Arrivano, a novembre, le elezioni. Gioda accetta, poco convinto, ma per devozione a Mussolini, che il Movimento entri nel “Blocco della Vittoria”. Ma la forzata alleanza con borghesi e moderati dura poco. Il deludente risultato dà linfa ai suoi intendimenti rivoluzionari e mette in ombra De Vecchi. Il “fosco anno di fraternità e sofferenza” si conclude – come in gran parte d’Italia – con una crisi del Fascio.
- Sono settimane di grande agitazione in una città “terremotata dalle mine bolsceviche”, e nella quale i pochi fascisti fanno quello che possono. Dopo quelle del 25 e 29 marzo, con poco più di una decina di aderenti e forte di una sottoscrizione tra i presenti che frutta 3.254 lire, il 18 aprile si tiene la prima assemblea generale.
Qualche Fascio comincia a sorgere anche nella provincia, a Ciriè, Caselle, San Maurizio e nel Canavese. Molto graditi sono anche i nuovi aderenti in città, i giovani del Fascio Studentesco Antibolscevico, così che Gioda può chiedere a Milano l’invio di 125 tessere per regolarizzare la posizione dei primi militanti.
Sono sempre pochi, ma non manca la volontà di battersi, che già comincia a preoccupare gli avversari. Mancano, invece, i soldi, manca una propria sede indipendente, manca un giornale, e solo con molta fatica, e per la indefessa volontà di Gioda, che lo dirigerà, il vecchio settimanale “La Patria”, che durante la guerra aveva sostenuto lo sforzo dei combattenti, diventa “Il Maglio”, destinato ad essere, negli anni a venire l’organo della Federazione fascista torinese.
Mancano, soprattutto, le armi:
Fu necessario cominciare la raccolta delle armi in sede. Per parte mia, misi nei cassetti della scrivania due pistoloni d’ordinanza, di quelli detti “da mitragliere”, più la mia stessa pistola Beretta, riservandomi una rivoltella “velodog”, molto elegante ma anche molto pratica, che mi era stata donata in ricordo da amici delle terre liberate.
Raccogliemmo così una decina di pistole e rivoltelle, una dovizia di pugnali, parecchie Sipe e parecchi Thevenot, che, per ogni precauzione, nascondemmo dentro la grande stufa in maiolica che adornava la nostra sede. Qualche Ardito aveva un moschetto, ma preferimmo che ognuno lo conservasse a casa per il momento della necessità.
Fin dai primi giorni di aprile 1919, la sede del Fascio di Torino era affidata alla vigilanza degli Arditi, ed era praticamente imprendibile da parte di bande sovversive. (18)
Un giorno arriverà in città anche Marinetti, accompagnato da Ferruccio Vecchi, non per una manifestazione politica o per una serata futurista, ma molto più prosaicamente per… ritirare una mitragliatrice austriaca, con relativo munizionamento, che il comandante di un Reparto di autoblindo gli ha promesso, e che sarà destinata alla difesa della “Casa rossa” in corso Venezia, a Milano.
Negli ambienti fascisti cittadini, a dire il vero, in questa prima fase, dubbi ci sono sui modi nei quali affrontare l’avversario. I primi verbali delle riunioni in via dell’Arcivescovado testimoniano una diversità di opinioni tra chi vorrebbe formare da subito dei corpi armati e chi, invece predica moderazione, per adeguarsi agli eventi se necessario.
Tra questi ultimi vi è proprio Gioda, che fa “opera sempre molto riflessiva e serena, opera pratica che tempera le proposte impulsive e frena gli scatti intempestivi”. Quando si arriva al 1° maggio, per esempio, riesce ad imporre la sua tesi di restare in sede, senza scendere per strada a provocare. Tesi dettata dalla ragionevolezza e dalla realtà dei numeri, ma che non piace agli “uomini di mano”:
De Vecchi ed io eravamo invece d’accordo nel volere un atteggiamento “ardito”. Non si riusciva a trovare una base comune. Decidemmo infine che gli Arditi si sarebbero divisi in due gruppi: il minore, cioè una ventina, sarebbero rimasti in sede, pronti alla difesa; un centinaio circa si sarebbero divisi in tre o quattro grossi pattuglioni che avrebbero controllato gli ingressi della Galleria.
De Vecchi ed io fummo d’accordo, senza parlarne a Gioda, nel voler impedire che il corteo rosso percorresse via Roma; sarebbe stata una grave provocazione per la cittadinanza non socialista, una specie di presa di possesso del centro cittadino.
