche altro studioso, li considera piccoli e primitivi caucasoidi, mentre altri li inquadrano piuttosto come dei proto-australoidi. In ogni caso, mentre oggi i veddoidi si trovano concentrati soprattutto nell’isola di Ceylon, è probabile che in tempi antichi abbiano occupato anche aree più lontane, come l’Arabia sud-orientale, la zona mesopotamica, forse anche l’Africa sud-orientale.
Comunque, l’attribuzione di questo ramo “equatoriale”, o della sua parte più importante, al tipo pigmoide trova diversi riscontri nella letteratura antropologica, che di frequente riporta le ipotesi dell’ologenista Montandon, secondo il quale l’umanità si sarebbe differenziata per successive dicotomie; la prima fissione, appunto, avrebbe precocemente separato i pigmoidi dal ceppo comune progenitore di tutte le altre razze. Nella sua ricostruzione, Montandon riunisce infatti tutti i pigmei africani, asiatici e steatopigidi in un’unica grande razza a sé, che tiene ben separata da quella negroide propriamente detta. In effetti, isolati gruppi pigmoidi risultano oggi dispersi lungo un’area piuttosto estesa: per citare qualche esempio, sono rappresentati da popolazioni come gli Yali dell’Indonesia, i Barrineans australiani (del Queensland settentrionale e sensibilmente assomiglianti anche ai Tasmaniani), i Semang malesi, gli Aeta delle Filippine, gli Andamanesi del Golfo del Bengala. Più o meno tutti questi “negrilli” evidenziano un buon grado di affinità razziale con i Pigmei africani (gli abitanti delle isole Andamane, in particolare, anche per l’aspetto della steatopigia) piuttosto che con i negroidi “classici” e più recenti. In questa prospettiva, quindi, sembrerebbe rafforzarsi l’idea che tutti i pigmoidi del mondo costituiscano la sopravvivenza residuale di quello che anticamente fu un gruppo originariamente unitario, esteso in continuità territoriale tra le coste atlantiche dell’Africa, la sponda meridionale del Mediterraneo, fino all’India ed all’Oceano Pacifico; un’ipotesi forse più verosimile rispetto a quella, alternativa, che li interpreta come il risultato di risposte adattative, a particolari condizioni ambientali, sviluppate in tempi più recenti da stirpi diverse di statura normale ed in via separata l’una dall’altra (quindi, improbabilmente, in più di una occasione ed arrivando a risultati fenotipicamente molto simili).
Oltre che dal punto di vista razziale, altri autori hanno evidenziato il fatto che tutti i pigmoidi del mondo presenterebbero anche dei tratti culturali tra loro analoghi; in particolare Alain Daniélou evidenzia sorprendenti convergenze tra la cultura dei Pigmei africani e quella dei Munda dell’India nord-occidentale (area che secondo alcuni autori ha recitato un ruolo importante per la genesi iniziale delle razze nere). D’altro canto, tutto ciò non toglie che queste popolazioni – in un’ottica monofiletica – pur essendo uscite molto precocemente dall’Eden boreale, non conservino ancora qualche ricordo ancestrale particolarmente significativo. Mircea Eliade, ad esempio, segnala come lo stesso simbolismo primordiale dell’Axis Mundi si ritrovi tra queste, citando nello specifico i Semang della penisola di Malacca, i quali tramandano l’idea che al centro del mondo, in tempi mitici, si trovava una immensa roccia: a tal proposito, anche Renè Guenon conferma che il simbolo litico può senz’altro essere interpretato come una chiara immagine dell’asse planetario. Diversi altri aspetti della vita spirituale delle popolazioni pigmoidi non appaiono assolutamente così poveri ed elementari come – secondo una riduttiva ottica evoluzionisto-progressiva – si potrebbe erroneamente desumere: ad esempio i Pigmei d’Africa sono monoteisti, elemento che secondo il parere di Frithjof Schuon è primordiale e più antico rispetto ad altre forme religiose.
