“Fate attenzione che il vostro fuoco non si spenga
neanche per un momento,
perché se una volta la materia diventa fredda,
la perdita dell’opera ne seguirà immancabilmente”[1]
Il tema che affronteremo in questo articolo – l’atto rituale come atto magico, sacrificale, ma anche sacrilego – potrà sembrare ai più di relativa importanza, magari legato a qualche cervellotica elucubrazione, che scarsamente potrà interessare coloro i quali della Tradizione hanno un’idea limitatamente culturale, velatamente borghese diremmo. Un’attenta analisi tuttavia persuaderà il lettore che quanto ci si propone di approfondire è di centrale e fondamentale essenzialità per qualsivoglia percorso formativo interiore, che possa e voglia ben discriminare direzioni sincretiche, vagamente esotiche o di autoreferenziale autorità iniziatica, da uno stile e da un’ascesi che non promettono paradisi sul monte Sinai, non garantiscono di sentirsi Cesari redivivi né assicurano alcun movimento di alcun tavolino a tre piedi, ma richiedono all’Eroe che intraprende l’impresa tutta la sua dedizione, tutto il suo sacrificio, tutta la sua vita, per la comprensione di ciò che campeggiava alto a Delfi, nel tempio dell’Apollo Iperboreo, Nosce te ipsum:
“…l’anima dev’essere nuda di forme, se veramente desidera che nulla intervenga a ostacolare la pienezza e la folgorazione in lei da parte della Natura Prima”[2].
Non esistendo, nel bene e nel male, alcuna realtà religiosa o iniziatica che non possa conformare la propria azione ad un riferimento trascendente, comprendere quale possa essere la forma mentis adeguata con cui approcciarsi alla dimensione sacrale, interiore, privata e pubblica allo stesso tempo, rappresenterà un modo particolare per delineare quello che abbiamo sempre definito lo stile, l’ordine interno, il carattere dell’uomo che si differenzia, per natura interna, dal volgo informe della modernità. In questa sede sarà nostra cura analizzare il senso della preghiera, in senso lato ed ampio, della ritualità nella doppia valenza che esse possono assumere: tradizionale, sacrificale e regolare la prima; moderna, controiniziatica e neospiritualista la seconda. Dobbiamo, preliminarmente, evidenziare il perché stiamo considerando unitariamente gli strumenti di ascenso personale della preghiera e del rito. Ravvisiamo, in tal guisa, come vi siano dei presupposti che comunemente ad entrambi garantiscono quei crismi di regolarità e di validità ermetica, che ne costituiscono, in quella che è la nostra personale visuale, cioè quella della Tradizione dell’Arte Metallica Occidentale, i due complementari strumenti di realizzazione individuale. Nel nostro discorso, pertanto, si presenterà una similitudine di riferimenti, ma un’identità di presupposti, affinché si chiarisca come medesimi siano i requisiti che necessariamente bisogna acquisire, per far in modo che la propria realtà sacrale si impossessi di quella autenticità, che richiama e attinge forze ed intuizioni dal mondo stellare dei Numi, in Cielo, in Terra, nell’Uomo.
Iniziando a considerare come il termine rito derivi dal latino ritus e soprattutto dal sanscrito Rtà, come attualità perenne della Realtà Divina, esso va oltre ciò che comunemente si intende per preghiera nelle religioni devozionali, non essendo una domanda al Dio teistico, non una passività, una soggezione ad esso, ma rappresentando una vera e propria Azione, sicuramente la più alta tra le azioni. Esso rappresenta l’azione sacra per eccellenza, quella capace di rimanifestare la forza di un Numen, di un Eroe, di rinnovarne la virtù, la presenza effettiva del Divino nell’Umano:
“…attua il dio dalla sostanza delle influenze convenute…qui si ha qualcosa, come uno sciogliere ed un risuggellare. Viene cioè rinnovato evocativamente il contatto con le forze infere che fanno da substrato ad una divinificazione primordiale, ma altresì la violenza che le strappò a se stesse e le liberò in una forma superiore...”[3].
