7 Ottobre 2024
Libreria Tradizione Classica

Spirito classico e cristianesimo: le tesi di Walter Friedrich Otto – Giovanni Sessa

Nel corpo della cultura europea scorre sangue «pagano». A muovere dal Settecento, filosofi, storici delle religioni e artisti, si sono prodigati nel tentativo di far riemergere le sorgenti più arcaiche della nostra cultura, richiamando l’attenzione sul suo effettivo ubi consistam. Anzi, questo sforzo è ancora in corso: si pensi, tra i tanti esempi che si possono fare in tema, alla valorizzazione del mondo pre-cristiano, presentata, nella propria opera, da Evola o, più recentemente, da autori quali Marc Augé e Alain de Benoist. Un ruolo rilevante, in tal senso, nel secondo decennio del «secolo breve», lo ha svolto il filologo svevo e storico delle religioni, Walter Friedrich Otto. Il suo lavoro più noto, Gli Dei della Grecia, fu in qualche modo preparato da un libro che egli pubblicò nel 1923, Spirito classico e mondo cristiano, di cui è recentemente apparsa la seconda edizione italiana, per i tipi de L’arco e la Corte (per ordini: arcoelacorte@libero.it, pp. 174, euro 15,00). Si tratta, come ricorda Giovanni Monastra, nell’informata e stimolante Prefazione, di un testo nel quale l’autore mostrò, in tutta la sua forza e con invidiabile spessore erudito, l’attrazione empatica per il mondo classico e, in particolare, per la religiosità ellenica. 

La potenza teorica del volume, la si spiega tenendo in debito conto alcuni dati biografici dell’autore, riferiti opportunamente dal prefatore. Otto si formò a Tubinga, nel medesimo Stift teologico nel quale avevano studiato Hegel, Schelling ed Hölderlin. Dopo aver seguito brillanti studi filologici, a Monaco incontrò il filosofo Klages e frequentò gli ambienti del Kreis di Stefan George. Fu, inoltre, attratto dagli studi di Leo Frobenius, dai quali trasse l’idea del Weltbild (immagine del mondo), che gli permise di decodificare l’essenza della civiltà ellenica. Fu vicino agli ambienti aristocratico-conservatori e, perciò, antinazisti, della Germania segreta: ciò lo costrinse ad insegnare in un’Università «periferica», quella di Könisberg, dove rimase fino all’arrivo dell’Armata rossa nel 1944. Fu sottoposto, dopo la guerra, ad una serie di controlli preventivi, ma evitò l’epurazione e continuò ad insegnare fino al momento del decesso avvenuto nel 1958. Frequentò, tra gli altri, Heidegger, Kerény e Pettazzoni.

In Spirito classico e mondo cristiano, sono presenti: «lampeggianti intuizioni e utili indicazioni che consentono di vedere con occhi nuovi il mondo religioso ellenico» (p. 13). Otto cerca, in ogni modo, di far parlare i Greci e i loro dei, con la voce che gli fu propria. Fino ad allora, infatti, il clamore millenario prodotto dalla cultura dei vincitori, nella contesa storica sviluppatasi nel IV secolo d.c., quella cristiana, aveva impedito di cogliere il senso ultimo della visione del mondo ellenica. La critica al cristianesimo di Otto è radicale, i toni polemici decisamente aspri, in alcuni passaggi rasentano l’invettiva. Per questo, successivamente, il filologo non si riconobbe del tutto in tali affermazioni e non volle che questo studio fosse nuovamente pubblicato (la precedente edizione italiana uscì nel 1973, ad insaputa della figlia dello studioso). Il libro è scritto sotto il segno di Nietzsche. Come il filosofo dell’eterno ritorno, anche Otto distinse l’originario insegnamento del Cristo, insieme a Socrate considerato ultimo esempio di vita persuasa, dalla successiva dottrina cristiana, esito del travisamento teologico operato dalla tradizione paolino-agostiniana. In ogni caso, quale idea ha Otto della religio greca?

Egli era convinto che i poemi omerici: «contenessero il paradigma più alto della concezione olimpica del divino» (p. 14). Quella omerica era religio virile, fiera, senza uguali nella storia delle religioni. Punto apicale mai più raggiunto, in quanto in essa gli dei venivano invocati in piedi, il greco guardava negli occhi, senza alcun timore reverenziale i propri numi. Non conosceva le genuflessioni cristiane ed asiatiche, di fronte al divino. Questo era inteso quale manifestazione improvvisa, suscitante, al medesimo tempo, meraviglia e sconcerto. La coscienza del singolo era conciliata con i ritmi e le misure che si manifestavano nel cosmo, nessun greco conobbe mai la “cattiva coscienza”, triste novità introdotta dal cristianesimo. Con la sua irruzione si iniziò ad avvertire: «una opposizione tra il mondo sconvolto e disperato dell’anima, agitata sempre da tormenti e turbamenti […], e il mondo olimpico della forma» (p. 16). La natura, avvertita in precedenza quale epifania del divino, venne progressivamente esperita in termini desacralizzati e ridotta alla mera dimensione della quantità.

I Greci, al contrario, non conobbero mai la fides, la loro religio della forma era, in realtà, un susseguirsi di esperienze, di realizzazioni del sacro, da parte dell’uomo. Il tratto politeista consentiva loro di apprezzare i diversi volti dell’Uno e di viverli, di farne esperienza. A ciò contribuivano il mito e il culto. Nel secondo: «è l’uomo che si innalza al Divino, vive e agisce in comunione con gli dei; nel mito è il divino che scende e si fa umano» (p. 21). Il rapporto uomo-dio si manifestava, come rilevato da Rudolf Otto, nell’endiadi Io-Esso. Si trattava, pertanto, di una relazione centrata sull’ethos, sul modo d’essere (Evola avrebbe detto “razza dello spirito”) e non sul pathos, sulla dimensione emotiva e sentimentale. Il trionfo del cristianesimo rese esplicito che il mondo antico aveva perso la propria anima, vale a dire quest’atteggiamento paritetico degli uomini nei confronti degli dei. Ecco perché alla «buona novella» aderirono gli ultimi, i diseredati e le donne, che divennero strumenti mortiferi per lo spirito classico. In quel frangente, pochi tentarono una resistenza. Si ersero in pochi, ricorda Otto, sulle rovine di un mondo al tramonto per proclamarne la grandezza, tra essi Giuliano Imperatore. Monastra ipotizza, e la cosa va segnalata, che Evola, avrebbe potuto trarre il titolo del suo, Gli uomini e le rovine, proprio da un passo del libro del filologo tedesco, che certamente lesse.

Condividiamo l’esegesi della relazione paganesimo-cristianesimo che questo volume presenta. Forse, come rileva il prefatore, è eccessivo sostenere, come fece Otto, l’unicità religiosa della Grecia. Resta il fatto, però, che la loro fu una religione della realtà: «alla quale risulta del tutto estranea la “fede” in qualcosa di “totalmente altro”» (p. 33). In conclusione, vogliamo qui ricordare quanto, a proposito dell’originario cristianesimo, ebbe a sostenere il filosofo Andre Amo: questa religione avrebbe rappresentato un ritorno dei culti agrari, cosmici, che nel mondo antico si era mostrati a latere del dionisismo, di contro al rigido monoteismo ebraico, imparentato con la religione apollinea. Un considerazione non dissimile da quella fatta propria dal tedesco, alcuni anni dopo la pubblicazione dello Spirito classico e il mondo cristiano.

Giovanni Sessa

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