Il 4 agosto del 1919 il Fascio di Trieste ha il suo primo Caduto, al quale altri si aggiungeranno nel triennio successivo. E’ il diciottenne Carlo Polla, raggiunto da una moschettata esplosa da un Carabiniere durante una manifestazione. Nel suo nome inizia la redenzione della città.
La presenza per le strade dei primi e pochi giovanotti (“i soliti quattro sbarbatelli”, si autodefiniranno ironicamente, due anni dopo, ricordando la sottovalutazione avversaria) in camicia nera non può essere, evidentemente, sufficiente a ribaltare una situazione che la prepotenza socialista infiammata dall’esempio russo insieme alla aggressività slava tollerata dalle Autorità stanno rendendo insopportabile per i buoni italiani.
Gli scioperi dei cantieri navali e delle piccole realtà industriali connesse, con il contorno di violenze, non contrastate nei modi dovuti dalle Forze dell’Ordine, danno ai sovversivi l’illusoria impressione di essere alla vigilia della rivoluzione anche a Trieste.
La mobilitazione, in vista del grande evento, non può trascurare nessuno, nemmeno i più piccoli. E’ per questo che le Cooperative Operaie prendono l’iniziativa, con l’inizio dell’estate, di organizzare, alla domenica, escursioni fuori città dei figli degli iscritti. All’aria aperta, sommari corsi di indottrinamento si alternano al canto delle canzoni sovversive e ad un ricco pasto, preparato con cucine da campo a base di “pasta asciutta, carne e frutta”, come, ancora cinquanta anni dopo, con compiaciuto orgoglio verrà raccontato da uno degli organizzatori (e verrebbe da chiedersi da dove vengono i soldi per finanziare simili iniziative, in una città che vive, più di altre, la crisi del dopoguerra).
Al rientro, incolonnati, i ragazzi ed i loro accompagnatori adulti danno sfogo alla giovanile esuberanza, al ritmo di “Bandiera rossa” e simili canti, fermano il traffico delle vetture tranviarie finchè il loro improvvisato corteo non è passato, ostentano una fastidiosa (per gli altri) aria da padroni. Veramente riduttivo – e involontariamente ridicolo, oltre che insopportabilmente sdolcinato – è il racconto che uno dei protagonisti dell’iniziativa, il comunista Giuseppe Piemontese (pseudonimo “Tiberio”) darà dei fatti:
I piccoli gitanti rientravano in città incolonnati, cantando canzonette varie (non “sovversive”, né insultanti, come si volle poi insinuare). Nei pressi delle Sedi Riunite attendevano i parenti dei piccoli, che se li portavano a casa.
Un solo inconveniente, se così si può chiamare, era stato lamentato: che i giovani ordinatori, al ritorno in città, per eccesso di zelo, facevano fermare il tram per dare la precedenza al lungo corteo, la qualcosa, del resto, avveniva col benevolo consenso dei tramvieri. (1)
Poco credibile che i “giovani compagni”, non ancora “pionieri”, rientrino da un “campo comunista” cantando, per esempio “Quel mazzolin di fiori”, e ridicolo negare che, se pure i tramvieri sono solidali con chi sfila, gli occupanti le vetture non abbiano un legittimo senso di fastidio per il ritardo imposto. Lo stesso senso di fastidio dei pedoni che, nelle domeniche pomeriggio d’estate, affollano le strade cittadine e sono costretti a farsi da un lato per dare spazio alla sfilata dei cortei sovversivi.
Comunque vadano le cose, domenica 3 agosto, al termine della quarta “escursione”, nei pressi dei locali delle “Sedi Riunite” organizzatrici, succede, però, che tra un adulto accompagnatore (forse il padre di uno dei partecipanti) e i Carabinieri di guardia nasca un alterco. I militari non possono fare altro che fermare per “oltraggio alla forza pubblica” (che comportava l’arresto immediato) l’insultatore, e portarlo di forza alla Stazione di via Parini, mentre dall’interno della organizzazione sindacale viene esploso qualche colpo di pistola al loro indirizzo.