Il senso sacrificale si esplicita già chiaramente, come viatico di mutazione ontologica, come trasmutazione di se stessi alla ricerca del proprio Io Superiore, con la naturale necessità di morire alla mondanità, alla fenomenicità, non con un messianico abbandono della vita, ma, al contrario, con la coagulazione di tutte le proprie forze interne, che possano e sappiano imporsi alla rete kantiana dei sensi, dell’ambiente, dell’educazione. Tale impresa è davvero eroica, perché all’Uomo richiede l’abbandono di tutte le proprie certezze, di tutti gli appigli del mondo, di tutti gli affetti, richiede che egli abbia il potere di rimanere saldo in sé senza la terra sotto i propri piedi, imperturbabile al bene ed al male, esotericamente fissando la propria natura.
“La preghiera è un atto di concreta fluidificazione della volontà. Formulare l’idea e desiderarne la realizzazione è una preghiera… è il regno di Luce che voi invocate e cui voi vi dirigete”[4].
Non è casuale, infatti, che medesime predisposizioni operative si ritrovino tra gli insegnamenti di noti ed importanti personaggi del Pitagorismo Iniziatico degli inizi dell’900, in cui l’abbondanza di logge, di convitati filosofici che predicano la facile iniziazione, insieme con un modus operandi all’insegna del misteriosofico, dell’effetto gestuale e della parola altisonante e criptica vengono indicati, giustamente, con percorsi abnormi che non possono condurre ad un corretto approccio verso un percorso rituale o iniziatico che sia. La semplicità, l’umiltà devono prevalere sui segni cabalistici, sugli sguardi magnetici, il “farsi fanciullo” essendo il requisito essenziale e non l’espansione indefinita dell’ego, con le sue subordinazioni sottili ed istintuali. E’ proprio da Ignis, da uno scritto di Giulio Capurro, riprendiamo qui ed in nota alcune considerazioni alquanto eloquenti sul metodo effettivamente pitagorico:
“…l’uomo rinato dovrebbe essere come una lampada tenuta in alto: una lampada lucente non dovrebbe abbisognare di certi appoggi… E’ questione di metodi”[5].
Si pone in essere un cammino di introspezione che rivela la crudezza di una realtà spirituale, quale si deve affermare nel proprio ambito sacrale, il quale necessariamente riflette come uno specchio tale condizione, anzi ne è principio ed importante ausilio. Il riferimento precedente ad una ritualità essenziale, ad una preghiera quasi muta è nel solco di tale discorso, è nel solco di una purificazione e di uno sgrossamento della propria esistenza, ma anche del proprio rapporto col Divino in sé e nel Cosmo. Tanto più tale rapporto sarà infarcito di barocchismo, di desiderio di ostentare le proprie insegne, di “propagandare” la propria “speciale” cultualità, tanto essa sarà piena di recitazioni autorevoli, di gesti scenici spettacolari (…e spesso ridicoli), tanto quel rapporto sarà labile, poco armonioso, spesso non basato su di una disciplina interna costante e duratura, incline alle fascinazioni più esotiche e transitorie del momento[6]. L’uomo moderno, infatti, si muove in maniera asincronica, spinto dalle curiosità e dal desiderio di soddisfare i propri appetiti egoici e nel fare questo è per lo più diretto dal pensamento altrui. E questa omologazione, anche quando si orpella di simboli antichi, non ha nulla di sacrale, poiché il Sacro non è tangibile dai sensi, il Sacro si manifesta come un fulmine, esso corrisponde ad un “sussulto” che percuote l’intero Essere: tutti i Piani si mettono in movimento all’unisono. Non può esistere, pertanto, vero e serio praticante, di ermetismo, di magia trasmutativa, di ascesi pitagorica, esicastica o buddhista, di cultualità arcaica e pagana, che non rifletta limpidamente la virtù costante ed incrollabile della presenza a se stesso. Tutti i barocchismi interpretativi, le più sofisticate interpretazioni filosofiche, le più arcane simbologie, le più secrete prassi di preghiera ermetica o numenica, perdono ogni loro interno e serio significato, ogni valenza reale ed effettività palingenetica, se una cristallina lucidità coscienziale non assuma fissa dimora presso il proprio animo, se un’osservazione costante e vigile non sappia portar Luce sulle proprie Tenebre e sulle dominazioni, emozionali e psichiche, che ognuno, in ogni istante, subisce. Su tale argomento, che è di un’importanza capitale, purtroppo notiamo manifestarci una diffusa e profonda superficialità, segno di una consapevolezza parziale che non intacca in profondità la personalità, ma che ne inebria la lunare ed inconscia fascinazione per l’ignoto ed il vago quanto nebuloso mondo dell’occulto:
“Finché sussiste codesto squilibrio nel composto umano, è assai difficile sacralizzare anche il più semplice atto iniziatico: la volontà del praticante è sottoposta alle continue pressioni esterne, l’attenzione è debole e deviata, l’amore per la ricerca e la contemplazione del Sacro sono frammentarie e disorganizzate”[7].
