25 Giugno 2024
Julius Evola

Evola, l’Illuminismo e l’Arte – Umberto Petrongari

Questo saggio si rivolge a chiunque già disponga di una conoscenza sufficientemente esaustiva del pensiero e delle opere evoliane. Per poter comprendere il senso di Arte astratta ritengo si possa certamente fare riferimento ad un paio di idee che Julius Evola esprime in quella parte del Cammino del cinabro in cui si occupa di chiarire il significato delle sue opere filosofiche. La prima di tali due idee consiste in ciò: la realtà in cui siamo immersi ci appare – per l’appunto – ‘reale’, anche grazie al fatto che, non solo gli oggetti composti, ma anche la minima sensazione che ne compone una parte, è tale da non lasciarci del tutto indifferenti. Tutto dell’esperienza ci coinvolge, sia pure – in alcuni casi – in modo pressoché impercettibile. In base invece alla seconda idea, per Evola – salvo rare eccezioni – ogni uomo temerebbe necessariamente per la sua vita e baderebbe alla sua incolumità, perlomeno ‘al presente’: quest’ultimo è il caso del borghese senza morale; tanto che costui evita sempre gli ‘scontri diretti’, almeno che non sia più che sicuro di potersi affermare con facilità sul proprio avversario (disponendo ad esempio di una pistola contro qualcuno che è invece disarmato). Forse per Evola la più pura ‘coscienza dell’attimo’ consiste nel rivolgere la propria mente sia al passato che al futuro (oltreché – necessariamente – al presente), senza però essere troppo preoccupati per tutto ciò che è accaduto, che accade, e che può accadere: è cioè trattare il mondo, è ‘prendere’ il mondo (quasi alla lettera) per un’inesistente rappresentazione (o allucinazione), dunque per ‘un nulla’. Ebbene, tornando a parlare del borghese privo di ogni senso morale, costui non apprende nulla dalle sue esperienze passate e guarda alle conseguenze future delle sue azioni presenti quasi con la più completa indifferenza: insomma, non ha rispetto di niente e di nessuno (manipola, violenta, ad esempio, la natura, senza badare alle eventuali, funeste, conseguenze che si andranno, per via di tale suo sconsiderato operare, a produrre).

L’opuscolo sul dadaismo di Evola anticipa, a mio avviso, quanto egli stilerà nelle sue principali opere filosofiche (la Teoria e la Fenomenologia, introdotte a loro volta dai Saggi). Insomma, in Arte astratta abbozza – sia pure molto stringatamente – l’intero suo pensiero filosofico (nel quale il concetto di ‘Tradizione’ non era ancora stato elaborato da Evola: andrà a sostituire la sua personale idea di ‘oltreuomo’). Ritengo oltretutto che le sue più importanti opere filosofiche siano principalmente rivolte al borghese dalla mentalità illuministica (o comunque, a chiunque abbia detto tipo di mentalità), in modo tale da integrarla, nel completo superamento dei suoi limiti. Effettivamente, non credo sia casuale, nell’opuscolo sull’arte, il riferirsi in esso ad alcuni pragmatisti, nonché l’affermazione per la quale non dovrebbero venire rimosse le “leggi della pratica” (ovvero – perlomeno alcuni – principi etici). Per Evola, quando colui che vive nel solo presente inizia a guardare con preoccupazione al suo personale futuro, farà sorgere un’etica di tipo utilitaristico. Diverrà, cioè, avveduto, accorto. Al presente agirà sempre in modo tale da evitare che in futuro – quantomeno i suoi bisogni primari – siano sempre, necessariamente e inevitabilmente, soddisfatti. Eticamente (in senso più stretto), inizierà a porsi dei limiti assolutamente invalicabili. E così – ad esempio e in primo luogo – non infierirà mai sugli innocenti e sugli indifesi (specialmente, dunque, sui bambini), poiché, se il male colpisce chi non ha commesso colpe, esso potrà colpire, indiscriminatamente, chiunque (quindi anche se stesso). Non facendo dunque nulla di male, può serenamente aspettarsi un futuro in cui la sua personale incolumità fisica resterà – perlomeno con alta probabilità – intatta. Se lo assale una pulsione violenta, la terrà dunque ben a freno, poiché immagina un male puramente materiale futuro che – con alta probabilità si è detto – lo andrà a colpire personalmente.