Tutto finirebbe lì, se in poco tempo, una folla di alcune centinaia di persone non circondasse la caserma dei Carabinieri, iniziando, contro l’edificio, un fitto lancio di sassi, che costringe i militari ad uscire e tirare qualche colpo di moschetto in aria per disperdere gli assedianti.
Nonostante la sostanziale irrilevanza dei fatti, e, forse, contro la stessa volontà dei dirigenti socialisti, il giorno seguente viene proclamato lo sciopero generale. “Squadre di controllo” per imporre la chiusura dei negozi si formano all’interno delle Sedi Riunite e, al termine di un breve comizio, un folto corteo, al canto de “L’Internazionale”, si dirige verso il centro cittadino, facendo abbassare le saracinesche a chi ancora non lo ha fatto.
Nascono nuovamente conflitti con i Carabinieri, alcuni feriti vengono sommariamente curati nella farmacia Serravallo, in via Cavana, ed un giovane militare resta ferito (morirà poi in ospedale).
A questo punto accade l’imprevedibile. Un numeroso gruppo di giovani, prevalentemente studenti, si incolonna dietro un tricolore, in corso Vittorio Emanuele, e inizia a percorrere le strade, invitando coloro che si affacciano ai balconi, ad esporre a propria volta il tricolore, in segno di solidarietà.
Molti aderiscono, ma, all’altezza di via Dante, uno che era alla finestra, poi identificato per tale Dobauscek, pare fondatore del Partito socialista cittadino, risponde all’invito con un gesto triviale e frasi offensive: “Daghe, daghe ai taliani, mazeli!”.
Alcuni, allora, si staccano dal gruppo, penetrano nello stabile, e “prelevano” il giovane, che, un po’ malconcio, viene consegnato ai Carabinieri, raccontando l’accaduto. I militari, anche per sottrarre l’imprudente provocatore a più pesanti conseguenze, decidono per l’arresto e la traduzione in Questura, e si avviano, accompagnati dai giovani col tricolore.
Arrivati quasi a destinazione, però, sopraggiungono, numerosi, i partecipanti al corteo sovversivo – evidentemente informati dell’accaduto – che cominciano a premere, per cercare di liberare il loro compagno, azzuffandosi con i giovani “nazionali”.
Nella concitazione del momento, un militare esplode un colpo che raggiunge il diciottenne Carlo Polla, per il quale, nonostante le prime cure prestate nella vicina farmacia Vidali, non c’è più niente da fare.
E’ allora che, irrefrenabile, cresce l’ira dei camerati della vittima, ai quali si sono uniti, nel frattempo, gruppi di Arditi. Zuffe, che si concludono con la fuga dei manifestanti rossi, scoppiano in corso Garibaldi, e viene anche attaccato – senza molta convinzione, però – lo stabile del giornale “Il Lavoratore” che è il quotidiano sovversivo della città.
Dopo di che, i manifestanti si dirigono prima all’Hotel Balkan, sede delle associazioni slave della città, Narodni Nom, dove impongono l’esposizione del tricolore, e poi al giornale slavo “Edinost”, al cui interno riescono a penetrare per la successiva devastazione e l’esposizione del tricolore.
Quasi in contemporanea, in via Acquedotto (poi via Venti Settembre) viene attaccata una scuola slava, con annesso centro di cultura anti-italiano.
Al pomeriggio, riordinate le file, i manifestanti “nazionali” della mattina, rinforzati dalla robusta presenza di Arditi, anche in divisa, partendo dalla sede del Fascio si incamminano minacciosi per il Centro, fino alla sede delle “Sedi Riunite”, in via Madonnina, dove un gruppo di audaci, muovendo dal retro – a causa della numerosa presenza di Carabinieri di guardia all’ingresso principale – riesce a penetrare nell’edificio e impegna in un conflitto a fuoco gli occupanti.
Non è cosa di poco conto, perché all’interno dell’edificio ci sono asserragliati circa quattrocento socialisti, che si difendono come possono. Al rumore dei colpi si muovono anche i militari che stazionano all’esterno, e c’è un altro scambio a fuoco con gli occupanti. Quando tutto finisce, alcune centinaia di sovversivi vengono tratti in arresto.
