8 Ottobre 2024
Filosofia

Il Genio come culmine metafisico del dolore – Emanuele Franz

La vita non può essere intesa se non come superamento di resistenze. La struttura dell’organismo vivente ha origine e formazione dalla necessità di superare degli ostacoli, questa necessità è la diretta conseguenza della sofferenza inflitta al vivente dall’ambiente che lo circonda. Mentre l’universo intero, nella sua natura diveniente, tende a dissolvere qualsiasi struttura formatasi e ogni organizzazione complessa dei suoi elementi, il vivente può sussistere solo come opposizione a questo flusso. La sofferenza primordiale insita in questa stessa opposizione è ciò che crea quell’illusoria differenziazione dell’organismo dall’universo. È un dolore originario che permea la vita come un “rumore di fondo”.

L’uomo, come qualsiasi altro organismo, conosce questo mondo e l’esigenza di questa conoscenza nasce sempre in rapporto alla sofferenza. Non già la conoscenza reca dolore ma bensì il dolore origina la conoscenza. Il dolore, infatti, pone sempre la causa di sé stesso mentre il piacere tende ad arrestarsi e a non guardarsi indietro. L’uomo nell’indagare le cause della sua sofferenza, e soffre perché esiste, raffina sempre più la sua conoscenza. La sua rappresentazione del mondo risulta tanto più estesa e complessa quanto maggiore è il dolore che tenta di eliminare. In base al tipo di travagli e sofferenze, di traumi e dolori che un uomo può subire nella vita si distinguono nel mondo tipi diversi di esseri umani, nella loro psicologia, nella loro intelligenza e nella loro sensibilità. Dolori diversi e varie condizioni di sofferenza formano gli uomini diversi nelle loro capacità. Tutti soffrono; ma non tutti traggono vantaggio dal loro dolore sublimando così la loro sofferenza nell’opera conoscitiva. Pochi uomini, i più grandi, sanno sfruttare il dolore della loro vita incanalandolo in processi produttivi.

L’uomo che riesce a trasmutare il dolore in conoscenza è quello che chiamerò l’uomo di genio. Così pure Sigmund Freud, nella sua opera psicoanalitica, ed in particolare nei suoi studi sulla psicoanalisi del genio, riconosce che ogni grande produzione umana, sia essa religiosa, artistica o filosofica è sempre e comunque una proiezione sublimata delle conflittualità interne all’uomo. Erede e portatore del pensiero di Schopenhauer e Nietzsche, Freud delinea i processi inconsci mediante i quali l’uomo, sofferente in questo mondo e perpetuamente violentato e represso, dapprima dalla società, poi dall’universo, trasferisce i suoi dolori in tutte quelle forme ideali che caratterizzano una civiltà. Arte, filosofia e religione sono per l’uomo quella trasposizione del suo essere in un mondo al di là di questo ove le sue sofferenze cessano di esistere. Decenni prima di Freud, Nietzsche ci autorizzava a considerare la storia del pensiero umano come la storia della sua malattia. Il cosiddetto Pathos esistenziale che costringe l’uomo a trasferire sé stesso nelle sue opere. Perché ogni operare sul mondo dimostra la volontà del soggetto operante di trasformare un mondo di cui fondamentalmente è insoddisfatto. Perché ogni volere è un voler altro.

Il motore primo dell’agire e del pensare umano è in primo luogo il dolore. Ma cosa dunque distingue il genio dall’uomo? Occorre, a questo punto, analizzare la figura del genio, oltre che da un punto di vista metafisico, anche da un punto di vista storico e fisiologico. Questa analisi ci permetterà poi di distinguere il genio filosofico dalle altre forme del genio umano, siano esse letterarie, scientifiche o artistiche. I tratti che più accomunano la figura del genio nella storia possono così essere espressi: esso si caratterizza spesso per una dispersione intellettiva estrema, incompreso a volte tutta la vita dai contemporanei, pervaso da un senso di estremo individualismo rinforzato dalla sicurezza in sé stesso e dall’opposizione nei confronti dell’ambiente, con un forte anticonformismo critico e uno spirito di ribellione. Questo comportamento eccentrico ed indipendente del soggetto suscita nelle altre persone molta invidia e ostilità, in parte per il fatto di non sottostare alle norme o di uscire dai limiti mentali ordinari e, in parte, per la sua carica narcisista o per l’assunzione di atteggiamenti che ai comuni mortali risultano provocatori. Di fronte all’assoluto gli aspetti quotidiani della vita perdono di significato cosicché il genio li rifiuta. Il genio incarna l’amore per la libertà, è trascurato dai suoi maestri, rifiutato dai genitori e disprezzato e ignorato dai suoi compagni di lavoro. Il genio non si arrende allo stile di vita degli altri, egli è solo con sé stesso in un mondo massificato, normativo e dogmatico. Storicamente l’uomo di genio è tipicamente soggetto a forti sbalzi emotivi di vario genere, ansia, tristezza, abbattimento, angoscia e disperazione. Stati di umore che si succedono ciclicamente e con frequenti cadute negli abissi della depressione.