[…]
La mattina del 1° maggio, il Fascio era gremito di Arditi e fascisti. Non è facile descrivere oggi il caratteristico aspetto, tra il cocciuto e lo spavaldo, che i fascisti assumevano in quelle circostanze, quando cioè si giocava la pelle su un filo di rasoio. In guerra era un’altra cosa: si combatteva inquadrati. Allora, nel ’19, si affrontava volontariamente la situazione, sapendo di essere un centinaio contro centomila! (19)
E’ una giornata particolare, che testimonia soprattutto la volontà dei pochi di non cedere di fronte ai molti, che non fanno paura, come il Segretario ribadisce in una lettera a Mussolini, già il giorno dopo:
Carissimo Benito, ti scrivo a tamburo battente. Ieri il Fascio si è trasformato in un corpo di guardia. Tutto il giorno vi è stato movimento. Se gli altri si muovevano, al fascio non mancavano gli elementi per una prontissima risposta. L’altra sera, alla Camera del Lavoro è stata decretata la nostra morte e quella dei Fasci. Un amico è riuscito a presenziare all’assemblea. E’ diventato Guardia Rossa. Mi ha quindi informato. Per accopparci occorre però una cosa semplicissima: la nostra disposizione a lasciarci accoppare. (20)
Tra un comizio (De Vecchi a piazza Carlo Felice il 21 giugno, per protestare contro l’insediamento di Nitti) ed una manifestazione (la contestazione all’esponente bissolatiano Giuseppe Canepa al cinema Ambrosio a corso Vittorio Emanuele, e la zuffa con gli scioperanti che vogliono impedire la consegna al Mercato di Porta Palazzo dei prodotti che i contadini portano dalle campagne), i primi scalmanati in camicia nera trovano anche il tempo di divertirsi un po’, a modo loro:
Mentre nei primi tempi la nostra azione si era per lo più limitata a difendersi dai soprusi bolscevichi, ora passavamo al contrattacco. Pattuglie coraggiose si spingevano tutte le sere in corso Vinzaglio, ove era la Camera del lavoro, in cerca di far quattro pugni: e l’occasione si trovava quasi sempre. Piccoli scioperi erano energicamente ostacolati dai fascisti, con ogni mezzo. (21)
Si fa, però, anche politica. Gioda, più di tutti, ha idee inequivocabili, e nel suo Diario scrive, alla metà dell’anno:
Occorre parlare chiaro. Il nostro programma non si può né adulterare né aggirare. Noi siamo fattivi, e non ci preoccupano né dogmi né Partiti. Sappia però la borghesia che noi non abbiamo sposato la causa nazionale ed internazionale di libertà e giustizia per diventare il suo parafulmine. Non abbiamo pregiudiziali dinastiche. Guardiamo i fatti giorno per giorno. Non si creda, in piano 1919, che, passata la festa, gabbato lo santo. Noi siamo più rivoluzionari di Serrati, il gesuita rosso.
Noi non siamo disposti ad abbandonare le chiavi dell’uscio nazionale sotto la porta della borghesia. Se questa non si muove, sfonderemo quella porta. Faremo casa pulita. Svecchieremo. La burocrazia, che inasprisce e inacidisce l’Italia, la sopprimeremo e nessun Giolitti potrà salvarla dai nostri colpi. (22)
Sempre lui, su “Il Popolo d’Italia” del 29 giugno pubblica un articolo “violentemente polemico contro Agnelli e gli altri maggiori azionisti della Fiat”, affrontando lo spinoso problema dei sopraprofitti di guerra e alzando il tiro rispetto alla borghesia “gretta, bottegaia, piccina, fatua, capace di preoccuparsi esclusivamente del proprio portafoglio”, che già aveva messo nel mirino.
Tutto ciò, mentre non mancano le polemiche interne, all’ombra dell’insuperabile differenza di opinioni tra i due più rappresentativi mussoliniani cittadini, con piccole ripicche e sabotaggi organizzativi. E’ per questo che il Segretario, qualche giorno dopo il fallimento – forse anche per colpa dei seguaci di De Vecchi – del Convegno regionale fissato dal Comitato Centrale del Movimento (senza sentire gli organi locali) al 1° giugno, scrive preoccupato ad Attilio Longoni:
Caro Attilio, se sei libero, vola all’assemblea di domani sera sabato. Sono incominciate grane in famiglia per via del comunicato di oggi del CC dei Fasci al Popolo d’Italia. Qualcuno è rimasto male perché ha intravisto, tra le riforme, anche quella definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini sugli “i” e chiarire i nostri rapporti con i fascisti monarchici. Tuo Gioda.
