25 Giugno 2024
Sapienza Orientale

CHOD: il rituale di autosacrificio meditativo nel Bön – Martino Nicoletti

Sulla religione prebuddhista del Tibet 

Decidere di offrirsi. Scegliere volontariamente di sacrificarsi. Scopo di questo atto deliberato, completo e totale, è in primo luogo quello di trascendere l’attaccamento al proprio ego finito, al nostro piccolo “io” individuale, biografico e limitato: il grande demone e il più acerrimo dei nostri nemici, quello, ovvero, in grado, da eoni immemorabili, di custodirci nell’ombra precludendoci la possibilità di realizzare la sfolgorante natura divina che risiede viva ed eterna nel nostro intimo.

Foto n. 1

Alcuni anni fa, in Nepal, ho avuto la fortuna di prendere parte a un pellegrinaggio sacro dedicato all’officio di uno dei rituali tibetani più noti nell’immaginario occidentale: il chöd.1 Un rituale dall’aspetto apparentemente macabro e sinistro, già descritto con dovizia di particolari dall’intrepida viaggiatrice francese Alexandra David Neel, che ebbe la fortuna di assistere a questo rito in occasione delle sue peregrinazioni attraverso le regioni desertiche del Tibet.2 Un antico, sacro, rito presente simultaneamente all’interno della tradizione buddhista e di quella prebuddhista, nota come Bön.

Se nel Buddhismo tibetano questa pratica è in genere associata alla figura della grande mistica tibetana Machig Labdrön,3 vissuta nell’XI sec. d.C., nel contesto del Bönil chödè presente come specifica praticaspirituale a carattere tantrico. A questo riguardo la sua origine è fatta risalire alla figura del Buddha Primordiale Kuntu Zangpo e alla sua paredra Kuntu Zangmo, personificazioni della condizione originaria e assoluta della realtà nella sua dimensione totalmente illuminata. Secondo la tradizione, partendo dal Buddha primordiale, la pratica fu in seguito trasmessa, attraverso specifici lignaggi di pratica, a una lunga serie di maestri divini e di esseri umani perfettamente realizzati, così da giungere sino ai nostri giorni, ove il chöd continua a rivestire un ruolo di particolare importanza, figurando quale rituale collettivo officiato quotidianamente dai monaci o come principale pratica meditativa di specifici adepti. In quest’ultimo caso il suo svolgimento, oltre che a livello domestico, hadi norma luogo nella forma di un lungo e spesso pericoloso pellegrinaggio effettuato tra le valli e le montagne himalayane – come è il caso del rito qui descritto –, la cui durata può variare da sette sino a centootto giorni nella sua forma più estesa.

Lo smembramento del proprio corpo e l’offerta agli ospiti invisibili

Al di là delle differenti tradizioni e possibili specifiche varianti, il chöd– termine che in tibetano significa letteralmente “tagliare”, “recidere” – è essenzialmente una liturgia di autosacrificio in cui il celebrante (o i celebranti), grazie al potere della pratica meditativa, del canto liturgico, della musica – prodotta in gran parte da strumenti musicali ricavati da ossa umane, per via del loro intrinseco potere evocatorio – e la recitazione di uno specifico testo rituale, offre il proprio corpo a una folta schiera di “ospiti” invisibili invitati a partecipare a un sontuoso banchetto rituale.

Solitamente questa offerta – svolta, sia ben inteso, come visualizzazione e non come sacrificio reale – ha luogo nel corso di una specifica pratica di meditazione in cui il praticante, dopo aver evocato un’entità femminile di pura saggezza (dakini), dall’aspetto irato, affida a quest’ultima il compito di squartare e smembrare il corpo dell’officiante stesso, dopo averne mozzato il capo con un deciso e fulmineo colpo di coltello uncinato ricurvo. Una volta compiuto lo smembramento – il quale, nel suo stesso svolgimento, richiama in maniera diretta molti elementi propri della fenomenologia dello smembramento iniziatico che ha luogo nel corso dei sogni e delle visioni propri dello sciamanesimo siberiano e nord-asiatico4 – il rituale prosegue con l’offerta diretta delle parti appena dissezionate o con la cottura di queste stesse all’interno di un calderone ricavato dalla calotta cranica dello stesso officiante. Dato il carattere cosmico conferito simbolicamente a questo rito, le dimensioni stesse di questa sorta di paiolo e delle varie membra in esso contenute sono visualizzate come di dimensioni infinite e illimitate. Grazie al potere della visualizzazione mentale, attraverso la cottura, le ossa, i muscoli, la pelle, i capelli, come anche le parti liquide del corpo sono tramutate in offerte pure e in “nettare d’immortalità” (amrta), così da essere quindi offerte, come nutrimento spirituale,a un numero incalcolabile “ospiti invisibili”, appartenenti a diverse dimensioni d’esistenza e suddiviseper rango gerarchico.