Anche le espressioni culturali più esteriori – dagli aspetti artistici a quelli più legati alle tecniche materiali – possono nei pigmoidi sembrare molto scarne ed essenziali, ma ciò non implica necessariamente una rozzezza trasposta anche sul piano spirituale. Al contrario, è stato rilevato l’errore generalmente commesso da certa antropologia classica, che interpreta la scarsa complessità degli elementi culturali come sinonimo di arretratezza e di “attardamento evolutivo”; non viene invece considerata proprio l’opposta possibilità, ovvero l’idea che quanto più sobrio appaia il simbolo materiale, tanto più puro, originario ed, anzi, articolato debba essere il tema al quale esso allude. A questo proposito Guenon segnalò come l’assunto di una “semplicità primitiva”, intesa come elementarietà concettuale di menti non ancora “evolute”, sia completamente gratuito ed indimostrabile. Sulla stessa linea potremmo collocare anche l’etnologo Leo Frobenius per il quale “spirito ed occhio sono sempre complementari”: ovvero, dove le forme espressive si moltiplicano (fenomeno che potremmo definire una sorta di “Barocco ante litteram”), è proprio lì che lo spirito tende necessariamente ad impoverirsi, a svuotarsi di significati “alti”. Al limite, può presentarsi il fenomeno della perdita della parte più elevata di un certo corpus sacrale (quella metafisica, direbbe Guenon) ed il mantenimento, spesso ipertrofico, di conoscenze inerenti il piano “cosmologico” ed “animico”; ma, appunto, trattasi di “smarrimento” di un qualcosa a suo tempo posseduto, non del “mancato raggiungimento” di un certo livello conoscitivo. Ad ogni modo, i popoli quasi totalmente sprovvisti di tecniche materiali, come appunto i Pigmei, conservano un retroterra di strutture religiose piuttosto complesse, per nulla rozze ed elementari, che non sono passate attraverso lo stadio di un “totemismo originario”, presupposto da certa antropologia culturale di impostazione evoluzionistica come una delle tappe obbligate di un ipotetico andamento progressivo. Categorie che quindi, eccetto che per il ristretto e molto specifico campo delle realizzazioni tecnologiche, non supportano per nulla l’idea di un processo culturale/conoscitivo “ascendente” dell’umanità, muovente dai primi balbettii definiti “pre-logici” di una ragione ritenuta ancora infantile, alle più complesse concezioni delle grandi, ed “adulte”, civiltà storicamente attestate. Rileva significativamente, come concetto generale, lo stesso A.K. Coomaraswamy che l’arte “primitiva” o “geometrica” di certe popolazioni “senza storia” che oggi ancora sopravvivono al “livello etnologico” è formalmente astratta, proprio perché deve essenzialmente esprimere dei significati astratti, incorporei, non appoggiabili ad alcunché di immediato e materiale.
Anche per quanto, più nello specifico, riguarda l’Africa, mi pare qui utile ricordare ancora gli studi dell’etnologo Leo Frobenius, che individuò elementi culturali tali da ipotizzare un’antichissima migrazione proveniente in ultima analisi dall’Islanda e dalla Groenlandia fino al confine meridionale della terra abitata; civiltà iperborea alla quale per Frobenius si ricollegarono in particolare i Boscimani ma anche i Pigmei stessi e le cui tracce sarebbero riscontrabili nella stretta connessione che gli parve di scorgere tra le ritualità, benché chiaramente più boreali, del paleolitico superiore europeo con quello africano.
Ma, oltre a ciò, vi sono diversi ricercatori che hanno postulato nel continente nero una netta anteriorità di popolamento delle popolazioni pigmoidi rispetto a tutte le altre.