Alla luce di ciò, l’ambito del libero arbitrio che può esercitare l’illuminista và a restringersi notevolmente. Tuttavia, c’è ancora spazio per poter esplicare una moderna condotta libertaria. Di norma, potrà consentirsi di essere arbitrario nella misura in cui sarà in grado di tollerare il male (materiale, o anche morale) che può eventualmente sopraggiungergli. Riferendoci al paragrafo sull’Arte pura contenuto nella Fenomenologia, il suddetto illuminista presenta prevalentemente dei connotati da ‘artista’, piuttosto che da ‘mago’: e l’ ‘artista’ (‘puro’, ovvero ‘soggettivo’) è, per Evola, colui che – per lo più – si ‘scatena’ (o che comunque, ‘potrebbe scatenarsi’) nella sua sola fantasia (la quale, dunque, non conoscerà limiti di sorta). Il più puro ‘mago’ è invece l’uomo interamente ‘nichilista’: è colui che, cioè, non si limita a ‘fantasticarlo’ il suo libero arbitrio, ma lo eserciterà (e con coerenza) nel concreto, e, in linea di principio, senza alcun limite. Sade, invece, è stato forse l’esempio più tipico di ‘artista puro’ o ‘soggettivo’. Ma prima di proseguire, soffermiamoci per un attimo a parlare della personalità di Evola: ha da sempre avuto una mentalità aristocratica, ‘di destra’; i suoi valori sono da sempre stati ‘cavallereschi’, ovvero, per così dire, collocati a ‘metà strada’ tra quelli dell’uomo immoralmente egoista e quelli dell’utilitarista, dell’egoista, etico (quest’ultimo è, fra l’altro, il tipo umano più coerente, nelle sue scelte esistenziali, perlomeno rispetto alle due anzidette categorie umane).

Se l’egoista etico è il fautore di uno ‘sviluppo sostenibile’ (baderà cioè alle conseguenze future del suo attuale operare tecnico-scientifico), nelle società tradizionali (per ‘come le vede’, per come le considera, Evola), i ceti più bassi modificheranno il loro comportamento adattandolo ad una natura che dovrà, allora, restare il più possibile intatta. Ma anche i ceti più elevati (gli aristocratici) tenderanno a non modificarla, lasciandola selvaggia e inviolata, in modo tale da avventurarsi in modo ludico in essa. Ma veniamo a considerare il comportamento e la mentalità dell’uomo spiritualmente forte (dell’assoluto nichilista), ossia di colui che tratta sempre, in ogni frangente, il mondo alla stregua di una mera rappresentazione. La descrizione di tale tipo d’uomo emergerebbe già in Arte astratta.

Abbiamo visto come ogni cosa che ci circonda, piccola (anzi, minima) e grande, non possa non coinvolgere la nostra attenzione. Gli oggetti di cui facciamo esperienza non possono che trarci in inganno (l’inganno che subiamo da parte di essi è quindi inevitabile): non possiamo far altro che ‘prenderli per reali’, per ‘concreti’. Forse, non si può essere che in buona fede nel prendere l’esperienza per reale. Ma la realtà è quantomeno fastidiosa (in generale, possiamo dire che è ‘dolorosa’). L’oggetto – con il dolore che lo connota necessariamente – ci induce dunque ineluttabilmente a credere in un’esperienza reale: ovvero, non possiamo far altro che costatarla in quanto reale. Crediamo, di conseguenza, di rifuggire sempre il dolore, o perlomeno crediamo che si tenda costantemente ad attenuarlo (non potendo infatti mai del tutto scomparire). Ora, si odia ciò che ci procura dolore. E il dolore ci fa paura, proprio perché non desideriamo che ci colpisca, che ci colga. Ogni uomo (e anche il nichilista) è di conseguenza convinto di essere soggetto a un fato, a un destino, inesorabile. Reputa, insomma, che il suo agire sia assolutamente necessitato, ovvero non-libero. Crede insomma di non essere in rapporto attivo, volitivo, con il dolore. Ma ciò significa che reputa di respingere quest’ultimo necessariamente. Ma allora non può che attribuire al dolore carattere di vilipesa della propria persona. Infatti, il dolore non lo si considera come ‘negativo in sé’: ciò che respingiamo di esso sta proprio nel suo carattere offensivo nei confronti del nostro essere, offesa che crediamo qualcuno ci arrechi, odiandoci (un dio o – piuttosto – un demone a noi avverso; ecco perché, ad esempio, si bestemmia o si impreca).