Cominciando dalla dimensione più elevata, incontriamo gli Ospiti Eccelsi (tib: sri zhu’i mgron). Questo gruppo comprende i Tre Gioielli – il Buddha, il Dharma e lo Sangha – come anche una serie di altre entità connesse con la dimensione pienamente illuminate d’esistenza. Agli Ospiti Eccelsi, segue la schiera dei grandi Protettori invisibili della religione, i cosiddetti Guardiani della Dottrina o Dharmapala (tib.: bon srung ma).

Foto n. 2

La lista contempla in seguito un largo numero di potenti entità invisibili associate a varie regioni dell’habitat naturale (atmosfera, montagne, foreste, fiumi e laghi, rocce…) e di norma qualificate in Otto Classi di Dei e Demoni (lha srin sde brgyad). All’interno di questa divisione troviamo dapprima i lha, associati alla dimensione celeste e caratterizzati da una personalità fondamentalmente benevola. Seguono quindi i nojin, potenti spiriti di natura semidivina e dall’indole irata. Dopo inojin, incontriamo quindi idüd, spiriti demoniaci in grado di seminare morte e distruzione. Quale personificazione diretta di forze caotiche, queste entità hanno il potere di nuocere e vessare soprattutto quanti si trovano incamminati nel sentiero spirituale. Ai düdseguono poi le mamo, spiriti femminili dall’indole irata e connessi con la guerra e le epidemie. I tibetani ritengono comunemente che questa classe di esseri sia particolarmente sensibile all’inquinamento atmosferico, reagendo pertanto in maniera violenta ogniqualvolta l’uomo alteri volontariamente, degradandole, le condizioni dell’aria. Alle mamo succedono poi gli tsen, spiriti guerrieri, di colore rosso, associati principalmente alle regioni montane e all’habitat roccioso. Nella classificazione si prosegue dunque con i gyalpo, considerati come una delle più potenti classi di essere invisibili mondane, dal momento che, nelle loro mani, si trova il potere di seminare discordie e guerre nonché provocare delle vere e proprie epidemie di follia collettiva. Su questo stesso versante incontriamo quindi glishinje, spiriti signori della morte estremamente pericolosi, i quali possono spesso mostrarsi all’uomo in sembianze zoomorfe. La lista delle otto classi si conclude infine con i lu: entità ofidiche associate all’acqua e alla stessa dimensione ctonia. Nella tradizione tibetana, questa categoria di esseri invisibili è ritenuta la depositaria di conoscenze occulte nonché lacustode di tesori costituiti da gioielli, gemme e metalli preziosi.