Attendo risposta telegrafica. Se non vieni tu, manda Marinelli o Vecchi. (23)
Si può quindi immaginare con quanto poco entusiasmo, e solo per spirito di disciplina e personale devozione a Mussolini, Gioda accetti, a ottobre, in vista delle elezioni, l’inclusione di candidati fascisti nel “Blocco della vittoria”, insieme al Fascio liberale, all’Associazione nazionale, alla Lega d’azione italiana e altri gruppi minori, sulla base di un programma abbastanza generico.
Il risultato delle urne non premia la scelta, in una città che assegna ai socialisti il 53 per cento dei voti. Il solo De Vecchi può consolarsi con un buon successo personale, dovuto probabilmente al suo passato di combattente valoroso, al suo radicamento in ambienti borghesi e alla sua carica “vitalistica” che ne fa un sicuro punto di riferimento – certamente più di Gioda – per chi, dopo un lungo periodo di prepotenze sovversive, non disdegnerebbe ripagare gli avversari con la stessa moneta:
…il 9 novembre, ad un comizio nazional-fascista, mentre parla De Vecchi – con quella sua oratoria forbita elegante e di sommo gusto letterario, consueta in lui che è un cultore di classici, e sempre pienamente commossa, adorna ma estremamente sincera, sicché lo si ascolta sempre con l’anima negli occhi – mentre parla De Vecchi, Ardito e Bombardiere, il valoroso di Val Cismon, i sovversivi entrano in scena improvvisamente e lo urlano e dileggiano la Patria.
Ma già De Vecchi non parla più: lasciato il palco, si butta fulmineo contro ai nemici, trascinando gli animosi all’offensiva. La risposta fascista è pronta, decisa, inesorabile, e i rossi sono respinti, dispersi, cacciati.
Il Tenente Bagnasco può parlare, intanto che il Capitano De Vecchi, con pochi animosi, sta, sentinella all’erta, pronto contro i rossi se tornassero. Ma non tornano. (24)
E’ quello che, nelle cronache successive, sarà definito il “comizio dei comizi”. Ma non è ancora il momento dell’azione, e non lo sarà ancora per tutto il 1920, “anno della minorità fascista”, così che la tendenza ad impantanarsi nelle beghe e nei personalismi (anche quando motivazioni di fondo ci sono, e reali) prevale.
Il 13 dicembre Gioda comunica alla dirigenza cittadina che le ragioni dell’alleanza alla base del “Blocco della Vittoria” sono venute meno, chiede ed ottiene le dimissioni del vertice, indice nuove elezioni per la nomina di una Commissione Esecutiva che porti alla creazione di “comitati a larga base, con inclusione di operai”.
De Vecchi si chiama fuori, ed è sostanzialmente assente anche alle iniziative pro-Fiume che il movimento prenderà in città nei mesi successivi, e che consisteranno in raccolte di fondi, organizzazione dei volontari che vogliono raggiungere la città, ospitalità a bambini fiumani presso famiglie amiche.
Tra Fiume dannunziana e Torino ci sarà sempre un legame forte, al quale non si sottrarrà lo stesso Gramsci e che troverà in Nino Daniele, redattore de “L’Ordine Nuovo” e legionario fiumano il suo trait d’union.
Proprio con Daniele il politico sardo si lascerà andare, a gennaio del 1920, a dichiarazioni che oggi possono apparire stupefacenti, almeno nella versione che ne darà il suo interlocutore:
Meno sentimento che in Giulietti e Bombacci, ma altrettanta attrazione e più dialettica.
Dichiarazioni importanti.
Sono convinto da un pezzo che il Partito avrebbe dovuto tentare di avvicinare d’Annunzio;
C’è una prevenzione nostra contro di voi, come ce n’è una vostra contro di noi;
Nel nostro Partito, le persone, le opinioni individuali non contano. Purtroppo, però, contano gli imbecilli, in quanto sono la maggioranza, come in tutti i Partiti;
L’ideologia comunista è, in questo momento, l’ideologia più nazionale. Noi non siamo contro la Patria, ma soltanto contro la Patria borghese;
[…]
A noi non importa tanto l’abolizione della proprietà privata, quanto l’organizzazione.