Contro una visuale che interpreta i pigmoidi come una mera “specializzazione” recente (ed indipendente, sorta in varie aree del mondo) di altre popolazioni a statura normale, possono essere citati autori quali, tra gli altri, Carleton Coon, che formulò l’idea articolata, ma stimolante, dei Pigmei africani come parziali progenitori dei Negridi moderni per effetto del loro re-incrocio con i residui dello stesso tronco ancestrale dal quale si sarebbero originati per differenziazione; di questo tronco ancestrale i Pigmei attualmente rappresenterebbero la sopravvivenza più arcaica, al contrario dei più recenti Negridi. Questi ultimi, secondo altri ricercatori, sarebbero invece il risultato di un’ibridazione diretta dei Pigmei con popolazioni già chiaramente differenziate in senso Europoide. In ogni caso ne consegue che i Negridi subsahariani, a prescindere dalle varie teorie sulle modalità della loro formazione, in generale dovrebbero essere interpretati come complessivamente più recenti rispetto alle popolazioni pigmoidi (rif. precedente “Madre Africa ?”). In questa direzione, vi sono infatti molti studiosi che ritengono i Pigmei essere stati un tempo anche geograficamente molto più diffusi rispetto ad oggi, avendo costituito un ampio substrato preistorico africano – esteso tra Sahara, altipiani orientali ed Oceano Atlantico ad occidente – substrato precedente al sorgere del classico tipo “Nero” (con il quale si poterono comunque verificare anche dei successivi re-incroci parziali); l’ipotesi pare confermata anche da analisi genetiche più recenti secondo le quali, nel dettaglio, i Pigmei sembrano presentare linee mitocondriali e del cromosoma Y valutate come estremamente antiche, tipiche di uno dei primi gruppi africani, e comunque sicuramente più arcaiche di quelle dei Negridi classici. Lo stesso Cavalli Sforza segnala tra i Pigmei la frequenza molto elevata di numerosi marcatori tipicamente africani, tale da candidarli come il più diretto residuo odierno dei “Protoafricani” originari ed ammettendo anch’egli, in tempi remoti, una probabile maggior diffusione territoriale di questi rispetto ad oggi; altri studi genetici sembrerebbero rilevare che tre dei popoli più antichi del mondo sarebbero oggi i Pigmei Biaka della Repubblica Centrafricana, i Pigmei Mbuti del Congo e i !Kung San sudafricani.
Ma, oltre ai dati genetici, sussisterebbero anche alcuni elementi linguistico-culturali che potrebbero essere letti nella medesima direzione. Ad esempio, la parlata originaria dei Pigmei dell’Africa equatoriale oggi è praticamente scomparsa dopo l’adozione di quella delle popolazioni circumvicine, ma in origine sarebbe stata molto simile alla lingua delle popolazioni khoisanidi sudafricane (Boscimani ed Ottentotti), con la presenza caratterizzante di fonemi particolari come i famosi “click”; secondo alcune teorie glottologiche, tale substrato avrebbe inoltre costituito la base dalla quale sarebbero poi sorte soprattutto le lingue bantu e quelle sudanesi, oggi maggioritarie. Per quanto riguarda invece il mondo mitico, avevo in precedenza già accennato al fatto che gli attuali Negridi spesso fanno riferimento a degli enigmatici “Uomini Rossi” – non senza una relazione diretta con gli attuali Pigmei – che furono un popolo a loro preesistente e caratterizzato dalla piccola statura; è interessante notare come anche Mircea Eliade citi un simile mito presente tra i Dogon del Mali, secondo i quali i primi leggendari abitanti della loro regione furono i Negrillos – piccoli negri – infaticabili fabbri ora scomparsi sotto terra e trasformati in geni (interessante concetto, questo della destinazione “ipoctonia”, sul quale torneremo più avanti).
In altri casi il rapporto Pigmei – Negridi, pur estrinsecandosi in modo diverso, tenderebbe sempre ad inquadrare quest’ultimo come elemento culturalmente superiore e temporalmente più recente: molte sarebbero infatti le usanze e le consuetudini che le popolazioni pigmee avrebbero acquisito dai Negridi, e lo stesso legame economico-funzionale stabilito con essi (ad esempio, il proporsi dei Pigmei come “casta” inferiore, al servizio dei vicini agricoltori) potrebbe essere un’ulteriore elemento indicante una certa anteriorità dei Pigmei rispetto a questi, dal momento che normalmente sono le popolazioni autoctone assoggettate dai nuovi arrivati quelle che vengono impiegate per le occupazioni di livello inferiore.