Vi è, quindi, necessità di un COLLEGAMENTO REALE con il Sacro, vi è necessità di un nuovo “battesimo” ricevuto in status di purità mentale, vi è necessità di un atto trasmissorio di una FORZA più forte di tutte le forze, che nel passato è stata prerogativa di Re e Pontefici:
“Il cemento originario delle organizzazioni tradizionali: esso spettava anzitutto al Re; era poi prerogativa delle caste aristocratiche e sacerdotali, della magistratura e, infine, dei patres, i capi famiglia”[8].
Non a caso nella tradizione delle famiglie patrizie il riferimento ad avi semidivini o eroici era la manifestazione di una continuità rituale e sacrificale, che manteneva il contatto con il pneuma dell’antenato, che veniva perpetuato dal rispetto rigoroso di norme, gesti e parole: nelle caste superiori, come nella magistratura, ogni variante invalidava il legame dell’evocatore col Numen[9]. Altro aspetto del sacrificio è la sua totale spersonalizzazione: al contrario di quanto cercano i moderni fattucchieri, nell’atto magico nulla si cerca per se stessi, dovendo essere “nullo” il frutto dell’azione. Non casuale, infatti, è la richiamata figura dell’Eroe, il quale ci conduce verso il culto sacrale ed impersonale della Mors Triumphalis:
“…compi ogni azione liberandoti dai legami, equanime nel successo e nell’insuccesso…” (Baghavad-gità).
La via indicata, pertanto, è per sua stessa natura, come già evidenziato, aristocratica, elitaria, iniziatica, riservata a soli Hestos, coloro che sono in piedi, che richiedeva e richiede una precisa qualificazione spirituale, la quale segna l’abissale differenza tra un’idea del rito rettamente tradizionale ed un’idea contraffatta di esso, sacrilega, frutto della volgarizzazione neospiritualista e di un’inversione controiniziatica. Le parole di Julius Evola ci aiuteranno a qualificare tale dicotomia, iniziando una vera e propria analisi di ciò che devesi intendere per azione sacrilega:
“Alterando una legge, un sigillo di dominio sovrannaturale è sciolto, forze oscure, ambigue, temibili ritornano allo stato libero… Il rito o il sacrificio tralasciato, compiuto da persona non qualificata o eseguito in modo comunque difforme dalle regole tradizionali, era principio di sventura: esso rimetteva allo stato libero forze temibili sia nell’ordine morale che in quello materiale, sia per gli individui, sia per la collettività. Trasformava gli dei in nemici”[10].
La Forza Universale, la Potenza-Shakti, che è fonte di pericolo e di morte(gli Dèi Mani), che solo un eroe qualificato può affrontare e soggiogare: chi la sublima e la fissa con il Rito, ripercorre le avventure di Ercole che “conquista” l’immortalità olimpica, che realizza la Verità, la Realtà (Rtà=ritus=rito), la Vittoria. Chi non è qualificato, chi non ha le norme della continuità commette l’errore (non il peccato!) di affrontare (la Forza) fuori dal Rito, viene travolto da ciò che per lui può essere solo caotico ed oscuro, proprio perché non ha suggellato ed invertito verso l’Alto la Forza medesima: vi è, infatti, sempre un Guardiano della Soglia che determina il vero “desiderio” da quello intriso da mera curiosità, esso si presenta nell’attimo in cui si vuole lacerare il velo della verità. Da quanto emerso, reputiamo che la dicotomia tra sacrificio e sacrilegio sia palese, come egualmente palese sia lo stato di degenerescenza dello spiritualismo contemporaneo. Quanti dei moderni maghi, delle tante streghe, dei tanti auguri, hanno realizzato l’identità tra rito (che nella maggioranza dei casi è totalmente inventato) e sacrificio? Quanti hanno percorso un’ascesi purificatrice prima di accostarsi ad una evocazione, ad una parola di potenza, ad un mantra? Quanti posseggono il diritto aristocratico ad accedere al contatto con la Forza del Sacro? La risposta è semplice: Pochissimi! I risultati, d’altronde, sono ben visibili: sono ben visibili le turbe psichiche, i tormenti inconsci, le fobie per un’analisi introspettiva di chi commette sacrilegium, nelle mani viscide di una controiniziazione che accresce il suo diabolico potere proprio sfruttando tali deficienze:
“Il momento del sacrificio fu spesso considerato come un momento solenne e pauroso, e quelle forze che se ne liberano e che non sono dominate e fanno irruzione nel mondo degli uomini attraverso la via a loro aperta, sono potenze demoniache d’insidia e di maledizione”[11].
