In questo torrido luglio in cui le notizie arrivano attutite, assopite anch’esse tra afa e temperatura, due intellettuali novantenni hanno lasciato la vita. Luciano De Crescenzo avrebbe compiuto 91 anni tra un mese, Andrea Camilleri viaggiava verso i 94. Uno, De Crescenzo, si era allontanato dai riflettori già da qualche anno, l’altro ha conosciuto la celebrità in vecchiaia grazie ai gialli sul commissario Montalbano divenuti trionfo televisivo, ammalandosi mentre preparava una performance teatrale nei panni del mitico Tiresia, l’indovino cieco della tradizione greca.
Il rispetto per il mistero della morte, unito all’età grave di entrambi, impone parole di circostanza, pronunciate a bassa voce, mezzi toni che contrastano con il rumoroso cordoglio che ha accompagnato la dipartita di entrambi, specialmente quella di Camilleri. Una volta ancora, la fine di un esponente della sinistra è stata accompagnata dalla sopravvalutazione della sua figura e della sua opera. Lo confessiamo: siamo tra i rari italiani a cui non piace il commissario Montalbano, infastiditi dall’ingombrante presenza del suo autore, che per anni ha accompagnato le serie televisive con le auto recensioni, una sorta di esegesi o interpretazione autentica di Montalbano ad uso dei telespettatori. Apparteniamo invece alla schiera degli ammiratori incondizionati di Luciano De Crescenzo, lo straordinario ingegnere, filosofo, scrittore, divulgatore culturale, personaggio televisivo, attore e tanto altro ancora.
L’omaggio a Camilleri ci è parso esagerato, scomposto, animato dalla consueta autoreferenzialità del milieu culturale italiano, rafforzato per l’occasione da ampi settori della politica e delle istituzioni. Il cordoglio, diciamolo senza infingimenti, ha riguardato soprattutto le idee politiche di Camilleri. Iscritto al Partito Comunista fin da giovane, ma non certo discriminato dalla televisione democristiana in cui lavorò per decenni come autore e sceneggiatore, era il perfetto rappresentante dell’intellettuale organico italiano che ha attraversato l’interminabile dopoguerra. Sinistrissimo, nemico giurato di Berlusconi prima, di Salvini ultimamente ( in una delle ultime dichiarazioni pubbliche affermò che il leghista lo faceva vomitare) , ateo, tanto che è stato sepolto nel cimitero acattolico di Roma, negli ultimi anni appariva come una sorta di vate, un grillo parlante vetero comunista, davvero un’imitazione di Tiresia, in grado di discettare come l’oracolo di Delfi sull’universo mondo, favorito nell’impresa dalla voce profonda, dalla cadenza siciliana arrochita per il fumo e da quella presenza scenica forte, indiscutibile, che riempiva lo schermo.
Eppure, al di là della santificazione della sua parte politica, egemone culturalmente nonostante decenni di sconfitte, non ci sembra un grande. Il personaggio che gli ha dato notorietà e quattrini (si può almeno sfiorare l’argomento, parlando di un monumento, un venerato maestro della sinistra?) non è poi granché. La forza di Montalbano non sta nelle trame, che in televisione appaiono lente e lunghe, né nelle fulminee intuizioni di poliziotto. E’ un misto, un’alchimia tra la prodigiosa prestazione di Luca Zingaretti, l’attore che lo ha impersonato fino a diventare lui steso Salvo Montalbano e la rappresentazione di una Sicilia oleografica, inventata, a partire dal linguaggio e dai nomi delle città. Grande è stata la capacità degli sceneggiatori di scegliere scorci straordinari dell’isola, un mix di Ragusa Ibla, Modica, Scicli, Scoglitti e il suo mare, per ricreare e restituire al pubblico la luce accecante e insieme le penombre di una terra senza mezze stagioni.
In più, alcuni personaggi sono apparsi in televisione ben diversi da come il Camilleri scrittore li aveva descritti nei libri: il povero poliziotto Catarella ridotto a macchietta pressoché analfabeta tra strafalcioni e testate nella porta dell’ufficio dell’ammiratissimo Montalbano, il vice commissario Augello ridotto a erotomane belloccio, onesto e un po’ tardo. La genialità dei registi, dello stesso Camilleri, esperto uomo di comunicazione televisiva, è stata trovare maschere di contorno che hanno conquistato il pubblico, come il medico legale magistralmente disegnato dall’attore Marcello Perracchio, anch’egli defunto. Almeno due espressioni sono diventate tormentoni popolari, l’immancabile “Montalbano sono”, e l’intercalare seccato del medico Pasquano, “non mi rompa i cabbasisi”, il nome dialettale di ascendenza araba di certe bacche dai frutti ovoidali. Camilleri è stato l’inventore di una lingua che non c’è, un grammelot dialettale siciliano molto televisivo, immaginifico, splendidamente padroneggiato da Zingaretti e dagli altri attori. Lo scrittore è stato assai inferiore al Camilleri esperto televisivo. Resta però il fastidio per il retrogusto orientato politicamente di tutti gli episodi, tutto il bene da un lato, ogni male dall’altro, la simpatia mai celata per gli stranieri immigrati, il furore moralistico contro la parte politica avversa, dipinta in un continuum di corruzione, malvagità e depravazione. Un manicheismo che adesso, post mortem, ci appare meno negativo, ma che ha appesantito le dichiarazioni dell’uomo e le prestazioni dello scrittore. L’interessato cordoglio “politico” non ha nascosto il rimpianto per l’uomo di parte, più che per l’artista.
