Iniziata l’avventura fiumana, Trieste funge, da subito, da centro di raccolta e smistamento dei volontari. Molti dei primi fascisti partono per la città adriatica, dove si metteranno in bella evidenza, mentre crescono le simpatie intorno al movimento. I tempi sono maturi, manca l’uomo… finchè non arriverà Francesco Giunta.
Il 20 settembre, sui muri della città appare, firmato dal Fascio, un manifesto che vale la pena riproporre per intero:
Cittadini ! Trieste sperava di celebrare degnamente la festa del 20 settembre, alla luce della libertà e della vittoria, dopo che per decenni il sacro anniversario era stato festeggiato pur nell’intimità dei focolari, nel silenzio dei cuori.
Senonchè, l’ora che volge non consente tripudi. Chi sia veramente italiano, non può far festa, mentre per opera di nemici si tenta di dilaniare la Patria, mentre per debolezza di governanti la si vilipende.
Se tutto possiamo aspettarci dalla rapacità straniera, nessuna umiltà dobbiamo tollerare in chi ci rappresenta. Non siamo né così miseri, né così servi da barattare con chicchessia la perfetta unità della Nazione! Di fronte a certe imposizioni non è argomento che convinca: semplicemente non ci pieghiamo!
La fatica e l’insonnia, il freddo e la fame, la morte istessa parvero forse intollerabili a coloro che avevano l’ordine di difendere, a qualunque costo, un vallo, una vetta, un argine, un piccolo tratto, insomma, della Patria? E dovremmo noi, sotto minacce ben meno terribili, adattarci ad insopportabili rinunce?
Si pretende che rinunciamo all’unificazione dell’Italia!
Ebbene, il popolo italiano a tale sopraffazione non si piega, convinto del suo diritto sacrosanto, e sicuro di saper sopportare, come ha già sopportato, qualunque sacrificio. Lo rammenti chi ci governa, e ci governi con dignità!
Viva Fiume italiana! Viva Gabriele d’Annunzio! (1)
Manifesto nel quale, come si vede, non vi è alcun accenno alle divisioni interne tra Partiti, ma che, anzi, sembra voler lanciare un ponte tra antichi avversari, in nome della unità della Nazione.
E’ un linguaggio che piace alla cittadinanza di questa terra di frontiera, e che fa aumentare le adesioni al Fascio, fino a consentirgli di poter contare su un migliaio di iscritti agli inizi di ottobre, quando, in adunanza, si deve decidere il contributo da dare al Congresso di Firenze.
Il documento approvato stabilisce alcuni punti di carattere essenziale:
- etnografia e confini geografici coincidenti con quelli strategici;
- Adriatico come sbocco dell’Europa Centrale, in concorrenza con il Mare del Nord;
- creazione della ferrovia Venezia-Trieste;
- necessità di sostenere l’impresa dannunziana;
- annessione pura e semplice della città di Fiume, compreso il porto e la rete ferroviaria.
La partecipazione della rappresentanza triestina assume, per i congressisti e per tutto il movimento, un significato particolare, tanto da meritarsi una esplicita citazione (un po’ “forzata” nei numeri) nell’articolo de “Il Popolo d’Italia” del 7 ottobre:
Ci sono dei Fasci che, come quello di Trieste, superano i duemila soci. Ma noi non facciamo questione di numero. I fascisti sono, in genere, gente di fegato, e lo hanno dimostrato in diverse e svariate occasioni.
Non importa se ci chiamano “bande di ventura” e se il Governo, come da recenti circolari riservatissime, è deciso a combatterci: l’essenziale è che siamo vivi e presenti, e non è facile per nessuno sbarazzarsi di noi.
Aggiungete che i fascisti sono quasi tutti combattenti e che dispongono di un quotidiano di grande tiratura, e di alcuni vivaci, ben fatti, settimanali. (2)
Anche Pasella, nella sua relazione al Congresso, citerà Trieste, insieme a Milano, Torino e Roma, come “centro di attività meravigliosa”, ricevendo il caloroso applauso della sala.
Hanno, insomma, i triestini, ben motivo di essere soddisfatti per questa loro presenza. Ma è altro il motivo che renderà la loro partecipazione foriera di risultati al momento imprevedibili:
Nel congresso di Firenze, i delegati triestini avevano avuto modo di ammirare uno dei congressisti che particolarmente era emerso per la robustezza della sua dialettica oratoria e per la generosità del suo animo di entusiasta: l’avvocato Francesco Giunta, fondatore e presidente dell’Associazione dei Combattenti in Firenze, fascista ardentissimo delle prime giornate. Si pensò a lui come alla persona che sola sarebbe stata capace, per le sue varie virtù di combattente e di uomo di pensiero e di azione, dallo spirito alacre, vigoroso e deciso, di poter comandare il Fascio triestino e condurlo, con sicurezza e senza soste, a quella efficienza e potenza combattiva che il particolare momento storico della Venezia Giulia reclamava come necessaria. (3)
Giunta, volontario e Capitano dei Granatieri al fronte, è un altro di quegli specialissimi temperamenti forgiati dalla guerra, che nel clima del dopoguerra trovano modo di emergere. Non c’è da stupirsi del fatto che abbia fatto impressione sui triestini a Firenze.