Condividendo in gran parte lo stesso habitat occupato dall’uomo, l’insieme di queste potenti entità invisibili appartenenti alle Otto Classi vive in stretta promiscuità con gli esseri umani. Si tratta in questo caso di una convivenza, il più delle volte, pacifica; una coabitazione regolamentata da un codice tradizionale fondato sul rispetto reciproco, non scritto ma mutualmente accettato, nonché da una serie di rituali che hanno, per l’appunto, lo scopo di mantenere in equilibrio le relazioni tra il mondo umano e quello invisibile. Come è facilmente immaginabile, questa è, tuttavia,un’armonia spesso fragile e precaria, capace di infrangersi ogniqualvolta ciascuna di queste due compagini “esca dal proprio seminato”, quando ovvero oltrepassi i confini del proprio “regno” assegnatogli per natura, per nuocere o semplicemente per invadere il territorio appartenente ad “altri”. Abbattere incautamente un albero antico, considerato come la dimora sacra di uno spirito, scalare impudentemente una cima montana residenza di un nume tutelare locale, contaminare le pure acque di un ruscello abitate da una divinità acquatica appartenente alla classe delle divinità serpente, sono tutti atti capaci di infrangere la linea di frontiera esistente tra il territorio umano e quello di dominio dell’invisibile: un atto interpretato dal mondo degli stessi spiriti come un autentico affronto che, non lasciando indenne il responsabile, trasforma quest’ultimo in vittima e bersaglio di un vero a proprio attacco magico, capace di concretizzarsi in malattie virulente, sciagure se non anche nella stessa morte…

L’ultima classe di entità invitate alla cerimonia sono i cosiddetti Ospiti della Compassione(snying rje’i mgon): un’ampia, quanto indistinta pletora di esseri appartenenti ad uno dei regni di esistenza condizionata e caratterizzati da una condizione di sofferenza. Se nel caso delle prime due schiere di esseri illuminati invitati al banchetto,il sacrificio del corpo rappresenta semplicemente un’offerta rispettosa loro destinata, nel caso delle entità appartenenti alle Otto Classi, questo diventa al contrario un’occasione propizia per poter ripagare i propri debiti karmici: vale a direrisarcire, attraverso il dono del proprio corpo, eventuali offese compiute nei riguardi di queste entità, riequilibrando in tal modo le relazioni con esse e, soprattutto, ricreando concretamente una condizione di alleanza. Per quanto attiene invece l’ultima categoria, quella degli Ospiti della Compassione,il banchetto cerimoniale rappresenta autenticamenteuna “mensa degli ultimi”. È qui che, infatti, qualunque essere privo di un corpo, che sia venuto a conoscenza dell’officio del rituale, ha il diritto di avvicinarsi,di soddisfare la propria fame e quietare la propria arsura profonda gettandosi sul pasto apprestato anche per loro. È qui che,dunque, le entità demoniache, le anime non pacificate di defunti, gli esseri incorporei sofferenti e inquieti, possono indistintamente accostarsi a questa mensa, ciascuno con le proprie specifiche necessità e desideri al fine di trovare conforto.

Pericolo, abnegazione e autosacrificio: l’attitudine eroica come elemento distintivo del chöd.

Al di là della sua struttura e della sua specifica modalità di svolgimento, il rituale del chöd, nel suo insieme, si fonda su una ben definita visione del sacro, improntata in modo marcato su un’attitudine e una vocazione essenzialmente eroiche.Per potersi rendere concretamente conto di quest’aspetto è sufficiente rivolgere lo sguardo al contesto stesso entro cui questo rito è officiato. Come si è già accennato, al di là della pratica svolta all’interno dei monasteri, quale rituale quotidiano dei monaci, il chöd è tradizionalmente celebrato da specifici adepti, i chöd-pa, specializzati nel suo officio.

In questo ambito, al di là del significato di liturgia destinata a recidere l’attaccamento all’ego, il chöd è officiato come mezzo efficace per stornare il pericolo di epidemie, per controllare eventi atmosferici che potrebbero danneggiare villaggi e persone, nonché come specifica pratica terapeutica ed esorcistica, indirizzata a persone vittime di disturbi mentali. In quest’ultima circostanza si tratta ovviamente di squilibri mentali, la cui causa è specificamente ricondotta all’azione nefasta di entità sottili.

Secondo la pratica e la visione tradizionale, i chöd-pa ottengono il pieno diritto a officiare questo rituale al termine di un lungo e arduo apprendistato solitario, svolto in specifici “luoghi di potere” (nechen) e “luoghi di terrore” (nyansa). Se il primo di questi due termini si riferisce, in generale, a siti naturali (picchi montani, rocce, laghi, sorgenti, grotte naturali, eremitaggi…) ritenuti pregni di potenza sacra per via di qualità geomantiche intrinseche del luogo, a causa della presenza di specifiche entità invisibili, o come conseguenza del soggiorno prolungato di un praticante spirituale di eccelse qualità, la definizione di “luoghi di terrore ”allude invece a territori particolarmente pericolosi e nefasti, avvertiti come la dimora prescelta di demoni e spettri dall’indole incontrollabile e potenzialmente nociva. Tra questi ultimis ono dunque annoverati i cimiteri, i luoghi ove viene tradizionalmente praticata la cosiddetta “sepoltura celeste” (jhator),5 come anche le confluenze fluviali o i crocicchi.