Inoltre, il nichilista agisce sempre arbitrariamente, ma non ne può essere (neanche minimamente) cosciente. Il libero arbitrio costituirebbe cioè un inconscio inaccessibile. Ora, il libero arbitrio può decidere se assecondare un impulso, o, in alternativa, può decidere di reprimerlo, di non assecondarlo. Inoltre può spingerci ad agire (però del tutto casualmente) laddove il nostro egoismo sarebbe portato a ‘farsi i fatti propri’, portando (ad esempio e in primo luogo) aiuto a chi è in (soprattutto grave) difficoltà. Il nichilista, quando agisce disinteressatamente, non può che essere portato a credere che lo faccia in base a un motivo. Tale motivo, tale movente, potrebbe avere i tratti del Sollen kantiano-fichtiano. Il nichilista svolgerebbe, cioè, un ragionamento di questo tipo: ‘ho un complesso cervello umano’; ‘ciò condiziona che possa concepire dei gesti puramente e freddamente disinteressati’; ‘quella del puro dovere è quindi la mia natura’; ‘dal momento che non posso che amare la mia natura – dunque specificamente, tipicamente umana – mi piacerò quale fautore di un esercizio etico assolutamente fine a se stesso’. Ma il nichilista, proprio in quanto dotato di libero arbitrio, non potrà in ogni occasione comportarsi secondo il Sollen: del tutto casualmente potrà decidere di assecondare il proprio egoismo, facendo i propri solipsistici comodi. E magari giustificherà, motiverà, le sue azioni egoistiche dicendo, tra sé e sé, che non è riuscito a disobbedire all’impulso che lo ha assalito, in quanto troppo intenso, travolgente. E il nichilista potrà concedersi di tutto (potrà, ad esempio, anche uccidere).

Tuttavia, se è un nichilista autentico, per via di tale sua (forse solo apparente) assenza di coerenza, non si sentirà affatto sminuito – né di fronte a sé, né di fronte ad altri – non provando nessun auto-svilente complesso (potrebbe forse trattarsi di ‘complesso di inferiorità’) per via della sua labilità caratteriale. Una sua caratteristica è quella di restare sempre altamente lucido (‘mentalmente, psicologicamente, sano’, se si vuole) nell’intero corso della sua esistenza, qualunque siano gli atti (che la sostanziano per intero) che andrà, nel corso di essa tutta, a commettere, oppure a non esplicare. Insomma, dà poco peso, sia a ciò che è, sia al giudizio altrui. Il nichilista è coerente con il suo ‘esser nulla’: ‘bene’ e ‘male’ per lui si equivalgono perfettamente. Se si è contingentemente liberi di assumere una scelta (di compiere un certo atto), oppure di contraddirla, di contrariarla, ciò significa attribuire identico valore all’una e all’altra opzione. Fare una cosa piuttosto che un’altra, risulterà allora, per il nichilista, del tutto indifferente (ossia equivalente). Per il nichilista infatti ‘non ci sono valori’, ovvero ‘nulla esiste’: ma allora qualunque sia ‘la cosa che fa’ (o che ‘non fa’), nell’uno come nell’altro caso, sarà sempre attivo, volitivo, felice (il nichilista è come ‘già morto’, risiedendo, per così dire, nel ‘nulla’). Ma facciamo un piccolo esempio per chiarire al meglio quanto ho appena detto: se si ha fame, si può mangiare, oppure si può saltare il pasto (motivando magari la cosa con il pensare che ‘si vuole restare leggeri’): ebbene, nell’uno come nell’altro caso, il nichilista sarà del pari felice, attivo, volitivo, sarà cioè ‘nulla’ (essendo dunque ‘come morto’ – e già da sempre, nonché ‘per sempre’: in tal senso lo si potrebbe metaforicamente definire ‘immortale’). Ho appena esemplificato in che modo si può de-realizzare, annichilire, la realtà (ed è l’unico modo per annientarla).

Ora, il ‘nulla’, in quanto ‘quantitativamente’ infinito, è più grande dell’ ‘essere’, se però per quest’ultimo si intende ‘l’oggetto’, e cioè qualcosa di ‘definito’, di ‘delimitato’ (essendo ad esempio demarcato, contornato, da una certa figura, da una certa forma). Ma allora il nichilista esprime la più autentica ‘grandezza’. Falsa grandezza è quella che Evola (non solo in Arte astratta) attribuisce a quella che menziona come ‘grande arte’ o come ‘arte classica’. Essa è espressione di anche (all’occorrenza) eroica ‘Humanitas’. Ma quest’ultima, in realtà, ‘non è grande’, e per due ordini di motivi. L’Humanitas infatti, da un lato, non è che espressione di egoismo utilitaristico – per giunta non riconosciuto come tale (l’Humanitas è dunque stolta auto-mistificazione, è stupida, incosciente, auto-copertura). D’altro lato, vi è da fare un discorso abbastanza complesso. Se il modo esistesse, e, con esso, un Dio che lo ha creato, solo in tal caso l’Humanitas sarebbe ‘grandezza’ (per giunta ‘sincera’). Dio, in quanto ‘colui che è’, esprimerebbe l’ ‘infinito reale’, una ‘grandezza’ assoluta. E ‘grandi’ sarebbero i suoi attributi (tra cui – ad esempio e in primo luogo – la sua bontà). L’uomo tipicamente ‘umano’ (ossia, l’uomo ‘non animalesco’), pur essendo di rango ontologicamente inferiore rispetto a Dio, sarebbe comunque dotato di una certa grandezza, grazie alla sua ‘anima’ (creata da Dio, e delimitata da quest’ultimo, non esistente quindi dall’eternità, ma esistente per l’eternità).