Qualche mese prima a Roma, in occasione del primo Congresso dell’Associazione Nazionale Combattenti, a rimanere colpito era stato un giovanissimo studente, che, ancora molti anni dopo, ricorderà la sua sdegnata reazione ad un Mussolini che si lamentava della scarsa attenzione dei trinceristi verso il suo movimento:
A questo rimprovero, sia pure espresso con una forma velata, replicò immediatamente un lungo, smilzo Tenente dei Granatieri, con gli occhi grifagni e il naso adunco; un vero fiorentino, nel profilo e nel linguaggio. Chiaro, incisivo, la sua oratoria era spontanea, efficacissima:
“Non è vero, Benito Mussolini – egli disse – non è vero che i combattenti abbiano dimenticato “Il Popolo d’Italia” che, per più di tre anni, fu la loro bandiera nelle trincee dallo Stelvio al mare”.
Mussolini si alzò per stringere la mano all’Ufficiale dei Granatieri in divisa con una fila di distintivi azzurri sul petto; quell’Ufficiale era Francesco Giunta. Fu lì, alla sala della Tor de’ Conti che Benito Mussolini e Francesco Giunta si conobbero. (4)
“Un vero fiorentino”, dunque, di svelta parola, senza timori riverenziali verso ognuno, e fieramente “di parte”, come riconoscerà egli stesso: “Sono stato fascista e uno squadrista convinto. Non lo rinnego. Io ho creduto di servire il mio paese e l’ho fatto con il massimo disinteresse. Si è detto che sono stato fazioso. Anche Gesù Cristo è stato fazioso per i farisei. Ma io l’ho fatto per la mia fede e non l’ho mai rinnegato”.
Già messosi in luce nelle prime azioni del proto-squadrismo del capoluogo toscano, vincerà facilmente, nell’aprile del 1920 la “concorrenza” di Enzo Ferrari, al quale la Direzione dei Fasci aveva un primo tempo pensato come fiduciario da inviare a Trieste per rinvigorire il locale movimento.
A suo favore giocherà la spregiudicatezza nell’azione di piazza e la capacità organizzativa di tipo “militare”. Due doti che, a partire dall’episodio del 13 luglio, con l’incendio del Balkan, si riveleranno decisive.
Per ora, comunque, i triestini fanno da soli. L’8 novembre, in una adunata convocata ad hoc, il Fascio chiede l’immediata annessione di Fiume e la connessa soluzione dei problemi ancora aperti, per la irriconoscenza degli Alleati di ieri, dalle ambigue formule a base della partecipazione italiana alla guerra.
Nuova riunione ad un mese di distanza, l’8 dicembre, con una dichiarazione che viene spedita ai membri del Governo, a tutti i Deputati, ai senatori, alle Autorità della Provincia e dei Comuni. In questo caso, ad essere prese di mira sono “le aggressioni selvagge di combattenti e patrioti avvenute in alcune città d’Italia”, per le quali si chiede la severa punizione dei responsabili.
Particolarmente significativa è la chiusa, proprio nei giorni nei quali a Torino viene barbaramente ucciso Pierino Delpiano e da tutte le parti si chiede vendetta:
Di fronte a così tristi avvenimenti, l’Assemblea, pur ripetendo di essere contrario ai propri principi l’uso della violenza nelle competizioni politiche e sociali, afferma indispensabile respingere la violenza colla violenza, ogni qual volta venga meno quella difesa di cui lo Stato è investito. (5)
E’ tempo di elezioni, e, anche se a Trieste non si vota, per non risolti problemi di carattere amministrativo-burocratico, il Fascio si presenta, in volantini e manifesti, in una veste rinnovata, col simbolo del Littorio, che alla base reca la scritta “Vita hominis militia”.
Se forse l’adozione del fascio non è un’assoluta novità, per la scritta si può parlare di originalità e primogenitura della città di San Giusto.
Così come originale è una forma di collaborazione che si instaura tra Fiume e Trieste. Qui d’Annunzio non manda, come farà per Milano, nuclei di Arditi a sostegno di una campagna elettorale che i sovversivi vogliono rendere impossibile, ma, quando occorre e richiesto, interviene in altro modo.