Fin qui Gramsci, che mi fece una simpatica impressione, e che mi invitò a mandargli qualche corrispondenza da Fiume, se ci andavo. (25)
Per una singolare coincidenza, di quelle che intrigano gli appassionati delle misteriose combinazioni della storia, quasi in contemporanea all’inizio dell’ultima avventura del Vate, nella ex Capitale sabauda inizia anche l’esperienza che, con il suo fallimento, porrà praticamente fine ai sogni sovietisti degli emuli di Lenin nostrani:
La storia effettiva del “biennio rosso” comincia a Torino il 13 settembre 1919, con la pubblicazione in “L’Ordine Nuovo” del manifesto “Ai Commissari di Reparto delle officine FIAT Centro e Brevetti”. Nel quale si ufficializzano l’esistenza e il ruolo dei Consigli, in quanto nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai.
Lo stesso giorno, appoggiato dai suoi trecento legionari e da alcuni Reparti raccogliticci di Granatieri, essendo a suo avviso messi in pericolo i frutti della vittoria bellica contro lì Austria, sia dall’insipienza dei governanti italiani sia dall’ostilità degli Alleati dell’Intesa, Gabriele d’Annunzio muove da Ronchi di Monfalcone, ed entra a Fiume, proclamando solennemente l’annessione della città all’Italia ed obbligando il presidio internazionale ad evacuarla (e restandovi per quindici mesi). (26)
Sarà proprio l’occupazione generalizzata delle fabbriche, insieme alle sommosse estive contro il caroviveri a provocare il ritorno in linea di De Vecchi. Alla fine di luglio del 1920 si insedierà a capo della nuova Commissione Esecutiva, perché l’urgenza dell’azione obbliga a scelte “forti”. Se le rivolte cittadine possono considerarsi una fiammata, con il contorno dei classici “delitti di folla”, diverso sarà il caso delle occupazioni degli stabilimenti produttivi.
Eppure, contro di esse il fascismo non prenderà mai, né sul piano nazionale, né su quello locale, a Torino, una posizione fermamente ostile, nonostante si verifichino episodi atroci come gli assassinii di Scimula e Sonzini, e la presenza di minacciose mitragliatrici ai cancelli sembri il primo atto della rivoluzione sovietista.
Passata la sbornia, il Fascio di Torino sarà all’avanguardia nella battaglia antibolscevica, prima con una contrapposizione dura e decisa all’azione dei rivoluzionari ispirati da Mosca e poi con azioni di conquista del territorio, indispensabili in vista della “Marcia”.
La distruzione della Camera del Lavoro cittadina, il 25 aprile del 1921 e la “battaglia di Novara” nel luglio del 1922 saranno i due passaggi fondamentali della lotta squadrista.
Alto sarà il tributo di sangue da pagare. Una pubblicazione commemorativa, pubblicata nel 1929, fisserà in dodici – sul totale dell’intera Regione di quarantotto – il numero dei caduti fino al 28 ottobre del 1922 (ed altri cinque ce ne saranno negli ultimi due mesi dell’anno). Il loro ricordo sarà sempre giudicato utile per “ritemprare l’anima sull’acciaio delle loro limpide coscienze e prepararsi al domani con più saldo cuore e viva certezza”. (27)
Alla fine, il Fascio torinese potrà ben vantarsi di essere uno dei più forti d’Italia, così che, quando, dopo i tragici fatti del dicembre del 1922, i camerati genovesi si offriranno in aiuto contro la montante mobilitazione sovversiva, la risposta sarà netta e inequivocabile: “Savoia basta a se stessa”.
Dieci anni dopo, in piazza Castello, il definito riconoscimento mussoliniano: “Qui a Torino lo squadrismo non ha conosciuto limiti al suo sacrificio”.
-fine-
NOTE
- Silvio Maurano, cit., pag. 32
- ivi, pag. 41
- (a cura di) Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, cit., pag. 328
- Silvio Maurano, cit., pag. 42
- Giovanni Croce, cit., pag. 132
- (a cura di) Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, cit., pag. 245
- Guerrando Bianchi di Vigny, cit., pag. 134
- Nino Daniele, Memorandum a d’Annunzio, in: Renzo De felice, “Il dannunzianesimo di sinistra in un memorandum di Nino Daniele a d’Annunzio del marzo-aprilem1921, in “Storia Contemporanea” nr 1/1970, pag. 623
- Remo Mazzacurati, Gramsci e il “biennio rosso”, Bolsena 2017, pag. 201
- (a cura del) XX° Gruppo Rionale Fascista “Antonio Strucchi”, I nostri martiri, pagine eroiche del fascismo torinese, Torino 1929
Foto 5: Brandimarte in uniforme da Generale della Milizia
Foto 6. Squadristi torinesi, della “Cesare Battisti”