8 Ottobre 2024
Tradizione

Alpinismo e alchimia ovvero l’ascesa come ascesi – Emanuele Franz

Com’è noto nell’ambito di una certa visione del mondo il termine “ascesa” è affiancato, sovente, a quello di un perfezionamento spirituale. Occorre chiedersi che tipo di parallelismo può incorrere, se incorre, fra l’ascesa detta interiore, appunto, e quella esteriore, o fisica, quella che, detto altrimenti, comporta un elevazione anche altimetrica sul suolo fisico. In altre parole, è possibile discutere di alpinismo e alchimia, di ascesa come ascesi? Noi crediamo di sì. Le vette della coscienza, raggiungibili con una estenuante disciplina e rigore si sé, comportano, parimenti, delle analogie con le vette delle montagne, che, qualora siano affrontate con un determinato approccio, compor

tano dei sacrifici. Salire una montagna vuol dire saper guardare in basso, saper trovare dei percorsi alternativi che ci portano verso il basso per aggirare degli ostacoli, e, a volte, anche dover precipitare per qualche metro. L’ascesa, vuoi quella spirituale che quella alpinistica, è sempre un sentiero impervio al punto che si corre sempre il rischio di morire e forse, in una certa misura, la vetta comporta un determinato tipo di morte, se non fisica, perlomeno psichica, e parlo dell’abbandono di sé, dello scarto del superfluo in voto all’essenziale.

Quando parti per la montagna e sai che tornerai, se tornerai, dopo ore e ore di cammino, sfinito, devi pensare a cosa portare con te nello zaino. Ogni fardello inutile ti rallenterebbe, anzi, ti causerebbe fatiche e pene ancora maggiori, per questo scegli solo ciò che è essenziale. Quando poi da solo sulle cime senti il suono del vento fra le rocce, e prendi un semplice pezzo di formaggio, per te questo diviene sacro e indispensabile, quando magari nella città viene gettato via. Tutto nell’altitudine assume un significato pieno e nuovo rispetto al quotidiano. Anche il chiacchiericcio viene estinto, consuma energie. Solo la parola veramente autentica e pura è concessa. Andare in montagna è un esercizio per la volontà, ti aiuta a capire cosa è essenziale e cosa non lo è, è un atto interiore. Nell’alchimia, spesso fraintesa volgarmente come una ricerca dell’oro fisico, si voleva, allegoricamente, indicare all’uomo la via di un perenne perfezionamento delle sue caratteristiche interiori, non che l’uomo nasca imperfetto, ben inteso, ma si trattava di raffinare, parlando in termini chimici, una materia da grezza a raffinata così come si fa, appunto, quando l’oro viene estratto dalla roccia e rettificato con procedimenti di purificazione.

Si tratta di un oro interiore che, dietro alla parola rettificare, possiamo con facilità scorgere un potente parallelismo con l’ascesa alpina, ovvero un tendere a seguire una line retta che muove verso l’alto. Ci sono stati diversi esoteristi che si sono dedicati, oltre all’aspetto letterario, anche all’esperienza attiva dell’alpinismo. Fra questi due nomi significativi sono Julius Evola, autore dello splendido “Meditazioni delle Vette” frutto delle meditazioni seguite dalle sue scalate sulle alpi austriache, e Alexander Aleister Crowley che nel 1902 raggiunse, altitudine mai raggiunta da nessun uomo al tempo, la quota di 6000 metri sul K2, seconda montagna più alta della terra, fermandosi ben 63 giorni sul ghiacciaio Baltoro. C’è, io ritengo, un rapporto di simbiosi fra il simbolismo dell’andare in alto fisicamente e l’andare in alto interiormente come se i due binari, quello dell’ascesa e dell’ascesi, corrano paralleli. Quando questi due livelli dell’essere si toccano, quello interiore e quello esteriore, si scopre che è impossibile sradicare l’uno dall’altro come non è possibile una montagna senza la valle che la accoglie; come sussiste una parete nord di roccia nuda sulla montagna egualmente nell’animo c’è una parete nord interiore, che è la più difficile da scalare. Si preda geometricamente, e in modo stilizzato, la sagoma di una montagna, in modo assai semplificato possiamo immaginarla come un cono. La sua sommità, il vertice del cono, è la Vetta, che si immagina come un punto inesteso dello spazio. Ora si immagini ancora di guardare questo cono dall’alto, lo si vedrà come un cerchio con un punto al centro, un cerchio puntato. Ebbene, il cerchio con il punto al centro, è, nell’alchimia, il simbolo dell’oro.