Nelle giornate di agitazione e sciopero, alcuni Legionari, non triestini, e quindi non conosciuti da nessuno, raggiungono la città, e, dimessamente vestiti, con vistosi fazzoletti rossi al collo e garofani all’occhiello, si accodano ai cortei e ne sorvegliano discretamente l’andamento, pronti a dare l’allarme se la direzione presa e la presenza di armi lasciano intendere propositi di sollevazione.
Trieste ha, per d’Annunzio, un’importanza fondamentale, al punto di spingerlo a mandare suoi delegati in città per organizzare il primo atto di una futura marcia all’interno:
Miani e Mazzuccato erano stati urgentemente inviati a Trieste da d’Annunzio per prendere contatti con l’ambiente nazionalista e promuovere la prima sommossa, ma erano rientrati a Fiume senza aver potuto organizzare nulla. E le motivazioni erano chiare, come ebbe a ripetere, in una lettera al Comandante del 28 settembre Piero Pieri, delegato del Fascio di Combattimento triestino e Presidente del Comitato pro Fiume. (6)
Quali siano queste motivazioni è presto detto: il formidabile ostacolo rappresentato da una massa bolscevica forte di 30.000 aderenti in città, e da una comunità slava non doma, che complotta per l’annessione, cui corrisponde un Fascio “appena nel suo periodo di organizzazione”.
Giusta prudenza, forse suggerita anche dalle valutazioni più propriamente politiche che lo stesso Mussolini fa –e continuerà a fare- sulle possibilità di riuscita di una “marcia verso l’interno”.
La testimonianza di Giunta è indiscutibile:
Di ritorno da Fiume, sostava volentieri nella saletta del nostro fascio, dove c’era anche la redazione de “Il Popolo di Trieste”, e ci palesava brevemente il suo punto di vista:
”Da Fiume si vede la cosa in modo ben diverso da come la vedo io da Milano, ed ho il dovere di dirlo, per non creare illusioni
[…]
Se d’Annunzio si muove, chi resta a Fiume? E’ ammesso che si possa tenere Fiume e muoversi nello stesso tempo?
E’ escluso che si possa operare uno sbarco ad Ancona: la flotta ci bloccherebbe in mare.
Vi do per sicuro il successo fino al Tagliamento, con l’aiuto armato degli squadristi giuliani e con l’adesione di qualche Reparto dell’Esercito, ma poi saremmo bloccati da un improvviso sciopero generale che ci impedirebbe di fare un passo avanti: perché i socialisti e la Confederazione del lavoro farebbero il gioco del Governo. (7)
Ci vorrà almeno un anno perché il quadro generale muti, ma a Trieste basteranno pochi mesi. Il segnale sarà, come era già successo ad agosto, l’assalto al Balkan, odiatissimo covo slavista. Se la prima volta l’iniziativa fascista, pur coronata dal successo, non aveva avuto svolgimento veramente drammatico e conseguenze irreparabili, il 13 luglio del 1920 le cose andranno diversamente.
Ne accenno qui brevemente, perché il confronto dà veramente l’idea di come la situazione in città sia mutata, a premessa ed anticipazione di un più generale cambiamento che, a partire dai fatti di palazzo d’Accursio a Bologna, il 21 novembre del 1920, riguarderà tutta l’Italia e ne cambierà la storia.
L’11 luglio, a Spalato, nel corso di violenti incidenti con la popolazione locale, vengono uccisi un Ufficiale e un marinaio italiano. Per protesta, il Fascio di Trieste, che è particolarmente sensibile a tutto ciò che avviene nelle terre del confine orientale, organizza, per il pomeriggio del giorno 13, un comizio in piazza dell’Unità, durante il quale è pugnalato a morte da comunisti slavi un italiano, simpatizzante fascista, il cuoco Giovanni Nini.
Immediata la reazione dei compagni di fede dell’ucciso, che attaccano la sede cittadina delle organizzazioni slave, l’elegante edificio della “Narodni Dom” che, posto al centro della città, ospita l’hotel Balkan, e varie associazioni nazionaliste slave, quasi a rappresentare fisicamente il simbolo dell’avanzata slava su Trieste.
Tre colonne fasciste, da diverse provenienze, via Roma, via S. Spiridione, via Dante, seguite dalla gran massa della popolazione triestina, giunte in piazza Oberdan circondano, minacciose, l’edificio.
Come scriveranno le Autorità: “Tutto si sarebbe probabilmente ridotto ad una manifestazione ostile, quando ad un tratto, da una finestra del Balkan fu gettata una grossa bomba, ferendo gravemente alcuni dimostranti”.
Vari feriti restano sul terreno, e tra essi, particolarmente grave, il Tenente Luigi Casciana, mentre subito dopo viene aperto il fuoco da parte degli occupanti, che si difendono dall’interno, con fucilate e altri lanci di bombe.