Chi avrebbe meritato gli onori riservati a Camilleri è il suo quasi coetaneo De Crescenzo, sintesi perfetta della migliore intellettualità napoletana, unita al respiro universale e alla leggerezza sorridente dei grandi. La sua biografia è di per sé un romanzo: figlio della borghesia partenopea, scelse di studiare ingegneria anziché l’amata filosofia per seguire una ragazza. Si innamorò dell’intelligenza di un grande matematico (il fascino del pensiero astratto!) e fece un’ottima carriera alla IBM. Poi, attraverso Renzo Arbore, geniale scopritore di talenti, approdò alla televisione, quindi alla letteratura e alla saggistica “alta”. Divulgatore di rara sensibilità, disse di sé: “credo di essere una di quelle scalette con soli tre gradini, che si trovano nelle biblioteche e che consentono di prendere i libri dagli scaffali che stanno più in alto.” Sapeva di non sapere, come Socrate, prendeva la distanze anche da se stesso e riusciva a rendere lieve ogni argomento senza ridurlo a caricatura superficiale. L’amore per la Grecia classica, madre della filosofia, ha reso arte il suo talento di divulgatore capace di coniugare alta cultura, vette del pensiero e levità.
Autore di successo internazionale, ha venduto 18 milioni di copie dei suoi libri, tradotti in diciannove lingue. Esordì con un delizioso romanzo-saggio, poi divenuto film di successo interpretato e diretto da lui stesso, Così parlò Bellavista, la storia, velatamente autobiografica, di un saggio professore napoletano e dei suoi ammirati allievi. Vendette in pochi mesi 600 mila copie in Italia ed è un autentico pezzo di bravura l’apologo di Bellavista sugli uomini d’amore e gli uomini di libertà. La sua passione per l’antichità greca e la filosofia classica lo portò a scrivere saggi di profondo valore, in cui una vasta cultura si unisce alla capacità di spiegare con semplicità, ma mai banalmente, le asperità del pensiero. La sua ricognizione storica del pensiero occidentale, una tetralogia che si ferma a Kant, non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi ama la cultura.
Aldo Grasso, il più noto critico televisivo italiano, ha scritto un breve, ma intenso corsivo in ricordo di De Crescenzo, ricordando la sua diffidenza per i grandi ascolti – la tirannia dell’audience, che chiamava odiens, causa dell’abbassamento della qualità di tutti i programmi televisivi. La tv, per andare incontro al gusto delle masse abbassa il proprio gusto fino a farlo coincidere con quello della parte più bassa del pubblico. Distaccato come ogni napoletano colto che si rispetti, De Crescenzo non credeva alla maggioranza, fino a domandarsi con ironia: se la maggioranza è stupida, come fa una nazione a vantarsi di essere democratica?
Amante del buon vivere, lo immaginiamo tra gli amici impegnato in conversari nei quali sapeva alternare i temi più elevati e gli argomenti leggeri. Non ha mai fatto pesare la sua evidente superiorità culturale; intento a scrivere di filosofia ma anche a ridere di gusto con Arbore e Marisa Laurito. La sua morte è stata accompagnata dall’umorismo napoletano: ha disposto per la cerimonia un orario che non disturbasse i concittadini. Si definiva ateo cristiano, più probabilmente era un uomo alla ricerca dell’assoluto. Il funerale è stato celebrato in chiesa, nel quartiere nativo di Santa Lucia, in omaggio alle radici e all’identità che lo ha accompagnato per tutta la vita. L’applauso che lo ha condotto all’ultima dimora è segno di affetto e ammirazione: un italiano universale radicato nella cultura in cui si formò, un’intelligenza in grado di spaziare in campi tanto diversi come l’ingegneria, la matematica e la filosofia, sempre con il sorriso sulle labbra, lo sguardo un po’ beffardo di chi conosce la vanità delle cose umane. Ci piace immaginarlo adesso in compagnia di Giambattista Vico, altro napoletano universale, il grande filosofo che scrisse la Scienza Nuova in una stanza della sua modesta casa affollata di figli, tra le urla di una prole numerosa. Viene in mente un altro intellettuale meridionale, di formazione accademica, fortunatamente ben vivo, Franco Cassano, teorico del pensiero meridiano, della lentezza mediterranea, della riflessione pacata che non si lascia travolgere dalla folle corsa dei contemporanei.
L’Italia ufficiale ha preferito tributare un omaggio esagerato e politicamente orientato a Andrea Camilleri vulgo Montalbano e lasciare un po’ in disparte uno dei suoi ultimi veri intellettuali. Che la terra sia lieve ad entrambi, ma oltre i gialli, il successo televisivo e l’ideologia, sarà De Crescenzo, il professor Bellavista, l’amoroso custode del pensiero classico, quello che oltrepasserà il tempo. Un addio sincero da un uomo di libertà che apprezza gli uomini d’amore.
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