Sovente fin da bambino è relegato alle istituzioni sanitare dove egli viene drogato con dei farmaci, con delle terapie per uniformarlo agli altri. Quasi tutti i geni peraltro hanno avuto un’infanzia traumatica dove il padre era assente o dove il padre non si presentava nell’abitudinaria figura di autorità causandogli spesso manie, depressioni reattive, melanconie o addirittura dei ritardi nelle funzioni cognitive. Ma egli non deve adeguarsi al mondo, è il mondo che deve adeguarsi a lui. Lui deve creare i costumi, le leggi, le concezioni del mondo, il pensiero, l’aspirazione, i sogni, i desideri di tutta l’umanità. Il Genio non accetta di nascere, vivere e morire in un mondo che non ha creato ma che gli è stato imposto e così si trova di fronte solo due vie: o modificare ineluttabilmente il mondo imprimendo ad esso la sua Volontà oppure soccombere, nessuna alterativa.

Il Genio si sente un reietto, un emarginato, un maledetto, un uomo che non possiede nulla al di fuori della propria Volontà. E questa gli è sufficiente alla sua opera. Lo hanno sempre cercato di uniformare agli altri, di farlo sentire diverso, inadeguato, alieno e gli hanno imposto, con la forza, di eguagliarlo agli altri. È stato drogato e torturato da uomini senza scrupoli che godevano nel seviziare, con gli strumenti della istituzione e della sanità, un bambino diverso dagli altri. Ma quel bambino non è mai cambiato. Ancora più di prima egli è diverso da tutti gli altri, e quel bambino creerà la storia che soggiogherà l’umanità nei millenni. Lo scopo delle sue azioni e del suo pensiero non è rivolto all’arco di una vita umana, al Genio non interessano i decenni, nemmeno i secoli, egli si rivolge unicamente ai millenni.

Il Genio sente la necessità che la storia si pieghi alla sua Volontà, nonostante il resto del mondo gli dica: “tu non puoi farlo”. Egli non sa esattamente come farà, sa soltanto che lo farà perché ode, dentro sé, un richiamo, una voce più alta. Sì, sente le voci nella sua testa, quelle voci che altri ritengono il segno della follia, lui le sente, esse glie lo dicono, come lo dissero a Cortes, a Gandhi, a Marconi, a Napoleone, come lo dissero al grande Achille che per lui non vi sarebbe stato ritorno ma la gloria immortale. Non c’è ritorno per chi ha scelto di rimanere nei millenni. Al Genio non interessa la felicità, il benessere, la compagnia.  È pronto a soffrire, a rimanere da solo se necessario, finanche a morire. Ma egli non cambierà mai perché il suo scopo è l’Assoluto, ciò che è per Sempre. A Esso si consacra e per Esso si immola. E quando un uomo si vota all’Eterno non può essere fermato, nulla può contro di lui.

Il genio è più propriamente colui che sovverte un intero modo di pensare, colui che opera una radicale trasformazione nel paradigma del momento. Il Genio ribalta un’intera costellazione di valori consolidati nella storia per molti anni. Il vero Genio si distacca dalle comuni istituzioni del sapere, scolastiche, accademiche e universitarie. Man mano che ci addentriamo nell’analisi storica del genio dobbiamo riconoscere che per quanto differenziate siano le situazioni da caso a caso una cosa accomuna ogni Genio agli altri geni e per l’appunto il vissuto di un’esperienza traumatica, nella maggior parte dei casi sfociata nella malattia, che è stato strumentalizzato dal soggetto come un impulso creativo. Se consideriamo il Pathos del genio come malattia intrinseca alla sua genialità non possiamo evitare di chiederci che rapporti intercorrano fra genio e malattia. L’analisi storica obbliga a percorrere parallelamente l’analisi biologica e fisiologica delle grandi personalità. Nella seconda metà dell’ottocento si affermò la teoria patologica del Genio della quale uno dei massimi interpreti e sostenitori fu lo psichiatra milanese Cesare Lombroso. Nella sua principale opera “ Genio e follia” egli elaborò la teoria secondo la quale ad ogni eccesso e sviluppo di una capacità intellettiva corrisponde una degenerazione neurologica. Per una legge della compensazione allo sviluppo sopraelevato di un talento corrisponde il crollo di altri aspetti psichici. Con Lombroso l’inscindibile rapporto fra genio e malattia veniva confermato da studi psichiatrici:

Ma pure, la principalissima fonte delle loro melanconie, delle loro sventure è sempre la legge del dinamismo e di proporzione, che tanto sovraneggia anche nel sistema nervoso, per cui ad un eccessivo consumo o sviluppo di forze succede un’eccessiva reazione e rilascio delle forze medesime, per cui niuno dei poveri mortali può consumare una certa quantità di forze senza pagarne in altro modo, e duramente, lo scotto, per cui essi stessi presentano tanta ineguaglianza nei loro lavori” (Genio e follia di Cesare Lombroso).