Ma, per Evola, sia Dio che (più in generale) l’ ‘essere’, non esistono. Per cui la comunemente creduta gerarchia di valori andrebbe completamente rovesciata: più si tende al ‘nulla’, più si ha ‘valore’ e ‘grandezza’. E così, non solo l’Humanitas è ridotta a mero ruolo sociale (fra tutti i restanti) di una ‘farsa’, ma è anche il modo d’essere ‘infimo’: forse, persino lo stesso ‘solipsista pratico’ (tale espressione è schopenhaueriana) ha più ‘valore’ dell’ ‘umanista’ (o comunque, esprime, rispetto a quest’ultimo, maggiore ‘grandezza’). Se infatti, per l’Humanitas, esiste anche una rigida oggettività valoriale (da cui deriva e dipende, fra l’altro, un’arte ‘oggettiva’, ossia che raffigura ‘oggetti concreti’, dando, in tal modo, ad essi ‘valore’), nella misura in cui il più spudorato egoista la ‘và a minare’, si innalza valorialmente (proprio in quanto ha ‘annientato’ perlomeno l’ ‘Altro’, continuando a dare valore alla sola propria ‘pelle’, o, se si preferisce, alla sola sua ‘persona’).

Tornando a parlare dell’uomo spiritualmente forte, del puro nichilista, costui, sul piano della fruizione estetica, risponderà sempre ad esigenze immediate (può addirittura uccidere per noia – anche ciò, come vedremo, è un ‘fatto estetico’). Perlopiù (secondo un’accezione più comune del termine ‘arte’), sarà portato (rispondendo a quanto desidera ‘al momento’) a fare esperienze, per così dire, ‘misuratamente forti’ e singolari (dunque inaudite), tali da procurargli un insuperabile stato di ‘ebbrezza’. Da artista, invece, produrrà per il suo pubblico esperienze analoghe a quelle anzidette, magari suonando una musica dura e psichedelica nel corso di una jam session.

Ora, tutto quanto è peculiare e potente, piace, attrae, universalmente (perlomeno in alcuni momenti, ossia quando si ha uno stato d’animo predisposto a tanto). Non è tuttavia detto che il prodursi quale ‘individuo’ (di contro all’omologazione e al grigiore vigente in seno alla ‘massa’, al ‘gregge’), quale (potremmo dire) ‘singolo’ (ossia quale ‘persona singolare’, ‘unica’) – magari in un’occasione sportiva – e il produrre cose del tipo anzidetto (una musica, un quadro ecc.), risulti facile (poiché, ad esempio, è qualcosa che avviene con spontaneità e naturalezza). Fare, produrre qualcosa (oppure, prodursi in qualcosa), può cioè non riuscire al meglio, potendosi addirittura fallire in ciò. Per Evola l’uomo è tale in quanto è in consorzio con altri uomini. Credo che il fenomeno del ‘conformismo’ lo si abbia quando almeno due persone entrano in stretto contatto. Non possono infatti ignorarsi l’un l’altra. Inoltre – aggiungerei – perché (ad esempio e in primo luogo) ci si esibisce (in un qualunque modo), se non per ragioni legate al ‘conformismo’?

Torniamo dunque all’esempio della jam session. Lo scopo di chi vi partecipa attivamente, è quello di far presa sul suo pubblico. Si ha paura che il pubblico non gradisca l’esecuzione (tutt’al’più si può avere un minimo timore di ciò). Se, infatti, non la apprezza, ciò procurerebbe dolore (sia pur piccolo) nell’esecutore. Vuole dunque ‘ricevere consenso’, motivo per cui non potrà – se non altro del tutto – prescindere da un esibizionistico ‘virtuosismo’ nell’esecuzione. Ma, se vige il libero arbitrio, come quest’ultimo (lo si è visto) de-realizza, distrugge, ogni ‘realtà’, allo stesso modo distruggerà ogni ‘conformismo’. Ma in che modo? Proprio per via del fatto che ci si può liberamente astenere dal salire su di un palco per ‘mettersi in mostra’ e per ricevere il plauso di un pubblico. Credo che tutto ciò che ho detto fino ad ora sia il senso contenuto in Arte astratta (ovvero il significato dell’ ‘arte’ per Julius Evola).