Una montagna stilizzata

Il cono visto dall’alto appare vista come un cono come il simbolo alchemico dell’oro

Dunque si può intendere simbolicamente la vetta come il simbolo dell’oro e la circonferenza, qua da immaginare estesa all’infinito, come le valli. Se il punto centrale è la Volontà originaria, prima Ipostasi dell’Uno, l’estensione della circonferenza rappresenta la totalità del generato. Qui l’alpinista, come l’alchimista, tendono al raggiungimento del centro, ovvero all’ottenimento dell’oro. Non bisogna lasciarsi però ingannare dal ritenere questo simbolo conchiuso nello spazio, cosa che, per ragioni di rappresentazione illustrativa, occorre limitare al foglio che usiamo, ma il simbolo è meta-fisico, esso si estende all’infinito. Anche l’alpinista è tratto in questo inganno quando, in cima a una montagna, è vinto dall’ego e tronfio reputa una sua “conquista” la sua ascesa quando la Vetta di per sé è irraggiungibile, è un “Pensiero di pensiero” come intendevano gli antichi greci con la parola Nous. Ho esposto queste argomentazioni e queste riflessioni in un racconto fantastico che ho intitolato “Il monte Nous” (pubblicato nel 2007 da Audax Editrice). Questo racconto su alchimia e alpinismo ha lasciato basiti molti alpinisti, abituati a sentir parlare solo di gradi da superare e materiali tecnici. Tuttavia grandi alpinisti delle seconda metà del secolo hanno compreso una filosofia della montagna come quella che ho esposto, a partire da Reinhold Messner che si è espresso dicendo “Finalmente un racconto diverso”, a Kurt Diemberger, a Cesare Maestri, grande arrampicatore del Cerro Torre in Patagonia, che ha detto che “Tutti noi alpinisti abbiamo il nostro Monte Nous” fino al grande Walter Bonatti che ha ritenuto il Monte Nous “un affascinante viaggio allegorico, non intorno ma dentro il pensiero di chi si ricerca nel profondo del proprio Io che ahimè rimarrà tuttavia imperscrutabile”. Ma questi erano alpinisti che conoscevano la Sacralità della montagna come solitudine, come purificazione del Sé e non sono rimasti infetti dal tecnicismo moderno e dall’alpinismo come spettacolo e vanagloria che si è imposto oggi.

