Un racconto breve di Giacinto Reale
Dopo una decina di giorni, si svolse la prova generale richiesta da Guido. Giovanni aveva organizzato le cose per bene: trovati in un negozio di attrezzature teatrali vestiti femminili e parrucche, messa al lavoro una squadra di fabbri e carpentieri per costruire merli, torri e finanche un ponte levatoio, tutto era pronto.
La mattina designata, Guido volle partecipare all’assalto, e si mischiò ai giovani pronti a scattare, che, al suo apparire esplosero in grida di “eja eja alalà” quasi ci fosse veramente da prendere una trincea austriaca. Con lui, come sempre, Achille, che ormai non lo lasciava più, mentre Giovanni, che da quel giorno a ristorante non si era più fatto vivo col giovane Tenente, andava su e giù nervoso, per controllare da dietro, da destra, da sinistra che l’effetto coreografico fosse perfetto.
Tutt’intorno curiosi e divertiti, cittadini di Fiume e personale dei vari Reparti, del Comando, dell’Intendenza, dell’Amministrazione cittadina.
Quando i novelli pirati mossero, si sentirono, in lontananza raffiche di mitragliatrice, mentre il cielo si colorava di fumogeni di vario colore: poi, in accompagnamento alle urla di chi si arrampicava su scale di legno e lanciava corde arpionate in direzione dei merli, si udirono colpi di pistola e fucile, e finanche l’esplosione inconfondibile di qualche Thevenot.
Le “castellane”, a loro volta, si difendevano bene, tra divertiti gridolini molto poco convincenti per la robusta stazza della grande maggioranza: le scale appena appoggiate venivano ributtate giù, e secchiate di acqua, ghiacciata o bollente innaffiavano i più ardimentosi. Guido non potè non pensare che se veramente il giorno della festa la difesa fosse stata di pari efficacia, il suo piano sarebbe andato gambe all’aria. Si portò in prima fila e cominciò a salire agile e svelto su una scala; c’era quasi, quando senti un colpo forte alla spalla sinistra, e cadde all’indietro, sul terreno.
Accorsero immediatamente Achille, Giovanni e gli altri che erano più vicini, mentre il gioco continuava, perché, nella confusione, pochi si erano accorti di ciò che era successo. Sopraggiunse anche un medico militare che era tra gli spettatori; slacciò la giubba e mise a nudo un bel buco, tutto insanguinato, sulla spalla destra. “Un colpo di pistola, non c’è dubbio – disse – fortunatamente il proiettile, penetrato dalla spalla, è uscito sul davanti, e non è stato ritenuto. Comunque, occorre tamponare la ferita, disinfettare e poi benderò tutto. Siete stato fortunato, Keller, qualche centimetro più sotto ed ora non sareste qui ad ascoltarmi”.
Guido sorrise; si sottopose alle cure del medico, e poi, rifiutando la barella, e sorreggendosi al braccio di Achille, tornò al suo alloggio. Era inquieto e non sapeva rispondere alla domanda: un incidente o il tentativo di ucciderlo?
Tra la folla c’erano – li aveva visti distintamente parlottare tra loro, e non gli erano nemmeno sembrati troppo interessati allo spettacolo – i suoi due “sospettati”, Renzi e Sclocovich . Poi, però, quando si era rialzato e guardato intorno, erano scomparsi.
La festa poi non si fece. Era stata programmata per il 21 marzo, ma quando Guido e Giovanni si recarono dal Comandante per ottenerne l’autorizzazione, quello fu brusco e la negò, senza troppe spiegazioni. Ai due amici sembrò chiaro che qualcuno aveva parlato, o forse egli aveva intuito, sentendo fare il nome della Baccara, e sapendo delle perplessità che quella presenza femminile suscitava tra molti dei suoi seguaci.
La vita riprese come sempre. Guido tornò alla sua indagine, con una motivazione personale in più: si era convinto che a sparare era stato uno di quei due: evidentemente cominciavano a sentire il fiato sul collo, avevano individuato in lui il pericolo, e pensavano, togliendolo di torno, di poter salvarsi. E poi, ne era certo, nessun altro lo odiava a quel punto; sì, c’era qualche vittima dei suoi scherzi e burle, talora un po’ pesanti, ma con tutti si riconciliava un attimo dopo, e gli era sempre parso che nessuno gli serbasse rancore.
Un giorno, era al Comando, ricevette la visita di Leone Kochnitzky, il giovane intellettuale belga al quale pure si era legato di bella amicizia. “Tra qualche giorno parto, Guido, volevo avvisarti per primo. Qui le cose non vanno come desideravo. Lo spirito col quale eravamo venuti si sta affievolendo, e non desidero andar via tra qualche mese, certamente deluso. Torno a Firenze, col bel ricordo delle indimenticabili giornate trascorse qui”.