Foto n. 3

Il difficile e pericoloso noviziato svolto in questi luoghi, oltre che permettere al praticante di forgiarsi e di conoscere le sue paure latenti più profonde, ha soprattutto il fine di consentire al chö-pa di imparare a riconoscere il carattere irreale delle eventuali apparizioni di spiriti e demoni che possono manifestarsi durante la pratica rituale. Apparizioni e percezioni che, a livello assoluto, come ogni fenomeno della realtà, sono illusori e privi di un’esistenza inerente.

Al di là del periodo d’apprendistato, è interessante notare come, molti di questi stessi “luoghi di potere” e di “terrore”ritornano nuovamente nel corso del pellegrinaggio dedicato all’officio del chöd in forma itinerante. Questo pellegrinaggio, infatti, altro non è se non un lungo percorso a tappe, di “luogo di potere” in “luogo di potere” e di “luogo di terrore” in “luogo di terrore”: gli officianti, accompagnati unicamente da una piccola scorta di cibo e da una rudimentale tenda in stoffa, si spostano quotidianamente nei territori che circondano i villaggi abitati, eseguendo il chöd ogniqualvolta percorrano uno di questi luoghi “salienti”, di cui il territorio è densamente costellato.

Questa specifica modalità “nomade” con cui il chöd è svolto, se da un lato permette di entrare in contatto diretto con le vive potenze invisibili del luogo, si configura inoltre come un’impresa densa di pericoli e di rischi. L’uomo, uscendo dallo spazio protetto del villaggio e avventurandosi entro le regioni selvagge e spesso desolate che lo cingono da ogni parte, sceglie infatti di esporsi volontariamente. Decide di mettersi allo scoperto offrendosi spontaneamente alle affilate e indomabili potenze sottili che dimorano in questi stessi luoghi. Sceglie di non attendere, bensì di scovare egli stesso le entità a cui darsi in sacrificio, giocando il tutto per tutto.

Durante il pellegrinaggio, il rischio non solo non viene evitato; questo è, al contrario, deliberatamente ricercato. È per questo motivo infatti che, non di rado, gli officianti, nel corso del loro incedere, a più riprese, compiono degli azzardatissimi atti di provocazione nei confronti delle entità invisibili che qui dimorano. Una modalità esplicita per destare l’attenzione e, come è ovvio che sia, incendiarne la collera. A tale scopo, gli officianti non esitano infatti a colpire con violenza a calci, o lanciandovi pietre, le sacre dimore di alcune di queste stesse entità, così da di spodestarle dai loro luoghi di residenza e suscitarne apertamente la bellicosità.
Oltre alla potenza sacra del rito inerente al rituale che stanno officiando, l’unico scudo magico a disposizione degli officianti, in grado di proteggerli di fronte al rischio di un annientamento, è qui costituito dall’assenza di paura. Come ricordano infatti gli stessi chöd-pa è proprio “…l’assenza di paura la più grande delle protezioni”.6

Avanzando a volto scoperto verso le potenze invisibili, servendosi del potere combinato dell’evocazione rituale e della provocazione deliberata, gli officianti suscitano volontariamente di fronte a sé un’immensa onda di potenza, alla quale si offrono come inermi vittime.È tuttavia proprio qui che, quest’atto apparentemente scellerato, si trasforma nel suo totale opposto. L’onda che, come una cascata, ricade su di loro permette infatti al rituale che si sta officiando di avere il suo perfetto suggello e di assumere appieno i suoi significati. Gettandosi con forza inusitata e con indicibile violenza sulle membra dei chöd-pa –dissezionate e offerte grazie al potere della visualizzazione meditativa –, gli spiriti rendono perfetta l’oblazione che il rito si propone di mettere in atto. Sbranando, dilaniando e consumando il corpo, aiutano concretamente gli officianti a liberarsi del pesante fardello del proprio “ego” empirico ed illusorio.