Ciò che, tuttavia, non si può distruggere, sono le motivazioni che ci spingono a fare qualcosa, oppure a non farla (credo, fra l’altro, che il senso del Si heideggeriano consista proprio in ciò): insomma, non si può fare a meno di renderci comprensibili (per mezzo di un fare che sia sempre ‘logico’) agli altri. E così, tornando all’esempio del portare soccorso a chi è in difficoltà, ciò comporta che la persona da aiutare (o da salvare) venga aiutata attenendoci ad un comportamento di tipo logico (e dunque comprensibile – poiché motivato). Faccio un altro esempio. Mettiamo che non voglia avere un abbigliamento ‘formale’ poiché sono un ‘ribelle’. Deciderò di vestire in modo ‘trasandato’, in modo tale da ‘scandalizzare i benpensanti’ (anche nel vestirsi ‘da ribelle’ vi è dunque una logica – come tale, comprensibile). Ora, proprio perché l’anzidetto tipo di look è motivato, logico, comprensibile, vi saranno anche altre persone che vestiranno in quello stesso modo, motivo per cui non dovrò vergognarmi della mia ‘trasandatezza’. Ma vi è ancora spazio, alla luce di ciò che ho appena concluso di dire, per qualcosa di assolutamente incomprensibile? Ora, non c’è motivo, non c’è ragione, per cui decida di essere un ‘ribelle’. Ovvero, la mia scelta di esserlo, è assolutamente casuale o gratuita. Ma ciò significa che potrei sempre decidere (del tutto immotivatamente) di ‘passare’ a un look più convenzionale. Svolgerò un ultimo esempio riguardante il (dunque, in definitiva, presunto) conformismo degli uomini.

Qualcuno della mia stessa stazza mi provoca per scontrarsi fisicamente con me. A questo punto mi si offrono due opzioni: rispondere alla provocazione, oppure evitare lo scontro. In quest’ultimo caso dovrò necessariamente motivarmi questa mia scelta: dirò a me stesso (e potrò dirlo anche agli altri, se mi pongono una domanda analoga – venendo ‘compreso’, ‘capito’ da essi) che ho ‘paura di farmi male’. Mettiamo che non sia un puro nichilista, ma una persona comune. Ebbene, si è detto che il mio eventuale avversario ha pressappoco la mia stessa corporatura, per cui, se decidessi di scontrarmi con lui, non dovrò temere (con altissima probabilità), né la morte, né, ad esempio, il coma. Se dunque decidessi, al contrario, di sfidarlo, sarei ‘attivo’, ‘volitivo’, anche in ogni ‘colpo’ ricevuto da parte sua (se così non fosse, del resto, i pugili sarebbero tutti dei pazzi). Per quel che concerne tale esempio, più che di ‘paura conformistica’, si ha a che fare con la paura fisica (con una paura più materiale). Ebbene, pur non potendo saperlo, se decido di ‘non scontrarmi’, non per questo, in realtà, ho timore del mio avversario (essendo quindi un codardo): la mia libera scelta di non affrontarlo risulta dunque del tutto gratuita o immotivata (inspiegabile). Non dovrò dunque sentirmi per nulla svilito per via della mia (dunque solo presunta) ‘assenza di carattere’, di ‘tempra’.

Ma c’è un modo di contraddire il conformismo ‘tout court’? Sebbene ciò non sia – ovviamente – in nessun caso auspicabile (sebbene il puro nichilista starebbe persino con la sua follia in rapporto totalmente attivo), se un uomo viene assalito da un gravissimo stato di pazzia, essa non colpirà unicamente la sua intelligenza, ma anche il suo (per così dire) ‘senso sociale’. Tale patologia andrà a colpire, dunque, da un lato la memoria (che è la principale coadiuvante dell’intelligenza; ad essa si lega inoltre la possibilità di prevedere il futuro). Ma, d’altro canto, come si è detto, eliminerà ogni senso conformistico: e così, ad esempio, un pazzo grave, potrà indossare gli slip sopra i calzoni: e non perché in ciò sia stupido (personalmente non ritengo che – in cose di questo genere – lo sia), ma – più semplicemente – perché ‘così gli piace’; esso si rende dunque illogico, completamente incomprensibile ad ogni altro uomo (inoltre, bizzarrie di questo tipo, sono possibili unicamente in nature ‘pensanti’, ovvero – in certo qual senso – ‘perverse’; altrimenti si sarebbe naturalmente o spontaneamente portati ad assumere comportamenti di tipo logico – ad esempio, se ho freddo indosserò delle pelli animali).