Keller sapeva della situazione; lui, uomo d’azione, che non amava infilarsi in discussioni politiche se ne era tenuto fuori, ma condivideva il senso di ciò che Kochnitzky gli stava dicendo. Se il Comandante non si fosse deciso a dare una sterzata al timone, a tornare allo spirito originario di quella loro avventura, forse anche lui avrebbe cominciato a considerare l’ipotesi di una partenza.
Però, per ora il vecchio amico andava salutato come conveniva. In quattro e quattro otto organizzò, per il sabato successivo, il giorno prima della partenza, una festa a casa sua: pochi amici sinceri e fidati, cibo in quantità, e sarebbero stati tutta la notte a fare uno dei loro giochi preferiti: ognuno doveva inventarsi e raccontare, in massimo quindici minuti, una storia di argomento a libera scelta: amore, avventura, di fantasia, biografica o come altro voleva.
Alla fine della serata, a scrutinio segreto, sarebbe stato eletto il novellatore, e gli sarebbe stato tributato l’omaggio del gruppo. Fino alla prossima festa…
Chiamò subito Achille e lo pregò di organizzare tutto, visto che a lui era impossibile muoversi dal Comando: il giovane Ardito si era convertito alle loro abitudini alimentari, e sapeva cosa fare. Del resto, in casa avevano una buona scorta di roba che – quasi si fossero passati parola – i legionari inviati in giri di ispezione all’interno, portavano in omaggio, conoscendo la sua smodata passione per i prodotti naturali.
E così sabato, alle venti, la minuscola casetta era affollata di gente: oltre a Keller e Achille, c’erano Comisso, Furst, Kochnitzky, Sandro Pozzi, Mario Carli e Ferruccio Vecchi, in quei giorni di passaggio a Fiume: erano tutti ex combattenti, dannunziani e appassionati di scrittura: tra loro si intendevano. Vennero anche tre o quattro giovani Arditi che nemmeno il padrone di casa conosceva, ma che gli erano stati presentati dai loro mentori come futuri adepti della società dello Yoga.
Achille aveva sistemato tappeti e cuscini nell’ampio soggiorno, così che tutti trovarono posto; al centro un paio di tavolini bassi con ogni ben di Dio. La serata poteva cominciare.
Dopo un’estrazione a sorte, cominciò il giro dei racconti, e il primo fu Furst. Se la cavò bene, con una storia – forse autobiografica – ambientata nella natia New York; tutti ascoltarono in silenzio e curiosi. La regola voleva che, mentre uno raccontava, gli altri non mangiassero e stessero attenti. Poi, alla fine, tra un racconto e l’altro c’era una mezz’oretta di intervallo dedicata al cibo ed alle chiacchiere, che, però, non dovevano riguardare quanto ascoltato, per evitare che i singoli giudizi fossero influenzati.
Il secondo cui toccava raccontare era Mario Carli: la sua era una storia dalla quale, disse esordendo, contava di farci un libro; per ora solo un’idea che sottoponeva a un così qualificato uditorio (e non si capiva se scherzasse o dicesse sul serio).
Quando ebbe finito, il chiacchiericcio riprese; qualcuno si alzò, qualcun altro andò sul balconcino a fumare. Ad un tratto, si udì un grido provenire dal cucinotto: Keller e Comisso furono i primi a scattare, e videro, disteso per terra, Achille, immobile, certamente morto.
Il volto aveva uno strano colorito bluastro, che si accentuava ogni minuto che passava: sembrava quasi fosse stato privato di tutto il suo sangue. Sul tavolo, aperto, un boccaccetto contenente miele. Guido lo riconobbe subito: era di un tipo speciale, come gli aveva detto il legionario che glielo aveva portato, sapendo della sua speciale predilezione per quell’alimento.
Gli aveva raccontato che, recatosi in giro di ispezione sulle colline che circondavano la città, per individuare un posto dove piazzare una stazione radiotelegrafica che consentisse di raggiungere – come da ordini di D’annunzio – Albania, Grecia e Turchia, aveva trovato una fattoria che aveva un allevamento di api che garantiva una produzione unica.
Non aveva perso l’occasione, e su suggerimento anche di Comisso, che comandava la squadra, ne aveva fatto una piccola scorta, un pezzo della quale era riservato proprio a Keller, notoriamente amante del nettare.
Infatti, Guido lo aveva assaggiato e ne aveva apprezzato il sapore asprigno, assolutamente diverso da ogni altro tipo di miele, che poteva anche non piacere ai più. Per questo motivo non lo aveva fatto portare in tavola alla riunione degli amici, e lo aveva sconsigliato allo stesso Achille il quale, però, come dimostrava quel cucchiaio caduto sul pavimento, quella sera non aveva saputo resistere.