Le vane glorie dei moderni ci fanno tornare alla mente la pretesa, condannata da Dante, ad atteggiarsi ad Eroe, ai tempi dei Comuni e delle fazioni, di “ogni villan che parteggiando viene”. Facciamo riferimento non solo alla New Age, ma a tutta la corrente moderna che ha la pretesa di interessarsi di esoterismo (che vuol dire “il profondo delle cose” dal greco esos = profondo), nella quale non assistiamo ad altro che ad una nuova forma di buonismo moderno, di accelerazione del piano delle acque, di scatenamento di confusa emotività. Sarebbe sufficiente accennare qui alla confusione che si opera sulla Via univoca maschile-femminile, una nuova forma di parità dei sessi anche in campo esoterico, o allo spirito della divulgazione “urbi et orbi”. E’ come voler gettare due cc. di alcool in una vasca di centinaia di litri d’acqua. Potreste affermare, in tale circostanza, che quella vasca contenga veramente l’alcool? Quell’alcool mantiene tutta la sua “potenza” solo quando rimane racchiusa nella sua fialetta. Divulgare ciò che è e deve rimanere intimamente custodito nella “secretissima camera dello core” per dirla con Dante, può dare come risultato solo inutili illusioni. Il nostro, infatti, è solo un richiamo verso uno status meditativo, verso una disciplina da attuarsi per coloro che ne sentiranno forte il richiamo. Pertanto ciò che appare difficile comprendere e quindi interiorizzare oggi è, come dimostrato, il concetto di Sacro e questo è dovuto proprio alla mancanza di una serie di “atti” e di “gesti” di tipo rituale, di tipo sacrificale. Sappiamo guardarci nello specchio benissimo, anzi, qualcuno di noi, lo fa anche più volte al giorno, dipende dal tasso di narcisismo presente, eppure nessuno, se non pochi, sanno vedere oltre la propria immagine. Ed è proprio nel saper guardare “oltre” che si ravvede, anche meccanicamente, ciò che in noi “vibra” con evidente preponderanza. Intimamente “conosciamo” bene i nostri impulsi interiori che determinano infine la nostra specificità. Avvertire in sé le valenze dell’Eroe, inteso in senso arcaico, o quelle del mistico o quelle dell’avventuroso fa parte di un “sentire” profondo. Ma oggi si confonde, senza avvedercene, il Furor con la nevrosi, l’Estasi Mistica con lo squilibrio psicanalitico. Ecco perchè ci è difficile oggi saper riconoscere in noi la presenza del Divino, se non in termini pseudomistici, romantici o sacrileghi. Non ci è più concesso discernere il noumenico dal fenomenico. Di contro, come accennato precedentemente, si evince che nel Mondo Classico, come fatto distintivo della sua religiosità, il culto degli Dèi era la Pietas come attenzione ed osservazione scrupolosa, mediante occhi e orecchie aperti al mondo, nei confronti di manifestazioni della natura ritenute di massima rilevanza (segni stessi degli Dèi), essendo il visibile manifestazione dell’Invisibile. La tecnica rituale, la preghiera presupponevano precise condizioni pratiche, come la castitas, come la purità morale e l’essenzialità del culto[12]. Nella religiosità romana atti e preghiere erano compiuti serenamente ed antropologicamente sentiti come qualcosa di fondamentale e di naturalmente indispensabile alla esistenza stessa del Cosmo e della Città. Questi sono in quanto è il sacro, loro legittimazione dall’Alto, ma il SACRO è se si “fa” come invocazioni, le quali rinnovano periodicamente la divinificazione primordiale con la quale il Dio si “fece” tale nel Tempo del Mito:
“La preghiera a Roma appare come elemento fondamentale, presente in ogni atto, è l’essenza stessa del senso puro della lingua, ogni parola e ogni verbo proferiti non hanno altro senso se non quello di trasfigurare ed immortalare, di rendere presenti gli Dei…”[13].