Ma veniamo al significato del dadaismo per i dadaisti, posto al di là del suo senso non ben focalizzato da questi ultimi, e che Evola avrebbe invece adeguatamente scorto. Ebbene, il dadaismo, non esprime tanto una concezione relativistica dell’arte, quanto, piuttosto, l’idea che tutto, al mondo, sia questione di estetica. Per i dadaisti, innanzitutto, al mondo il dolore non è assoluto, ma lo si può provare secondo gradi più o meno intensi. Ma, prima di proseguire, non si può prescindere dal definire l’arte. Ebbene, artistico è tutto ciò che soddisfa un bisogno o un’esigenza. Esisterebbe, quindi, già in natura: il nutrirsi da parte dell’animale, è già un fenomeno di tipo estetico. E non solo perché con il cibo l’animale riempie unicamente la sua pancia non provando più fame (ma già ciò sarebbe un ‘fatto artistico’); anche l’animale, infatti, sperimenterebbe – al contempo – un pur assai grezzo appagamento morale, spirituale, dovuto al particolare gusto di quel cibo con cui preferisce nutrirsi (a discapito di altri tipi di cibi, che non è solito consumare, o che, addirittura, rifiuta). In base ad una prospettiva puramente nichilistica per arte non deve intendersi, dunque, unicamente quanto è artificio umano (e così, artistica, è sia la medicina naturale che un prodotto medicamentoso di sintesi), bensì tutto ciò che è ‘artefatto’, ‘falso rimedio’ (poiché rimedio non indispensabile – anzi, in fondo, inutile, vano), tutto ciò che è ‘strumento fittizio’. Se si pensa (ad esempio e in primo luogo) a certa architettura novecentesca, essa costituisce un’arte unicamente funzionale, in cui tutto, (nello specifico) di un edificio (e anche il suo arredamento, con il suo design), deve risultare comodo e confortevole. Anche i dadaisti, con i loro ready made, considerano l’utilità, l’efficienza, quale criterio estetico (uno dei vari criteri estetici). Ma arte è anche quanto soddisfa un’esigenza sociale: con ciò siamo portati al modo in cui i dadaisti considerano l’arbitrio.

E con ciò siamo anche portati a quanto si verifica nei contesti capitalistici più avanzati, in cui il culto dell’efficienza giunge ad applicarsi agli uomini stessi, considerandoli alla stregua di ‘cose’, di ‘strumenti’, da ottimizzare sempre più nelle loro prestazioni lavorative: svaghi o diversivi, momenti di relax, servono, per così dire, a ‘ricaricare’ detti strumenti lavorativi per renderli nuovamente efficienti, ben funzionanti. Ma il capitalismo consente e propugna – in alternativa – anche uno stile di vita edonistico, basato sul consumismo sfrenato (non solo di prodotti d’abbigliamento o, ad esempio, di prodotti alimentari da supermarket, ma anche di ‘divertimento’, da consumarsi in una discoteca, in un concerto, in un luogo di vacanza, in un pub, ecc.). Se, ad esempio, l’abbigliamento di moda sarà sempre più scarno (oppure, magari, potrà anche – almeno in alcuni casi – essere estroso), tutti i membri di una società (o comunque di un certo consorzio sociale) saranno comunque omologati, vestendosi tutti alla stessa maniera. Ma anche l’industria del divertimento tenderebbe sempre più a proporre svaghi scarni e ripetitivi: per fare un esempio, in un rave, una musica dura, ma monotona e ridotta all’osso (quanto alla sua sonorità), viene ballata con gesti meccanici (quasi si fosse tornati ad un’alienata condizione primitiva, animalesca).

Ciò non toglie che si possa scegliere di fare cose (di cui abbiamo parlato sopra) che ci diano il massimo possibile (‘a questo mondo’) di appagamento (che producano cioè ‘ebbrezza’ in se stesse). Avventurarsi in un territorio selvaggio e incorrotto, inviolato dall’azione umana, ne è un esempio. Personalmente ritengo tuttavia che il tempo ludico impiegato in tal maniera, non sia qualcosa di originario, di animalesco. È un fatto ‘artistico’ nel senso più proprio del termine, quale prodotto della sola, dis-alienata, ‘cultura umana’, nel senso che è qualcosa di cui gli animali non sono in grado (inoltre, per via del conformismo umano, anche detto tipo di attività, risulterà ancora più appagante se a svolgerla si sarà perlomeno in due – se qualcuno cioè osserva ciò che stiamo facendo). Sempre personalmente ritengo infatti che l’uomo primitivo, al pari dell’animale, scorga in un paesaggio naturale (ad esempio) dalla fitta vegetazione, un mero ostacolo da abbattere (o comunque un qualcosa che gli è unicamente di impedimento). L’uomo primitivo (o un uomo attuale che abbia però mantenuto tratti primitivistici), sarebbe invece attratto da paesaggi, sì maestosi, o meglio mastodontici – e per questo minacciosi, sinistri, intimidatori – ma anche poveri, spogli: un assolato deserto, una steppa sconfinata, una gelida tundra – ma anche un’imponente, grande, metropoli moderna – verrebbero apprezzati da tale tipo d’uomo. Leggendo in particolare Arte astratta (fra ogni altra fonte in cui Evola parla di arte), credo potrebbe emergere come per i dadaisti ogni possibile attività umana avrebbe l’ ‘effettivamente conformistica’, euforica, propria accettazione da parte della società, quale suo obbiettivo. Oppure, in alterativa, avrebbe per scopo quel senso di (egualmente) massimo alleggerimento (del dolore) che si prova avendo a che fare con cose confortevoli o accoglienti. Se nel primo caso si può parlare di ‘dionisiaco’, nel secondo caso si potrebbe parlare di ‘apollineo’ (stati in cui l’euforia provata è analoga; solo che il primo termine lo si riferisce all’azione, il secondo è invece legato alla contemplazione).