Il genio è dunque l’uomo che dal suo dolore riesce a trarre vantaggio incanalando e gettando le sue intere forze nell’opera. La creazione dell’opera è quell’esperienza oceanica di elevazione al di sopra dello spazio e del tempo in una dimensione infinita ed eterna, il culmine della vita e dell’atto creativo del genio. L’opera è la realizzazione completa ed esaustiva del sublime. A questo punto della nostra analisi occorre distinguere il genio filosofico da tutte le altre forme del genio. Da che cosa, infatti, trae la massima distinzione il genio filosofico da tutti gli altri? Ciò che accomuna ogni genio è il dolore e la capacità di sublimarlo nell’opera. Ma qual è il dolore più grande oltre al quale non si può andare ? Questo dolore, che è poi la forma più assoluta e infinita di dolore, è quello che chiamerò il dolore esistenziale. Il dolore esistenziale è da intendersi come la forma più trascendentale e più sublime del dolore. È infatti il dolore per la sua stessa esistenza che fa di un uomo un genio filosofico. La consapevolezza dell’essere, delle cose e di sé stesso, come parti di una totalità della quale non si potrà mai togliere il carattere di esistenza, rappresenta l’angoscia più grande per l’uomo. Dapprima il dolore per la vita, poi il dolore per la conoscenza ed in fine il dolore per l’esistenza. L’apoteosi del pensiero conoscitivo è il pensiero esistenziale proprio dell’uomo filosofico. Egli è la punta massima dell’attività pensante, rappresenta appunto il pensiero posto a fronte dell’esistenza, e questo è il dolore esistenziale. Perché il dolore di fronte alla coscienza della totalità dell’essere? Nietzsche ci insegna che il pensiero dell’eternità dell’essere è il “peso più grande”. Proprio perché con la nostra nascita e la nostra esistenza incomincia il dolore, l’apice del dolore viene raggiunto quando acquistiamo consapevolezza che al dolore dell’esistenza non possiamo sottrarci. Se ci rimanesse il pensiero della possibilità dell’annullamento, della nostra estinzione, della nostra fine nell’oblio della morte, come sosteneva il filosofo esistenzialista Cioran, il dolore esistenziale verrebbe attutito. Ma proprio qui è il nodo cruciale: noi esistenti non possiamo sottrarci all’esistere. Nella totalità dell’essere il nostro esistere e il nostro esserci assumono il carattere di eternità. Per cui ci è privata ontologicamente la possibilità del nulla e da qui nasce l’angoscia, a differenza di quanto sosteneva Heidegger che l’uomo vive per la morte.

Il culmine metafisico di questa ineluttabilità, di questa inalienabilità dell’Essere è la matrice della più alta forma del Genio, il Genio filosofico. Egli ha solo una e una sola possibilità per superare il suo dolore metafisico originario: annichilirsi nella sua opera e donarla al mondo trasformando quell’Essere che è stato dapprima la causa e ora l’effetto della sua esistenza.

Nota bibliografica: laddove non specificato nel testo ci si rifà allo studio di Karl Jaspers “Genio e follia”

Emanuele Franz

2 Comments

  • Mariela 27 Dicembre 2018

    Grazie per condividerlo. MI avevo sempre chiesto quale relazione ci dovrebbe essere tra la sofferenza e la conoscenza, poiché nell’allegoria della Bibbia (caduta dell’uomo), l’uomo prova sofferenza e dolore dopo aver assaporato il frutto “dell’albero della conoscenza”. Perché è chiamato propriamente così: “L:albero della conoscenza”

  • investigator113 30 Dicembre 2018

    Il Genio, ovvero la sublimazione del dolore da parte dell’uomo rafforza la sapienza di Dio che tutto il Creato è disposto nel suo posto giusto, Il dolore permette di completare la conoscenza di Dio nella sua suprema Potenza. Del resto la cacciata dal Giardino dell’Eden di Adamo ed Eva che condanna l’umanità a vivere con il sudore della propria fronte è chiara la conseguenza che l’uomo debba soffrire nella sua esistenza terrena, ma Dio nella sua immensa grandezza ha fatto in modo di rendere agevole il percorso di penitenza, con dolore e conforto nel contempo. Ahimè! non tutta l’umanità diventerà Genio come culmine metafisico del dolore: Molti saranno i chiamati pochi gli eletti, ovvero pieni di grazia divna per recepire il dolore sublimato.

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