Pertanto non possiamo non concludere affermando che la qualificazione atta a qualificare e rendere effettiva l’azione rituale, una libera venerazione siano gli elementi che, letteralmente e nel senso profondo, rimanifestano gli Dèi come Forze e Potenze del Sacro, del Metafisico, che fondano ed energizzano il fisico e l’umano, nei quali si riverberano:
“Noi, in Italia, dobbiamo creare nel silenzio, per disciplina dura, per dominio inflessibile di sé, per serietà e semplicità, noi dobbiamo creare con uno sforzo tenace e alacre di individui una èlite, in cui riviva la Sapienza: quella virtus che non ci lascia parlare, che sorge nel silenzio ermetico e pitagorico, che fiorisce dal dominio dei sensi e dell’anima e non si testimonia con argomenti e libri, ma con atti di potenza”[14].
Luca Valentini
NOTE
[1] Ireneo Filalete, Regole del Filalete, in La Via Ermetica (AHKU), Edizioni Rebis, Viareggio 2011, p.252.
[2] Plotino, Enneadi, VI 9, 7-8.
[3] Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p. 53-4, Edizioni Mediterranee, Roma 1993, p. 53-4.
[4] Giuliano Kremmerz, Elementi di Magia Naturale e Divina (Il Mondo Secreto), in La Scienza dei Magi vol. I, Edizioni Mediterranee, Roma 2003, p. 236.
[5] Giulio Capurro, I modi dell’iniziazione, in Ignis, Aprile – Maggio 1925, Anno 1, Numero 4 -5, p. 100.
[6] Amedeo R. Armentano, Massime di Scienza Iniziatica, Casa Editrice Ignis, Ancona 2004, p. 292ss, in cui la rinuncia a tutta una dimensione larvale di pseudo – conoscenze di natura religiosa, filosofica e occultistica, insieme alla liberazione dal servaggio dell’ego verso il dominio emozionale e sensuale, unito ad una prassi del pensiero e della presenza, di cui accenneremo in seguito, costituiscono i requisiti indispensabili per una reale ed autentica qualificazione rituale ed iniziatica: “Questo nella terminologia ermetica è il dissolvente universale, l’Alkaest, che compie la soluzione del denso”.
[7] Giorgio Sangiorgio, Il Fuoco segreto degli Alchimisti, Edizioni Cenacolo Umanistico Adytum, Lavarone (TN) 2011, p. 471-2, in cui, inoltre, viene ben messo in rilievo come un’effettiva presenza di sé favorisca realmente un potenziamento di quella fluidità mentale e d’immaginazione necessaria per un’autentica trasmutazione alchimica.
[8] Julius Evola, op. cit., p. 49.
[9] Gastone Ventura, Il Mistero del Rito Sacrificale, Edizioni Atanor, Todi-Roma,p. 37ss.
[10] Julius Evola, op. cit., p.54
[11] Abraxa, Conoscenza dell’azione sacrificale, in Introduzione alla Magia, vol. III, Edizioni Mediterranee, Roma 1990, p. 264.
[12] Giovanni Battista Pighi, La Preghiera Romana, Edizioni Victrix, Forlì 2009, p. 25:”E c’è una più generale e alta castitas, che riguarda l’arcaica semplicità d’un culto reso alla persona e alla maestà divina non raffigurata plasticamente”.
[13] Giovanni Battista Pighi, op. cit., dall’introduzione a cura di Mariella A. Mastri, p. 3.
[14] Julius Evola, Imperialismo Pagano, Edizioni Atanor, Todi-Roma 1928, p. 12.