Al contrario, il rapporto dal punto di vista genetico sembrerebbe nettamente invertito. Infatti sia Coon che Cavalli Sforza segnalano come le modalità dell’incrocio tra i due elementi sia tale che il flusso appare sempre diretto dai Pigmei verso i Negridi e quasi mai viceversa; ciò è la risultante del fatto che sono sempre i maschi negridi ad unirsi a donne pigmee, mentre non si verifica praticamente mai il caso opposto, e la prole poi viene sempre accudita nell’ambito economico-sociale più elevato, cioè quello agricolo. Di conseguenza, le tribù pigmee rimangono geneticamente intatte ed al livello culturale di base (caccia-raccolta), mentre il DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente per via femminile ed è di origine pigmea, scorre invariabilmente verso le popolazioni degli agricoltori.
Tutti i summenzionati elementi raccolti sulle popolazioni pigmoidi potrebbero sostenere, a mio avviso, un’ulteriore ipotesi: pur appartenendo indubbiamente alla medesima specie Homo Sapiens, la particolare posizione filetica di queste genti in rapporto alle altre – conseguenza del precoce allontanamento dal nucleo centrale dell’umanità, appena fisicizzatasi – potrebbe aver ridotto notevolmente i margini di consolidamento delle caratteristiche biologico-culturali raggiunte, facendone un gruppo particolarmente esposto a pericoli involutivi di ogni tipo.
E’ infatti significativo come, pur da un’ottica evoluzionista-progressiva, Giuffrida-Ruggeri abbia accennato all’ipotesi che i pigmoidi attuali possano essere i discendenti di quegli uomini che, appena giunti alla stazione eretta, decisero poi di “ritornare nella foresta” per riadattarvisi (mentre invece i Boscimani rappresenterebbero quei pigmoidi poi nuovamente usciti dalla boscaglia per habitat più aperti); significativa sembra anche l’osservazione che, nei pochi gruppi umani che ancora oggi non possiedono le tecniche di accensione e di controllo del fuoco (per esempio, gli Andamanesi ed alcune popolazioni africane), tale carenza possa essere dovuta non tanto a delle metodiche mai possedute, ma piuttosto ad una sopravvenuta rinuncia ad utilizzarle, o alla perdita accidentale di tali conoscenze che un tempo erano invece normalmente padroneggiate.
Una regressione, quindi, verificatasi in alcuni casi al solo livello culturale, e qui al momento arrestatasi, ma che in certi altri – più gravi o prolungati – non si può escludere abbia interessato anche (o solo) il piano biologico.
Non si tratta di un’idea antiscientifica, se ad esempio ricordiamo le ipotesi formulate dagli stessi ricercatori attorno ai controversi reperti rumeni di Pestera Cu Oase, menzionati nel precedente articolo “Quale Evoluzione ?”. Sotto un’analoga ottica involutiva non escluderei che si potrebbero interpretare anche i reperti recentemente rinvenuti nell’isola di Flores in Indonesia, ritenuti incongrui in rapporto ai normali standard “Sapiens” e ribattezzati “Hobbit” per le piccole dimensioni scheletriche ed encefaliche. Non presentando particolari somiglianze con gli Homo Erectus, “Hobbit” è stato antropologicamente denominato Homo Floresiensis, ma, soprattutto, ha sorpreso la comunità scientifica per la datazione molto recente – forse solo 15-18.000 anni – in relazione alle caratteristiche morfologiche evidenziate; su queste, si sta tuttora dibattendo se siano dovute all’enuclearsi di una nuova specie all’interno del genere Homo, o se invece siano riconducibili ad una qualche patologia (involutiva ?) che avrebbe colpito una locale popolazione Sapiens, vista anche la relativa somiglianza con le odierne popolazioni pigmoidi della zona. In ogni caso, l’ipotetico processo regressivo che avrebbe colpito gli “Hobbit” potrebbe, paradossalmente, essere intervenuto più sul piano biologico che su quello culturale, dal momento che ad essi sembrerebbero associati manufatti il cui livello, altrove, è attribuito solamente a Homo Sapiens.