Pozzi, che aveva assunto quasi il comando delle operazioni, mandò un Ardito a Palazzo; lì c’era sempre un commissario di polizia in servizio. Era l’unico tra i funzionari del precedente Governo, a non essere stato allontanato, per esplicita volontà di D’Annunzio che, nei primi giorni fiumani, aveva avuto modo di apprezzarne la discrezione e la competenza professionale in occasione di un tentativo di ricatto ai suoi danni messo in atto da una occasionale visitatrice della sua alcova.
L’uomo giunse dopo una mezz’oretta: di mezz’età, sobriamente vestito, fumava da un’odorosa pipa. Si presentò rapidamente: “Sono Mario Zandel, commissario di polizia al servizio di Gabriele D’Annunzio, buonasera a tutti” e andò subito in cucina. Guardò il corpo del morto, annusò il barattolo e poi disse: “Credo sia stato avvelenato. Anni fa mi capitò un caso simile a Drenova, e aspetto della vittima e odore del miele erano identici. Stanno arrivando i miei uomini, e farò portare via il cadavere. Domattina, insieme a un medico dell’ospedale che so pratico di questa materia, daremo un’occhiata più accurata e ne sapremo di più”.
Dopo di che si guardò intorno, e si accomodò sull’unica poltrona libera. Con lui rimase Keller, mentre gli altri formarono capannelli in giro per il salone, e il solo Comisso sembrava avere interesse a quello che Zandel diceva.
“Curioso – aggiunse il funzionario, senza che nessuno lo avesse sollecitato a parlare – tutte oggi devono capitare. Da qualche ora ho sguinzagliato uomini per ogni dove alla ricerca di due personaggi, un militare e un civile , in servizio al Comando, che sono misteriosamente spariti. Credo anche voi li conosciate, il Maresciallo Renzi e il dottor Scolcovich. Stamattina alle 10 sono usciti e sono stati fuori un paio d’ore. Poi, al rientro, dopo una mezz’oretta passata in ufficio, sono riusciti, insieme, e di lì a un quarto d’ora erano al posto di blocco di che hanno passato senza problemi, in virtù dei loro documenti.
Da allora non se ne sa più niente.
Il racconto sembrò chiarire molte cose a Keller: certo, era lui che doveva morire. Una fatalità aveva fatto sì che Achille si facesse tentare dall’assaggio di un po’ di miele proprio quella sera. Ma questo nessuno, e tanto meno i due assassini potevano immaginarlo.
Dopo il fallito attentato alla Festa del castello i due ci avevano riprovato, avendo individuato in lui il loro nemico. Durante quella assenza di un paio d’ore erano penetrati in casa (lui lasciava sempre la porta aperta: da rubare non c’era niente, e più di una volta gli era capitato di trovare al rientro qualche vecchio camerata appena arrivato a Fiume, steso a dormire sul suo letto) e avevano avvelenato il miele, tornandosene tranquilli al Comando.
Poi, però, resisi conto che Keller poteva aver comunicato i suoi sospetti a qualcuno, e questo avrebbe fatto di loro i primi indiziati, erano stati presi dal panico ed erano fuggiti, sicuri di trovare oltre confine l’ospitalità e la riconoscenza del Governo italiano.
Fu così che Guido decise di mettere al corrente il Commissario delle sue indagini, mentre intorno a loro si era fatto il capannello di tutti i presenti.
Zandel lo ascoltò con attenzione e poi fece: “Credo abbiate ragione e sia proprio come dite. Tutto si spiega, anche la precipitosa fuga. Domattina per prima cosa farò perquisire i loro uffici, e se c’è qualche indizio, vedrete che salterà fuori.”
Frattanto, erano arrivati gli agenti e il carro funebre. La salma del povero Achille fu portata via, gli amici si accomiatarono a poco a poco, e lo stesso Keller lasciò l’appartamento. Ora non aveva più voglia di restarci. Tornava all’albergo Royal: sperava di ritrovare la sua vecchia stanza.
Si avviò con Comisso. Giunti nei pressi dell’albergo, questi, però, si fermò: “Vai Guido, non ho sonno. Gli avvenimenti di stasera, la morte del nostro povero Achille, mi hanno sconvolto, faccio un giro e poi salgo”, e così dicendo si avviò, a lenti passi, verso il centro cittadino, mentre Keller entrava in albergo.
Quella notte, i legionari di guardia a palazzo videro entrare una figura nota, avvolta nel noto mantello da Ufficiale di Cavalleria. Senza che nessuno lo fermasse, e senza dire niente a nessuno, il visitatore salì su agli uffici del primo piano, e si trattenne un quarto d’ora, per poi ridiscendere, sempre silenzioso e scuro in volto.
La mattina dopo gli scrupolosi uomini del Commissario trovarono, in un tiretto della scrivania del cartografo, una fialetta contenente veleno d’ape.
La notizia fu subito comunicata a Keller e al Comandante: il caso era risolto.