In serata, la notizia della morte del giovane Polla si diffonde in città, e provoca l’unanime sdegno, proprio per la qualità di “bravo ragazzo” del Caduto.
Figlio di patrioti (il padre era fuggito per arruolarsi volontario nell’Esercito italiano, e la madre si era distinta nel dare ospitalità e protezione a “disertori” dell’Esercito austriaco), pare fieramente portasse, al momento dell’incidente, nel taschino della giacca, un fazzoletto tricolore – che lo rendeva facilmente “identificabile” – con su scritto “Viva Trieste italiana”.
La presenza di tanti Arditi tra i protagonisti della giornata conferma l’opinione di chi sostiene che nella città di San Giusto la normalità non è ancora tornata, e che si tratta quasi, ancora, di una retrovia del fronte:
La massa degli effettivi in armi, il sovraffollamento delle piccole pensioni sorte ovunque, il numero dei bordelli aperti giorno e notte, danno alla città l’immagine di una Capitale di guerra. Le strade sono percorse da una moltitudine di militari di tutti i Reparti, a cui si mescolano migliaia di smobilitati ancora in divisa. Giovani assuefatti alla violenza e privi di prospettive, che vivono alla giornata, cercando di evitare il ritorno nei paesi d’origine. (2)
Da parecchie fonti viene data per certa la partecipazione dell’ex Ufficiale degli Arditi, pluridecorato Ercole Miani, del quale ho già detto, all’assalto del 4 agosto. Con lui probabilmente c’è anche un’altra “pellaccia”, Tommaso Beltrani che gli sarà compagno prima nel “prelevamento” degli automezzi a Palmanova, e poi a Fiume, dove addirittura comanderà la “Disperata” addetta alla protezione di d’Annunzio.
Autorizza a crederlo il fatto che anche il suo nome risulta nello stesso elenco di metà settembre (quindi, quando anch’egli è fuori città, a Fiume) dei componenti del Direttivo fascista cittadino.
Ravennate, Tenente degli Arditi, decorato, è veramente un personaggio singolare, nella definizione di Mario Carli: “vero capobanda senza paura e senza disciplina, sdegnoso di portare i segni del grado sulle maniche, poiché li portava nella voce e negli occhi, e che spirava l’irregolarità da tutti i pori, da tutte le sdruciture della giubba e dei denti”.
Destinato a restare ben impresso nella memoria di chi lo conosce, pur in tempi nei quali simili personaggi “singolari” non mancano:
Era uno di quei tipi singolari, che si possono denominare “anime perdute”: un assieme di eroico e di sentimentale, di pazzo e di mistico, capace di giocar la pelle per un puntiglio, e di sparar diritto nella testa di chi non l’avesse seguito dov’egli avesse divisato di arrivare, magari all’inferno; incapace nell’istesso tempo di non togliersi di saccoccia l’ultimo centesimo, esponente di una bolletta cronico-permanente, per offrirlo al primo bisognoso.
Parlava con una specie di voluttà il largo e scapigliato dialetto romagnolo, con certe uscite tutte sue; aveva dei momenti di trasporto e di indicibile effusione, nei quali gli esplodevano fuori dei flebili: “at’ scioupess ‘na vena”, ‘e mi vecc” (“ti scoppiasse una vena, vecchio mio”), e questa era la frase della massima tenerezza. (3)
Ciò che colpisce, in questo caso, è che, come era accaduto a Milano poche settimane prima, dopo l’incendio de “L’Avanti”, da parte degli sconfitti sul campo, che pure sono più “forti” numericamente ed organizzativamente, non ci sia alcuna reazione.
E sì che, anche qui, i propositi più truci non mancavano. Sulla scrivania dello stesso Governatore militare Petitti di Roreto, si accumulano preoccupati rapporti degli Uffici informativi che riferiscono la frenetica attività di gruppi paramilitari marxisti che si stanno organizzando.
Si parla di una “Guardia Rossa Ciclista” che, ad imitazione di ciò che sta accadendo nel resto d’Italia, assicuri la possibilità di controllare il territorio e spostare velocemente, là dove la necessità lo richieda, consistenti gruppi di attivisti.
