8 Ottobre 2024
Letteratura

Caso e Paura nel Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi – Umberto Petrongari

Racconto d’autunno è un romanzo breve (o un racconto lungo) in cui Tommaso Landolfi si limiterebbe principalmente ad esprimere, ad esporre, il suo pensiero. Nonostante nello scritto siano pressoché certamente presenti influssi poeani di vario tipo, il pensiero di Landolfi tuttavia si discosterebbe da quello espresso da Edgar Allan Poe, e in particolare nella sua intera produzione poetica. L’inoltrarsi del protagonista di Racconto d’autunno (un partigiano piuttosto solitario e dalla non precisata appartenenza politica), dapprima in un ambiente naturale selvaggio e pericoloso, e, successivamente, l’esplorazione da parte di costui di una grande abitazione nobiliare, lugubre al suo interno (così come, del resto, al suo esterno) e non priva di misteri e di incognite, non avrebbe i caratteri suggestivi e ludici propri di un’affascinante avventura.

Ci sarebbe dunque, nel fondo della poetica poeana, una predilezione, da parte del letterato americano, per l’uomo più originario, rousseano, già capace – tuttavia – rispetto all’animale, di fruire di ‘tipicamente umani’ (ovvero ‘non-alienati’, ‘non-animaleschi’) piaceri estetici (meccanicità, monotonia, ripetitività, sarebbero dunque i caratteri di ogni tipo di atteggiamento animale). Il suddetto tipo d’uomo, pur non essendo ancora sufficientemente evoluto, comunque, già porrebbe i suddetti tipi di piaceri al di sopra di ogni altra cosa: a rendere possibile ciò vi sarebbe proprio l’immediatezza di una natura ancora incontaminata, che lo inviterebbe, che lo ‘invoglierebbe’, ad esplorarla avventurosamente, godendo della sua ‘reale’ – e tutto sommato ‘normale’ (ovvero ‘misurata’) – suggestività, carattere, quest’ultimo, inscindibile dalla sua, per così dire, ‘intricata’ selvatichezza. E sebbene sia un tipo d’uomo che non ha ancora escogitato i vari tipi di arti, e nonostante sia in possesso di uno scarsissimo bagaglio linguistico, le sue (ad esempio e in primo luogo) espressioni corporee e facciali richiamerebbero l’anzidetto tipo di natura, essendovi, tra l’uno e l’altra, un profondo connubio, una profonda somiglianza (l’uomo apprezzerebbe, in altre parole, quanto mostrerebbe notevoli affinità con la sua più autentica o vera natura).

Ma, con Landolfi, ci troviamo, forse, in tutt’altro ordine di idee (rispetto a quelle fino ad ora esposte). Per il letterato italiano l’uomo starebbe con il dolore – con ogni tipo di dolore, e persino con la morte – in ‘rapporto attivo’ (non ‘subendone l’azione’, per così dire): ovvero, ‘desidererebbe’, ‘vorrebbe’ gli uni e l’altra. Ebbene, dal momento che si ha ‘paura’ (e non si può non ‘provarla’ – così come, del resto, non si può non avvertire un pur minimo ‘senso di dolore’, fin quando si è vivi) di quanto ci procura dolori e morte, la paura non può che ‘affascinarci’, ‘ammaliarci’. Il piacere di provare paura sarebbe, del resto, una caratteristica atavica di ogni essere umano. Insomma, da sempre ci piacerebbe spaventarci, procurarci dello spavento.

Ciò che dunque non sarebbe presente nel lungo racconto landolfiano, è il piacere che si prova quando una nostra peripezia ‘riesce al meglio’, piuttosto che l’allettante ammirazione per quanto – di naturale e selvaggio – ci circonda.

Ma allora, quando il protagonista del suo breve romanzo decide di affermarsi su quanto lo minaccia nella sua incolumità, lo fa del tutto casualmente (avrebbe cioè potuto – in ogni pernicioso frangente da lui vissuto – ugualmente scegliere – indifferentemente – di ‘soccombere’, ‘lasciandosi andare’).

Tra le conseguenze del pensiero landolfiano, vi è quindi il tema della perfetta equivalenza di ciò che è, per così dire, ‘reale’ (di ciò che avrebbe, nelle nostre esistenze, più ‘peso’ rispetto ad altre cose, che tenderemmo a considerare – ma erroneamente – di minore importanza), e ciò che è ‘immaginario’ (intendendo per ‘immaginario’, ad esempio e in primo luogo, quanto è solo e semplicemente ‘fantasticato’ nelle nostre menti, e non ‘realizzato’, ‘concretizzato’). Altra importante conseguenza del suo pensiero, starebbe nel fatto che la felicità di ogni uomo consisterebbe nel ‘non possesso’ (nel non possedere nulla), nel ‘mancare di tutto’ (il ‘mondo’ sarebbe, in altre parole, per Landolfi, una mera ‘rappresentazione’, un’ ‘allucinazione’, un ‘sogno’ privo di consistenza). Dando per scontato, in questo mio brevissimo articolo, che il suo eventuale lettore sia già a conoscenza della trama del Racconto d’autunno, potrà certamente trovare delle corrispondenze tra detta trama e quanto ho (in particolare) espresso in queste mie ultime affermazioni.

Umberto Petrongari

 

 

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