Eroismo, generosità e compassione

Nel chöd, l’eroismo deliberato, nel rendere efficace l’offerta autosacrificale, si trasforma inoltre in una sorgente inesauribile d’insegnamenti spirituali e di generosità infinita. Al momento di addentare le carni degli officianti e di abbeverarsi del loro sangue, le entità invisibili non si nutrono infatti di pura materia simbolica. Nulla di questo: come già detto, grazie al potere sacro del rito, le varie parti del corpo sono intera mente trasmutate in cibo spirituale, capace, non solo di ripagare i debiti karmici dei chöd-pae delle persone viventi di cui essi sono officianti vicari, ma di propiziare anche una catarsi integrale delle stesse entità invisibili dei luoghi che sono qui accorse. È questo un modo concreto per sostenerle nel loro stesso cammino di avanzamento spirituale; e, ciò, in accordo con una visione spirituale ben ampia e profonda secondo la quale tutti gli esseri senzienti, e non solo gli uomini, hanno possibilità effettiva di avanzare verso le dimensioni più alte della realizzazione.

L’eroismo – come ogni eroismo che si rispetti – ha infatti qui, quale movente principale, proprio la generosità: offrire il proprio corpo e offrirsi per intero affinché gli esseri che non possiedono un corpo – poco importa che si tratti di spiriti dei luoghi, di pericolosi demoni, o di infelici e irrequiete anime erranti… –, possano, tutti, trarre beneficio dal rito compiuto in loro onore; tutti,in accordo con la propria condizione d’esistenza e il proprio livello di comprensione.

Foto n. 4

Nel cibarsi del corpo degli officianti, queste stesse entità invisibili ricevono inoltre, in maniera diretta, degli ammaestramenti fondamentali, in grado di orientarli sul sentiero dell’autentica emancipazione spirituale: osservando il generoso e totale atto d’offerta compiuto dagli officianti, gli spiriti locali apprendono infatti del significato della bodhicitta, della “compassione universale”, cardine fondamentale della spiritualità buddhista e pre-buddhista, nonché strumento principe per liberarsi da ogni attaccamento mondano. Attraverso l’osservazione dell’annichilimento rapido del corpo degli officianti durante il sacrificio meditativo, essi ricevono per di più degli insegnamenti sull’“impermanenza” di ogni fenomeno: realizzazione fondamentale, in grado di recidere con decisione ogni vana identificazione con ogni forma di possesso stabile e duraturo.

Il rito di autosacrificio, e l’attitudine intrepida e virile che questo perentoriamente domanda, si fa dunque qui sorgente di potenza spirituale per gli invitati e occasione unica per poter loro impartire, senza l’ausilio delle parole, dei preziosi insegnamenti. Il fulcro capace di innescare questo circuito altamente virtuoso, è il fermo proposito di recidere l’attaccamento al proprio ego illusorio, demone potentissimo, il quale possiede nell’attaccamento al corpo fisico il suo più forte alleato. Il corpo: simulacro, tempio e dimora prima di questa stessa allucinazione. Un corpo nutrito, difeso, protetto, curato, vezzeggiato, lusingato perché questo stesso miraggio possa continuare a rendersi presente e perpetuarsi all’infinito. Fare a pezzi il proprio corpo, sventrarlo, ridurlo in poltiglia così da svelare l’arcano. Quale? Quello che nessun “io” esiste in realtà dentro questo, tanto amato, corpo materiale. Ed è unicamente liberandosi da questa illusione, che la nostra vera natura, quella ovvero non limitata da nessuna forma, de nessuna identificazione, da nessun limite potrà palesarsi in tutta la sua forza e il suo intangibile splendore.