Ci sono poi le formazioni degli “Studenti Sovversivi”, che dovrebbero dare un supporto di cultura a questi Arditi rossi.
Tra gli organizzatori, si distingue, in particolare, il diciannovenne Vittorio Vidali, futuro stalinista di ferro, responsabile di svariati omicidi “su commissione” (meglio “su ordine del Partito”) negli anni successivi, compreso quello di Trotsky.
A fronteggiarli, la variegata compagine fascista, della quale ci si può fare un’idea pur nella malevola descrizione di un osservatore maldisposto:
E’ una massa particolare quella dei militanti fascisti, che riunisce categorie sociali comprese in un arco che dalla piccola borghesia si spinge fino ai confini del sottoproletariato. Sono tutti giovanissimi: ex Ufficiali di complemento, colletti bianchi assunti come precari dall’Amministrazione militare, smobilitati prigionieri della crisi economica del dopoguerra, braccianti impiegati nell’edilizia o nel porto, commercianti ambulanti, operatori di bassa qualifica nella Sanità o in servizi gestiti dal Comune, disoccupati. Non è semplice controllarli, ma costituiscono una massa d’urto formidabile. (4)
Niente grossi borghesi, industriali ed agrari, nelle file fasciste. Se in questo elenco una categoria manca, perché sfugge alle classificazioni marxiste, è invece quella degli uomini usciti dalla guerra, e, in particolare, di quelli che l’hanno combattuta in prima linea e con valore, facendone quasi una seconda natura.
Con simili “uomini di mano” disponibili, e con la simpatia di gran parte della popolazione (nel pomeriggio del giorno 4 si parlerà di oltre mille manifestanti insieme ai fascisti) è più che lecito ipotizzare che la vittoria delle squadre fasciste sarebbe certa.
Bisognerà invece aspettare la primavera dell’anno dopo, e l’arrivo in città di un capo capace e carismatico come Francesco Giunta, perché essa si realizzi. Questo anche se, già nei giorni immediatamente successivi alla morte del povero Polla, tutta la Trieste fascista si mobilita in previsione dell’azione su Fiume che voci sempre più insistenti danno per prossima, sotto la guida di d’Annunzio.
Gli avvocati Sergio Dompieri e il già citato Giusto Piero Jacchia, il professor Ruggero Conforto e altri curano la parte organizzativa e politica del movimento, mentre nelle strade si distinguono ex militari e Arditi (in gran parte aderenti al Battaglione “Volontari Giuliani”) destinati a restare sconosciuti, anche se con un passato combattentistico di tutto rispetto, come Oreste Babuder, volontario irredento da Capodistria (e perciò noto come “Oreste Rozzo”), quattro medaglie d’argento e una di bronzo.
In tutti questi uomini, e soprattutto in quelli provenienti dalle terre che fecero parte dell’Impero Austro-ungarico e ancora non sono state restituite all’Italia, il sentimento antislavo è predominante, a testimonianza di antichi retaggi che si trasmettono di generazione in generazione.
Anche quando, al finire della seconda guerra mondiale, alcuni di essi faranno una scelta di campo antifascista, esso resterà evidente e predominante.
Questa la testimonianza, per esempio, riferita alla primavera del 1945, di Bruno Coceani, Capo della provincia:
Urgeva, dinanzi la prospettiva di una feroce conquista slava, chiamare a raccolta gli italiani. Non mi sottrassi a nessuno sforzo per menare a concordia pensieri ed animi.
