Nel mondo contemporaneo, in cui una persona su tre scrive “poesie”, si è affermato il concetto di -verso libero- abbandonando ogni tipo di regola compositiva, di metrica tradizionale, e in qualche modo giustificando ogni esternazione senza alcun tipo di mediazione, di norma, di struttura. Questo da una parte ha un effetto straordinariamente simile alle nuove tecnologie mediatiche, ovvero quello di permettere a chiunque di avere uno spazio espositivo, dall’altra di atrofizzare la complessità di uno stato emotivo e linguistico che se nel passato, grazie alla metrica, veniva sublimato in qualcosa di artisticamente sublime, ora è sintetizzato al punto da livellare in una mediocrità uniforme qualsiasi scrittura in versi.
Eppure possiamo leggere sull’Enciclopedia Treccani che la poesia è: “L’arte di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione” e il verso è: “l’incontro di uno schema metrico e di una sequenza ritmica variabile secondo leggi diverse nella metrica”. Sostanzialmente, ad essere rigorosi da un punto di vista tecnico, quelle che troviamo oggi nelle migliaia di pubblicazioni e blog non sono poesie in senso stretto. Evidentemente la poesia contemporanea risente oggi di tutto un livellamento generale in cui si è sostanzialmente persa una identità di riferimento, una identità che permetteva l’ascrizione a un modello, a uno stile, attraverso una legge, una disciplina, e, se vogliamo, anche attraverso una selezione, che forgiava e faceva emergere il talento migliore.
L’adeguamento della prodizione poetica odierna a delle non-forme stilistiche non deve sorprendere, è perfettamente coerente con ciò che accade nella pressoché totalità delle attività umane della società occidentale: la riduzione ad un livello di eguaglianza in cui tutti hanno il diritto di esprimersi perché se si potesse dire che uno è migliore, anche stilisticamente di un altro, si potrebbe cadere nel politicamente scorretto ed essere tacciati di oligarchia letteraria, come peraltro è avvenuto per secoli, producendo un Omero, un Leopardi, un Carducci, un D’Annunzio. In questo scenario appiattito, in cui il massimo sforzo di un “poeta” è quello di essere quanto più eguale agli altri, si scopre che c’è qualcuno che ha fatto della sua penna uno strumento di resistenza sociale. Emanuele Franz è un poeta italiano che possiamo infatti definire fuori dal suo tempo.
Colpisce per il suo anacronismo un poema di ben 2401 endecasillabi che questo autore ha pubblicato nel 2013. Il risveglio di Gregorio è un Poema Drammatico in Sette Atti, ognuno dei quali ha sette scene di sette stanze di sette versi per un totale complessivo di 2401 versi in endecasillabo. Gregorio si sveglia incatenato nelle segrete di un castello, non sa né chi è né come mai è imprigionato. Viene processato da un grottesco tribunale inquisitorio con l’accusa, appunto, di non sapere chi è. Ecco che il viaggio di Gregorio rappresenta il Dramma della Coscienza umana che deve riscoprirsi.
La cosa più squisitamente rilevante è la scelta, in questi tempi eroica, di usare una metrica rigorosissima. Ciò che oggi molti interpretano come limitazione è, per Emanuele Franz, il suo esatto opposto: la metrica è infatti definita dall’autore come luogo in cui nasce la libertà, perché forgiata dalla regola. Regola che, dal suo punto di vista, è creazione, invenzione e quindi di nuovo libertà. È lo stesso Franz, attraverso uno dei personaggio del suo poema, a spiegarci le motivazioni della sua scelta, quando gli fa dire ( Atto II, Scena III, Stanza IV):
“Se poi chiedi perché lo canto in rima
faccio del pensiero come carbone
che nel buio diamante è in formazione:
a dirlo in versi occorre disciplina
e lungo tempo occorre all’intelletto
che lentamente a luce s’avvicina,
puro divien prima d’averlo detto”
Dunque per Emanuele Franz la disciplina che norma la produzione poetica è in primo luogo un processo interiore, una trasmutazione psichica che è quella degli alchimisti che sublimavano dall’oscurità del piombo uno stato cristallino della coscienza. Ma mentre Emanuele Franz sostiene le sue tesi come un anacoreta che trova uditori solo fra gli Dei, ovunque nella piazza letteraria oggi si va sostenendo il contrario, dove vengono importati dall’America i cosiddetti slam poetry nei quali chiunque presenta un componimento e quanto più veloce appare tale componimento, e tanti più applausi riceve da una giuria popolare, tanta più possibilità ha di vincere. Praticamente è l’omicidio della poesia, ma lo slam poetry è il frutto dei nostri tempi, la sintesi assoluta, l’abolizione del linguaggio, vittima di sms e social network dove il linguaggio è ridotto alla comunicazione essenziale. È il tweet poetico, la riduzione alla marginalità.
Per nulla scoraggiato Emanuele Franz continua la sua produzione in versi facendo uscire, proprio in questi giorni, la sua ultima fatica, frutto di sette anni di ricerca espressiva e stilistica. Sette anni, contro ai sette minuti quali oggi il compositore medio impiega per sfornare la sua “poesia” da ricopiare su ogni social network. La sua nuova raccolta si intitola Sine Cera e le sue liriche sono contraddistinte dagli elementi della solitudine e dell’incomunicabilità, temi che rappresentano, nella visione dell’autore, la condizione umana nella sua universalità. Qui dunque il poeta si spoglia, si denuda, per rivelare nella sua purezza lo stato d’animo dell’uomo di fronte alla totalità del cosmo: quella del silenzio e dell’incapacità di qualsiasi comunicazione di fronte all’esperienza dell’infinito. Una lirica quindi sincera, senza quella cera che era uso degli artisti rinascimentali usare per coprire i difetti e le imperfezioni delle loro opere, da qui il titolo Sine cera che battezza la raccolta.
Franz professa una condizione intrinseca dell’uomo di silenzio e incomunicabilità, ancora una volta ponendosi in antitesi con le tendenze di una intera società che ha fondato sulla collettività e sulla iper-comunicazione i suoi due pilatri fondamentali. Franz è la prova che un poeta anzitutto può essere un ribelle, un istigatore alla resistenza sociale, e che perfino un “innocuo” strumento come la poesia può diventare una prova di opposizione a un mondo sempre più svuotato di valore e significato.
Federico Pari