di Enrico Desii
Hanno già ripreso tranquillamente come prima. O forse non hanno mai smesso. Dopo poco più di un anno dalla vicenda “batman”, un altro consiglio regionale, quello ligure, è salito alla ribalta delle cronache per le indagini della Guardia di finanza nei confronti del suo presidente, originate dall’utilizzazione di fondi pubblici per finalità più che sospette.
Nei confronti di Rosario Monteleone (questo il suo nome) la Procura della repubblica di Genova ha emesso un avviso di garanzia per il reato di peculato. Questi, esponente dell’Udc – ma mai come in queste vicende la provenienza politica non conta assolutamente nulla – dopo qualche incertezza (“Nessun passo indietro”, le sue prime parole dopo che la notizia era stata resa pubblica) e diverse pressioni da parte della sua stessa maggioranza, si è dimesso dalla carica, ricevendo anche i pubblici ringraziamenti del presidente della medesima regione, Claudio Burlando.
Niente di particolarmente originale, si tratta della distrazione di circa 120.000 euro degli stanziamenti previsti dal bilancio per la presidenza del consiglio e per i gruppi politici. Nemmeno in momenti come gli attuali, mentre la gente comincia a fare davvero dei sacrifici ed il numero dei poveri, come dice l’ ISTAT, raddoppia, si riesce a limitarsi. D’altra parte questa è la classe politica che seleziona e prepara, a livello locale, il sistema democratico. Immaginate un po’ cosa possiamo attenderci dall’avvento dei giovani leoni che si agitano in questi giorni per conquistare il potere centrale.
Il direttore del Secolo XIX ha tracciato un quadro a tinte assai fosche di quello che viene definito il “metodo Liguria”[1], sottolineando la pesante ipoteca sul futuro della regione causata da una bancarotta morale e politica che coinvolgerebbe, ecumenicamente, intere classi dirigenti dei partiti, dirigenti pubblici, la Cassa di risparmio di Genova, imprenditori ed ecclesiastici. Sotto a chi tocca.
Non a caso, appaiono assai singolari i contenuti dell’intervento di Monteleone durante la seduta del consiglio durante la quale si è dimesso. Si è andati da “mi hanno colpito vigliaccamente alle spalle immaginando di fare una furbata”, a “me ne vado per la tranquillità vostra, delle istituzioni e della mia famiglia”, a “questa è una cosa che coinvolge tutti”. Speriamo che ai magistrati l’ex presidente del consiglio regionale spieghi meglio questi concetti del “colpire alle spalle” e del “coinvolgimento di tutti” perché, insomma, ci potrebbe anche venire il sospetto che si fosse creato un sistema (che, per qualche dinamica incomprensibile ai più, ha subito un corto circuito) più o meno organizzato di utilizzazione poco consona di quelle e di altre e ben maggiori somme.
Sicuramente questa vicenda si ridimensionerà, la ”fiducia nella magistratura” prontamente proclamata dall’indagato non potrà che portare al chiarimento delle questioni. Si tratterà di qualche irregolarità contabile del singolo consigliere, al massimo di due o tre. A chi non è capitato di perdere uno scontrino o di inserirlo nel fascicolo sbagliato?
Ma, partendo da queste ordinarie miserie, mi pare il caso di fare qualche considerazione di carattere generale. Se non altro perché inchieste di questo genere sono aperte in sedici regioni e risale a pochi giorni fa la notizia che tutti i nove capigruppo del consiglio regionale dell’Emilia-Romagna (pentastellato compreso) sono ugualmente sotto inchiesta per peculato. Attenzione, dunque: non stiamo parlando solo del sud degradato ed in mano alla criminalità.
Sinceramente, mi sfugge il motivo per cui un gruppo consiliare debba godere di uno stanziamento riservato alla sua attività politica. Non basta che gli vengano assegnati appositi uffici, spesso in immobili di pregio, che venga costituita una segreteria composta da nutrite pattuglie di funzionari (le quali, si badi, quasi mai provengono dall’interno dell’ente ma vengono assunte dall’esterno a discrezione del gruppo medesimo, godendo di un trattamento retributivo migliore del resto del personale), non sono sufficienti tutte le dotazioni strumentali possibili. Ci vogliono anche delle somme di denaro, da spendere per indefinite iniziative politiche. Nella migliore delle ipotesi si finanzia indirettamente l’attività del partito o dei singoli esponenti politici che a quel gruppo fanno riferimento. Con i soldi della collettività, naturalmente, mica con quelli che iscritti e simpatizzanti abbiano liberamente deciso di conferire.