Questi reperti probabilmente possono essere collegati a quelli già citati dallo stesso Coon, che menziona il ritrovamento in Indonesia di due scheletri di piccola statura, forse “negriti” e risalenti a circa 30-40.000 anni fa. L’antropologo americano, inoltre, ipotizza in questa sede possibili migrazioni pigmoidi dall’Africa all’Asia sudorientale o viceversa: alla luce degli ultimi elementi sopra esposti, potrebbe forse risultare maggiormente verosimile una direttrice di avanzamento diretta piuttosto verso l’Africa, che avrebbe “lasciato indietro” i pigmoidi o culturalmente o biologicamente meno dinamici (con i più tardi reperti asiatici di Flores a testimonianza della regressione intervenuta) e portato nel continente nero soltanto gli elementi più vitali: elementi che così avrebbero avuto la forza di improntare le attuali popolazioni africane – o anche qualcun’altra dell’emisfero australe – di quelle peculiari caratteristiche, geneticamente eterogenee e statisticamente “aberranti”, che oggi vengono invece interpretate in un’ottica del tutto opposta, cioè il più delle volte in chiave afrocentrica secondo le linee della già accennata teoria “Out of Africa”. Una teoria che, in ogni caso, sempre più spesso ammette anche l’ipotesi di consistenti “riflussi” in entrata nel continente nero (ma che dal nostro punto di vista sarebbero, invece, dei veri e propri primi ingressi), il che andrebbe nella stessa direzione di vari elementi di carattere mitologico-folklorico, antropologico e linguistico già esposti nel precedente articolo “Madre Africa ?”
Tutto ciò, in definitiva, come rapida sintesi di quanto concernente lo sviluppo del ramo “australe” della nostra specie: un ramo che, non a caso, oggi presenta diverse popolazioni le quali, anche in termini geografici, rendono l’idea del loro precoce allontanamento dal nucleo centrale essendosi rifugiate in quei “cul-de-sac” periferici che sono costituiti dagli arcipelaghi e dalle penisole meridionali (Patagonia, Sudafrica, Deccan meridionale, Indonesia, Australia) delle terre emerse.
Nel prossimo articolo torneremo invece a Nord e proveremo ad inquadrare le prime vicende del ramo “boreale” dell’uomo, nel frattempo rimasto in prossimità delle sedi dove questo era appena venuto a fisicizzarsi.
Michele Ruzzai
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- Mario Quagliati – Lo strano caso dell’antenato pigmeo – in: Hera – Dicembre 2004 (ed anche nel sito del Centro Studi La Runa, indirizzo internet: http://www.centrostudilaruna.it/uomodiflores.html )
- Frithjof Schuon – Sguardi sui mondi antichi – Edizioni Mediterranee – 1996
- Frithjof Schuon – Sulle tracce della religione perenne – Edizioni Mediterranee – 1988
- Giuseppe Sermonti – La Luna nel bosco. Saggio sull’origine della scimmia – Rusconi – 1985
- Jean Servier – L’uomo e l’invisibile – Borla – 1967
- Roberto Sicuteri – Lilith, la luna nera – Astrolabio – Ubaldini – 1980
- Alfredo Trombetti – L’unità d’origine del linguaggio – Libreria Treves di Luigi Beltrami – 1905
- Una mappa genetica dell’Africa – Sito Le Scienze – 01/05/2009 – Indirizzo internet: http://www.lescienze.it/news/2009/05/01/news/una_mappa_genetica_dell_africa-575206/
- Uomo moderno…o quasi – Sito Anthropos – 17/1/2007 – indirizzo internet: http://www.antrocom.it/textnews-view_article-id-956.html
- Gastone Ventura – Considerazioni storico tradizionali sul mito della Regina di Saba – Edizioni di Vie della Tradizione – 1996
- Nicholas Wade – All’alba dell’Uomo. Viaggio nelle origini della nostra specie – Cairo Editore – 2006
- Kate Wong – Piccoli uomini – in: Le Scienze – Aprile 2005
- Kate Wong – Ultimissime sull’uomo di Flores – Le Scienze – Gennaio 2010 (articolo contenuto anche nel libro-raccolta “Il cammino dell’uomo” edito da Le Scienze – 2014)
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