Chiamai Oreste Rozzo, uno dei più decorati volontari della guerra di redenzione, amico fraterno di Ercole Miani. Trovo queste note nel mio diario, al 30 marzo:
“Colloquio con Rozzo: tutte le forze devono marciare parallele per schierarsi contro l’invasione slava. E’ questo il nostro fronte. Ogni giorno più si accentua il collasso della Germania. Scompare il pericolo di un’annessione al Reich. Bisogna che il Comitato di Liberazione, schiavo degli ordini di Milano, rettifichi la sua azione, subordinandola alla suprema necessità della difesa dei confini. Si rompano le punte delle fazioni. Prima l’Italia. Poi i Partiti. In nome dell’Italia chiedo una tregua di Dio” (5)
Le strade cittadine sono sempre più frequentemente percorse da cortei di giovani in camicia nera che somministrano “schiaffi e pedate” a chi non si scopre al passaggio del tricolore, con esiti che non vanno, comunque, esagerati:
Ovviamente, la violenza conseguiva notevoli risultati. I timidi e gli incerti aderivano, gli oppositori cedevano. Persuadeva, tra gli altri, coloro che, senza voler andare più a fondo nella questione, anelavano al ristabilimento dell’ordine pubblico.
Ma la violenza ed il tacito appoggio che essa riceveva dalle Autorità non bastano da sole a giustificare il successo dei fascisti. Lo si comprende meglio se si considera la organica debolezza dei suoi oppositori, del movimento operaio e della minoranza slovena in primo luogo. (6)
Giustificazione che un po’ si arrampica sugli specchi, perché trascura l’essenziale elemento che il Fascio, nello stesso periodo, fa anche politica, aprendosi alla società civile. Dà così vita ad un “Comitato pro Fiume”, al quale aderiscono anche i non mussoliniani, si propone, con la collaborazione di comuni cittadini, come “città-ponte” per i volontari in transito, intensifica la propaganda, e procede con l’invio di soccorsi alimentari raccolti tra i volenterosi.
Appena una settimana dopo l’ingresso del Poeta, Giovanni Giuriati indirizzerà al delegato del Fascio per Fiume, l’avvocato Piero Pieri, una lettera nella quale riconoscerà proprio il triplice ruolo della città di San Giusto, ed inviterà ad una pausa di riflessione per ciò che concerne l’invio di volontari:
Bisogna trattenere volontari e rimandarli indietro, perché la soverchia affluenza di uomini potrebbe danneggiare la nostra causa. Si può fare eccezione solamente per quelle persone che risultino utili alla nostra causa.
E’ necessario impiegare il maggior numero di persone nella propaganda in Paese e fra le truppe; oggi bisogna agitare e far sì che la Nazione tutta senta l’ora storica che attraversa. Il gesto compiuto a Fiume deve avere termine a Roma.
Ringrazio vivamente per il piroscafo di viveri arrivato ieri sera.
Saluti cordiali. Diffondete e fate diffondere le nostre notizie. (7)
Sicuramente “utili alla causa” sono elementi come i già citati Miani, Rozzo e Beltrani, che lasciano la città, insieme ad un nutrito gruppo di Arditi e volontari.
Chi resta combina l’attività a favore dell’impresa, con la politica di ogni giorno, che, per il movimento fascista, in questo settembre del 1919 vuol dire soprattutto organizzare la partecipazione al primo Congresso che si terrà a Firenze ad ottobre, dal quale tutti si aspettano un segnale di ripresa dopo la stasi che dura dall’inizio dell’anno.
Il legame col centro di Milano è ormai saldo e forte. Il fascismo triestino disciplinatamente si inquadra, con gli altri, nelle file mussoliniane, e orgogliosamente canta, per le strade:
“Se non ci conoscete / sentite o triestini / noi siamo gli squadristi / di Benito Mussolini
Se non ci conoscete / guardateci la veste / noi siamo gli squadristi / del Fascio di Trieste”
NOTE
- Tiberio, Il fascismo a Trieste negli anni 1919-23, Udine sid, pag. 5
- Dario Mattiussi, Il Partito Nazionale Fascista a Trieste, uomini e organizzazione del potere 1919-1932, Trieste 2002, pag. 1
- Costanzo Ranci, Piume al vento, Milano 1922, pag.
- Dario Mattiussi, cit. pag. 11
- Bruno Coceani, Mussolini, Hitler, Tito, alle porte orientali d’Italia, Gorizia 2002, pag. 320
- Elio Apih, Avvento del fascismo a Trieste, Udine sid, pag. 21
- Miche Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia dalle origini alla marcia su Roma, Trieste 1932, pag. 6
Foto 3: Squadristi triestini
Foto 4: Squadristi sfilano per la città