Il cortometraggio sul pellegrinaggio del chöd
(LINK:https://www.youtube.com/watch?v=-Ir14pujt54&t=8s)

Martino Nicoletti (Dottorato di ricerca in Antropologia e PhD in Multimedia Arts): antropologo, scrittore e viaggiatore, si occupa da oltre venticinque anni di etnografia e storia delle religioni dell’Asia meridionale. È autore di numerosi saggi dedicati alla spiritualità dell’Himalaya, opere letterarie, volumi multimediali e fotograficipubblicati in più lingue. Vive in Francia, dove insegna Consapevolezza corporea dinamica, danza sperimentale e meditazione attraverso il corpo. www.martinonicoletti.com

Didascalie foto:

01_Il pellegrinaggio del chöd ha di norma luogo nella forma di un lungo e spesso pericoloso pellegrinaggio effettuato tra le valli e le montagne himalayane, la cui durata può variare da sette sino a centootto giorni nella sua forma più estesa (foto Martino Nicoletti, copyright 2008).

02_ Territori impervi, abitati da entità potenti e indomabili(foto Martino Nicoletti, copyright 2008).

03_ L’offerta sacrificale del proprio corpo, compiuta con l’ausilio di strumenti musicali ricavati da ossa umane e sostenuta dal potere del canto liturgico(foto Martino Nicoletti, copyright 2008).

04_ La provocazione delle entità invisibili locali: il segno del carattere eroico sotteso al chöd(foto Martino Nicoletti, copyright 2008).

Note
1. Il resoconto di questa esperienza è contenuto nel saggio: Nicoletti Martino, Nomadi dell’invisibile: l’autosacrificio rituale del chöd nel Bön tibetano(libro + DVD), Roma, Exòrma, 2010
2. David-Neel Alexandra, Mistici e maghi del Tibet, Roma, Voland, 2000 [Paris, 1929]

3. Su Machig Labdrön si veda: Orofino Giacomella, Ma gcig: canti spirituali, Milano, Adelphi, 1995

4. Su questo tema, si veda: Eliade Mircea, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Roma, Mediterranee 197; Eliade Mircea, “Sogni iniziatici e visioni presso gli sciamani della Siberia”, in: Il sogno e le civiltà umane, Bari, Laterza, 1966, pp. 89-103; Nicoletti Martino, Elementi sciamanici nel rituale autosacrificale del “gcod”; “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Perugia”, vol. XXVIII, 1990-’91, pp. 237-257.

5. Questa pratica ancora in uso in alcune aree himalayane, prevede che il cadavere del defunto, dopo essere stato trasportato in un luogo solitario distante dai villaggi, venga smembrato così da offrire le varie parti in pasto agli avvoltoi. Questo genere di pratica si ritiene esprima un atto di profonda generosità nei riguardi degli esseri senzienti a cui il corpo è offerto come alimento.

6. Comunicazione personale del ngakpa chöpa Namkha Gyalpo.

Bibliografia

Chaoul Alejandro, Il sacrificio rituale tibetano. La pratica del chöd nella tradizione Bön, Foschi, 2011

David-Neel Alexandra, Mistici e maghi del Tibet, Roma, Voland, 2000 [Paris, 1929].
Eliade Mircea, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Roma, Mediterranee 1974 [Paris, 1951].

– “Sogni iniziatici e visioni presso gli sciamani della Siberia”, in: Il sogno e le civiltà umane, (introduz. di V. Lanternari, nota introduttiva di C. Gallini), Bari, Laterza, 1966, pp. 89-103.
Nicoletti Martino, Nomadi dell’invisibile: l’autosacrificio rituale del chöd nel Bön tibetano (libro + DVD), Roma, Exòrma, 2010
– Elementi sciamanici nel rituale autosacrificale del “gcod”; “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Perugia”, vol. XXVIII, 1990-’91, pp. 237-257.
Nicoletti Martino (a cura di), The Path of Light: Ritual Music of the Tibetan Bon (libro + CD), Bologna, Borgatti Edizioni Musicali, 2008

Orofino Giacomella, Ma gcig: canti spirituali, Milano, Adelphi, 1995

– “Contributo allo studio dell’insegnamento di Ma-gcig Lab sgron” Annali dell’Istituto Universitario Orientale (Supplemento n. 53), vol. XLVII, Napoli, 1987

 

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