Andamento singolarmente analogo a quello dell’incendio dell’Avanti del 15 aprile dell’anno prima a Milano. Lì era stato il colpo di pistola esploso dall’interno che uccide il militare di guardia Speroni a provocare la furia dei dimostranti, qui è la bomba lanciata dall’alto e la susseguente fucileria.
E’ proprio per la vivacità di tale fucileria, che può fare molte altre vittime, tra una folla sostanzialmente allo scoperto, che dalla vicina caserma di via Oberdan deve intervenire la truppa con le mitragliatrici. Solo così si riesce ad aver ragione degli assediati.
Lo scontro a fuoco dura, ininterrottamente, per oltre venti minuti, dopo di che, con una ritualità destinata diventare abituale (già sperimentata anche questa nell’assalto all’Avanti), viene dato fuoco all’edificio. Prima i fascisti si accertano che all’interno non ci sia più nessuno (i difensori sono fuggiti per i tetti) e poi appiccano il fuoco, utilizzando latte di benzina fortunosamente recuperate da Carlo Lupertina. Le fiamme irradieranno i loro bagliori sulla città per diversi giorni, alimentate probabilmente anche dagli esplosivi ancora all’interno dello stabile, e senza che sia consentito ai vigili del fuoco di intervenire.
Al termine della giornata si conta un ferito grave (morirà qualche giorno dopo), e cioè il Tenente Casciana del quale si è detto e un civile, tale Hugen Roblek che, spaventato dalle fiamme, si è gettato nel vuoto dall’edificio con in braccio la figlia, che fortunatamente resta incolume.
E’ la prima prova importante per le neo-costituite squadre d’azione, formate costituite ufficialmente, a metà maggio, e che fanno loro il motto coniato da D’Annunzio per il gagliardetto di un Reparto di mitraglieri legionari a Fiume: “me ne frego”.
L’ufficializzazione è avvenuta il 12 maggio, in occasione dell’assemblea generale del Fascio triestino. Ogni squadra è formata da 30 a 50 elementi, è guidata da un ex Ufficiale ed ha assegnata la sorveglianza e la difesa di una zona della città, che è stata divisa in distretti, con criteri militari. L’armamento individuale è il più vario, dal bastone alla sciabola, dalla pistola alla bomba a mano. Nelle occasioni di mobilitazione, la riunione è fissata nelle palestre di alcune scuole cittadine, da dove poi gli squadristi muoveranno sugli obiettivi assegnati.
La suggestione dell’esperienza bellica è forte all’interno delle squadre. Vengono, infatti, prese precauzioni sussidiarie, come l’uso di un codice speciale per comunicare, e l’adozione di una parola d’ordine che varia di mese in mese. Anche la tessera del Fascio, per evitare contraffazioni ed infiltrazioni, è contrassegnata sul retro con una stella a cinque punte, non riproducibile.
L’importanza dell’episodio del 13 luglio è rilevantissima, tanto da farlo giudicare “vero battesimo dello squadrismo organizzato”; nei fatti, esso ripropone, a più di un anno di distanza da quel fatidico 15 aprile, la validità e l’efficacia risolutiva di un’azione diretta contro i sovversivi che, a Trieste, sono anche “stranieri”.
La distruzione del Balkan, peraltro, dimostra ancora una volta che gli unici in grado di contrastare e sconfiggere i sovversivi e i nemici dell’Italia, sullo stesso terreno sul quale essi sono stati fino adesso incontrastati dominatori, quello della violenza di piazza, sono i fascisti. Prende corpo così il mito dell’invincibilità fascista (non più necessariamente “ardita”), al quale fa da contrappunto il declino dell’altra assoluta convinzione postbellica, quella dell’invincibilità e dell’imbattibilità socialista.
Mussolini, sul Popolo d’Italia parla di “capolavoro del fascismo triestino”, e veramente, le fiamme del Balkan danno una boccata di ossigeno ed un anelito di speranza per un ambiente che, nel resto d’Italia, è compresso e da troppo tempo sulla difensiva.
Il suo riconoscimento sarà ancora più esplicito a settembre, quando al Politeama Rossetti, egli affermerà, tra il tripudio degli astanti: “Io non vi considero, triestini, degli italiani… io vi considero come i migliori tra gli italiani”.
NOTE
- Michele Risolo, cit., pag. 3
- Panorami di realizzazioni del fascismo, Roma 1942, vol. III-1, pag. 126
- Michele Risolo, cit., pag. 13
- Alfredo Signoretti, Come diventai fascista, Roma 1967, pag. 61
- Miche Risolo, cit., pag. 9
- Pietro Cappellari, Fiume trincea d’Italia, Roma 2019, pag. 281
- Francesco Giunta, Un po’ di fascismo, Milano 1935, pag. 63
Foto 5: Francesco Giunta
Foto 6: L’incendio del Balkan