Infine, si può anche provare sollievo quando, ad esempio, desideriamo il benessere di un’altra persona, in quanto con essa siamo in empatia (possiamo ad esempio aiutarla se si trova in una qualche difficoltà). Anche ciò ovviamente è arte, in quanto soddisfazione di una certa esigenza. Ma, più propriamente, l’arte è quanto può produrre (riprodurre), ad esempio in un dipinto, situazioni del genere anzidetto: questo tipo d’arte ha lo scopo di formare in noi l’Humanitas (è un’arte ‘edificante’, educativa, formativa); e guardando detto tipo di dipinto, il nostro ‘commuoverci’ in favore dell’ ‘Altro’, viene semplicemente immaginato, fantasticato, nella nostra mente. Questa è l’arte classica o ‘grande arte’. Ebbene, è in particolare nell’appendice sull’arte dei Saggi che Evola parla del tema dadaista dell’ ‘indifferenza’ (tale tematica in Arte astratta credo non emerga). Ovvero, i dadaisti non avrebbero respinto nessun criterio estetico, accettando dunque anche il criterio artistico legato al classicismo. E certamente, per i dadaisti, anche ‘l’essere umanisti’ ha come scopo quello di venire accettati dalla società (se si è ‘umanisti’, se si fanno cioè ‘cose umane’, anche ciò produrrebbe dell’euforia collegata, come si è detto, al conformismo).

Concludendo, ecco cosa i dadaisti intenderebbero per arbitrio: è del tutto casuale, gratuito, ingiustificato, il nostro scegliere un certo tipo di estetica a discapito di altri tipi di estetica. Qualsiasi cosa scelga di fare la nostra caotica volontà (non intendendo per essa la ‘volontà schopenhaueriana’, ma il nostro ‘libero arbitrio’), l’obbiettivo da raggiungere sarà sempre il medesimo (uno ‘stordente’ senso di ebbrezza, il quale costituisce – in altre parole – sempre qualcosa di ‘eccessivo’, di ‘eccedente’ l’ ‘appagante misura’: ‘misuratezza’ che ‘a questo mondo’, del resto, non potrebbe mai offrirsi). Ma riassumiamo, ricapitoliamo, il modo in cui Evola concepirebbe il più puro nichilismo. Il nichilista può, con il suo libero arbitrio, decidere gratuitamente di assecondare o meno le proprie pulsioni estetiche. In quest’ultimo caso sarà sempre portato a rispondere ad esigenze immediate, confrontandosi sempre e solamente con quanto è immediato (e cioè ‘naturale’, non intaccato dalla mano dell’uomo). Un esempio tipico di ciò potrebbe essere dunque rappresentato dal suo avventurarsi – per puro spirito di avventura – in un paesaggio selvaggio da esplorare. Fra l’altro, la sua ‘neutralità cosciente’ (o uno stato che si avvicina molto a quest’ultima), non gli farà temere i pericoli e gli imprevisti che incontrerà, in continuazione, nella sua avventura: che costui riesca o meno ad affrontare ogni contingenza che gli si presenterà di fronte nel corso della sua intera avventura esplorativa, non gli procurerà nessun turbamento (o quasi); ma è proprio per questo che potrà rimanere altamente concentrato su ogni cosa che dovrà andare a fare, per poter svolgere al meglio tutte le sue peripezie.

Ma il nichilista potrà anche decidere di ‘non agire’, seguendo i ‘freddi’ (ossia, per nulla ‘artistici’) dettami del Sollen (o di qualcosa che si avvicina molto a quest’ultimo): l’esercizio di ogni tipo di ‘dovere’, non può essere, difatti, ‘questione di estetica’, in quanto tale esercizio è agli antipodi rispetto all’obbedire alle proprie pulsioni (egoistiche o altruistiche che siano). Concludo il saggio esponendo quanto avvicina il mio personale pensiero alla ‘Sapienza evoliana’, e quanto lo avvicina al modo di pensare dei dadaisti (la mia filosofia non coincidendo tuttavia pienamente, né con quanto è asserito da Evola, né, tantomeno, con quanto è sostenuto dai dadaisti). Innanzitutto, come considerano i dadaisti il conformismo? Potrebbero averlo considerato in tal maniera: chi fa parte di un certo consesso sociale tenderà a soddisfare ogni esigenza consumistica vigente in tale ambito, per sentirsi ‘gregge’, ‘massa’, in altre parole per omologarsi ad ogni membro di detto consesso (placando, in tal modo, il suo animo). Ascendendo di grado o di livello sociale, subentrerà in un nuovo consesso, in cui consumi più costosi dovranno venire fruiti (la graduale ascesa sociale pone dunque sempre nuovi problemi legati alla volontà di conformarsi agli ‘altri’). Al contrario, Evola, avrebbe invece ritenuto che ogni uomo tenda a sopraffare ogni altro per poter ‘primeggiare’ su ogni altro? Non saprei cosa rispondere: personalmente, tuttavia, ritengo che tale sia la ‘natura’ (per così dire) di ogni uomo (ogni uomo mirerebbe dunque alla ‘supremazia’ sull’ ‘Altro’).