E ancora, non si capisce perché questi casi devono emergere solo in conseguenza di inchieste penali. Ma le ragionerie di quelle strutture, prima di liquidare le spese, non controllano la documentazione e non ne verificano la coerenza? Oggi, come sa benissimo chi lavora negli enti pubblici o con gli enti pubblici, a causa di patti di stabilità vari e spending review, è diventato complesso spendere anche quando i soldi ci sono e per svolgere i servizi di competenza. Oltretutto, le spese, già al momento dell’impegno, fase iniziale della procedura, sono sottoposte ad una classificazione rigida ed assai parcellizzata, al fine di controllare in ogni momento l’attività gestionale degli uffici: possibile che le richieste dei gruppi politici, almeno quelle più stravaganti, non incappino mai in riscontri negativi già a livello della verifica amministrativo-contabile e che solo una faida interna faccia saltare l’accordo? Ma allora, quando Monteleone parlava del “coinvolgimento di tutti”, si sarà mica riferito ad una diffusa connivenza anche da parte delle strutture interne dell’ente?
Bisogna, peraltro, ricordare che, dopo la vicende del 2012 (consiglio regionale del Lazio, Regione Lombardia, Lusi, Belsito…) la politica italiana si era prontamente mobilitata per arginare e debellare quelle metastasi. E come? Nel solito modo, quello che mette a posto le coscienze e tacita l’opinione pubblica, vale a dire l’adozione di una bella legge. Anzi, a dire il vero, il legislatore di ispirazione monti-lettiana ne ha elaborate addirittura due, più altre norme sparse qua e là che vi risparmio. Si tratta della legge 6 novembre 2012, n. 190, pomposamente rubricata “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, che, solo per dirne una, prevede l’adozione del piano nazionale anti-corruzione, e del decreto legislativo 14 marzo 3013, n. 33, “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”.
Quest’ultimo decreto in particolare, in ossequio all’infeudamento anche della nostra amministrazione a schemi che non ci apparterrebbero, si ispira ad una normativa americana del 1966, il Freedom of information act, prevedendo la pubblicazione sui siti internet istituzionali (in una sezione denominata “amministrazione trasparente”) di un diluvio di atti e notizie che riguardano l’attività generale dell’ente e le questioni personali e patrimoniali di funzionari ed appartenenti agli organi politici. La finalità sarebbe quella di raggiungere una totale trasparenza che favorisca il controllo da parte dei cittadini sull’amministrazione. Questi, invece di prendere tutti a calci nel sedere, dovrebbero trascorrere il loro tempo libero su internet in mezzo a quel caos, a consultare bilanci, programmi, contratti e provvedimenti di ogni genere. E poi dovrebbero segnalare a chi di dovere la mela marcia che, magari, è proprio quella che, pochi mesi prima, hanno votato e che gli ha promesso qualche favore. Mah…
E poi, non è sotto gli occhi di tutti come negli States tali disposizioni funzionino a dovere? Tanto vale adottarle anche da noi.
Il sistema, in sostanza, tenta semplicemente di prolungare la sua permanenza in vita riformandosi, cercando di fare vedere quanto siamo bravi e democratici ed in linea con gli standard dei paesi evoluti. Se qualcuno più fesso o più sfortunato ogni tanto viene massacrato, fa parte del gioco.
Ma, nonostante l’impegno normativo profuso, si tratta di un auto-accanimento terapeutico. Tutto è calcolato per conservare finché possibile un meccanismo che, oltre che assecondare i lati peggiori del carattere umano, si è dimostrato palesemente inadatto a selezionare rappresentanti politici o funzionari pubblici preparati ed onesti che abbiano come punto di riferimento esclusivamente l’interesse della nazione ed il bene della collettività che quella costituisce. La vera riforma sarebbe, naturalmente, chiedersi se ci sono alternative alla passiva partecipazione a questa tragica farsa.
Manca ancora il libro di successo scritto da qualche giornalista su questi ultimi episodi di sprechi nella pubblica amministrazione, in modo da suscitare il giusto sdegno dell’opinione pubblica e potersi emendare tutti. Vedrete che non tarderà ad uscire. Poi si potrà continuare a rubare, nonostante la trasparenza.
[1] L’articolo, di Umberto La Rocca , può essere letto all’indirizzo http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2013/10/27/AQwhpzm-soffoca_metodo_liguria.shtml.