Per poter salire è necessario saper scendere e in ciò consiste la grande prova, sia dell’alchimista che dell’alpinista. La vetta, ovvero sia l’oro, non potrebbe darsi senza la valle, ovvero senza l’argento, così come il sole senza luna. Il loro rapporto di interdipendenza fa sì che se il ricercatore interiore volesse escludere una parte di questo connubio ne cadrebbe senza più rialzarsi così come se l’alpinista, accecato dalla sua conquista, reputasse da meno tutto quello che sta sotto le cime, anch’egli cadrebbe vittima del suo stesso ego coronando la sua fine. L’andare in alto significa violare la propria condizione: un pesce nuota, un uccello vola, ma un uomo non è concepito dalla natura per erigersi sopra la terra, eppure a un certo punto l’uomo si è distinto dai quadrupedi alzando la testa al cielo anziché dal terreno. I Miti di Bellerofonte, che ascende al Cielo, come Icaro e Prometeo, sono Miti alpinistici, in un certo senso perché dipingono la scintilla dell’uomo di trascendere la sua condizione per innalzarsi ad una conoscenza che non gli è propria per natura. Oggi si sente un gran bisogno di reinventare l’alpinismo. A differenza del passato, in cui c’erano vette nuove da esplorare ed in cui pienamente nell’alpinista c’era il senso dell’ignoto e dell’avventura per una nuova montagna e scoperta geografica, oggi il fervore e l’entusiasmo si è affievolito. Tutte le cime della terra sono state conquistate, le pareti più difficili e famose del mondo sono state raggiunte e scalate. In buona ragione dobbiamo questo alla tecnologia, nettamente superiore a quella dell’alpinismo delle origini, di cui dispone oggi la scienza e la tecnica dell’alpinismo e dell’arrampicata. Lo stile alpino, che prevede l’ascensione in solitaria, con mezzi tecnici minimi, senza ossigeno né supporto esterno, fu uno dei primi stili nati in contrapposizione alla crescente tecnologia alpinistica che ha permesso sempre di più una democratizzazione spesso volgarizzata della montagna.

C’è chi ha voluto battere tutti i record di velocità di ascensione, c’è chi si è impuntato di scalare il maggior numero di vette possibile nello stesso giorno e c’è chi oggi ha deciso di tornare a scalare le vette già conquistate ma utilizzando i mezzi tecnici di 50 anni fa. La verità è che l’uomo, teso sempre al nuovo, alla pioneristica impresa, è spinto a riscoprire la montagna da nuovi punti di vista e nuovi approcci ma ahimè questi sono sempre fermi al livello tecnico, materiale, e non filosofico. Non c’è, nell’alpinista di oggi, una volontà di riscoprire un nuovo significato nella e della montagna, una nuova filosofia dell’ascensione. È tanto più necessario oggi una riscoperta di cosa rappresenta dal punto di vista metafisico la vetta. La vetta, come simbolo filosofico, è un punto inesteso, non spaziale, in cui convergono tutti i piani sottostanti. Sotto la vetta è il poliedrico mondo della molteplicità: via via che si sale la contingenza diventa rarefatta, la molteplicità diradata, fino a giungere al punto immateriale e non spaziale che la vetta rappresenta come unità contrapposta alla molteplicità. Questa visione geometrica-simbolica dell’alpe deve rimettere in discussione l’alpinismo di oggi.

Il trionfo dell’alpinismo come Sport, come record, come grado di difficoltà, che altro non è che una volontà dell’Ego di affermarsi, ha lentamente obnubilato quello che era e che dovrebbe essere l’ascesa: l’esatto contrario. Solitudine, assenza di qualsiasi mezzo, perfino corporeo, carnale, deliquio, sincope, estinzione dell’Io. Rari sono quegli alpinisti che “sentono” questo, che si approcciano alla vetta con questo stato d’animo, con l’Intenzione di soccombere nell’Ego. Altro non fanno i molti che ascendere senza ascesi, per farne vanto, per dire “Io”. La nuda roccia dovrebbe essere intesa per quello che è: Tempio. L’ascesa, l’arrampicata, dovrebbe essere fatta come un Guru Indiano venera gli Dei. Pregando come se si stesse entrando del Grande Mistero. Un appiglio, si inspira, ci si alza, si espira, si vibra, volendo morire, desiderando morire, non desiderando vivere, ma morire dentro, non nel corpo. Ma questo approccio Spirituale alla montagna, in cui si insegna come respirare, come pregare arrampicando, è del tutto alieno al nostro mondo, dove ci sono alberghi di alta quota, dove nelle scuole di roccia si insegna come allenare il corpo al sesto grado e non si insegna come Contemplare la Cattedrale del Silenzio, come estinguersi di fronte al Tempio Eterno della Roccia.

Emanuele Franz

-Per approfondimenti: “Il Monte Nous” di Emanuele Franz ( www.audaxeditrice.com)

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