Al pari di Evola ritengo che, più o meno antichi testi e miti sapienziali, bastino per accedere alla sua idea di ‘Tradizione’: ritengo tuttavia che, per via del loro carattere ermetico (oscuro quanto a comprensibilità – si pensi ad esempio al Tao), la lettura di scritti più recenti, moderni e anche d’avanguardia, possa agevolare la comprensione della suddetta ‘Tradizione’: e proprio in quanto i loro contenuti sono più espliciti rispetto ai contenuti di ogni antico testo sapienziale. Inoltre, personalmente, credo che il valore di un’artista (di un romanziere, di un poeta, ecc.), sia tanto più grande, quanto più, in ciò che ha scritto, sia riuscito ad avvicinarsi all’idea del più puro (o assoluto) nichilismo. Lo stesso dadaismo può costituire un valido punto d’appoggio per chi voglia penetrare ulteriormente in direzione dell’idea di Tradizione. Se inizialmente il mio pensiero ha preso le mosse, in particolare, dalla lettura delle principali opere filosofiche evoliane (avendo ‘fatto miei’, in particolare, i risvolti ‘illuministici’ di dette opere), lo ho immediatamente integrato o rielaborato alla luce della sua nozione di Tradizione. È stata inoltre una lettura non esente da erroneità e incomprensioni che, in questo saggio, dovrebbero essere state (spero) definitivamente superate. Ma poi, il mio cammino interpretativo è proceduto oltre, avendo elaborato un pensiero personale che ha sempre più teso a discostarsi dalla mia originaria, alta aderenza alla sapienza evoliana.

Ora, molte sono le differenze che discostano il mio pensiero da quello di Evola: in tale saggio non potrò che limitarmi ad esporne solo alcune. Ebbene, innanzitutto ritengo che, sebbene l’uomo possa disubbidire alle sue pulsioni, di fatto vi obbedisce sempre. Ma tale sua ‘scelta’ non è che questione di probabilità (ciò è quello che credo). Analogamente, in Natura, l’Io deciderebbe di agire sempre in base ad una causa (ciò è – ancora una volta – una questione di probabilità): di fatto dunque, l’indeterminismo, nell’ambito delle scienze empiriche, non esisterebbe. Se tale mia veduta mi avvicina maggiormente al pensiero dei dadaisti, discostandomi dal pensiero evoliano, tale vicinanza non è affatto piena: se infatti i dadaisti credono nel dolore e nel suo carattere relativo (per cui può essere, in alcuni casi maggiore, in altri casi minore), io, al contrario di essi, ritenendo che ogni uomo sia spiritualmente forte (ossia – quantomeno di fondo – un ‘puro’ o ‘assoluto’ nichilista), credo nell’assoluta felicità della condizione umana (di ogni condizione umana). Ma allora, di conseguenza (e anche in ciò sono più vicino ai dadaisti che a Evola), la morale non può avere quell’origine che il sapiente italiano gli attribuisce (avrà allora altra origine: mi limito a tale accenno, senza sviluppare un mio discorso sulla ‘genealogia’ delle varie morali). Resta il fatto che il mondo avrebbe fatto la sua apparsa contingentemente (inspiegabilmente). Prima che ciò avvenisse, ovviamente, non c’era un ‘tempo’. Ma, nel momento in cui si manifestò, credo si sia potuto parlare di un ‘primo istante’. L’universo avrà anche un ultimo istante, quando ogni forma di vita senziente verrà meno. Ed è un universo limitato dalla somma di ogni percezione cosciente che vi sia stata in passato, che c’è attualmente, che vi sarà in futuro: ma allora, in linea di principio, potremmo conoscere ogni causa e movente agenti nell’universo, il quale costituirà allora, praticamente, un ‘intero’, un ‘oggetto’.

In chiusura, non ho potuto che far mia la prospettiva evoliana relativa alla perfetta identità tra la libera opzione ‘magica’ (nichilistica), e la libera opzione ‘religiosa’ (legata al ‘credere in qualcosa’). Quest’ultima opzione è propria di chi contraddice la verità nichilistica: ebbene, io, perlomeno in parte, incarno tale tipo di prospettiva: ed è una prospettiva del tutto legittima, per via dell’identico valore ontologico (pari a un nulla) di ogni uomo (ciò è ‘relativismo’).

Umberto Petrongari

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