“La loro fondamentale credenza è che nulla per sé esiste eccetto Dio; che l’anima umana è una emanazione della essenza di lui, la quale, benché dalla sua sorgente rimanga per un periodo divisa, pure sarà ad essa finalmente ricongiunta” (1).
In un nostro precedente lavoro (2), a cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti, abbiamo mostrato che la dualità dei princìpi divini presenti nelle culture arcaiche, come Sole-Luna o Cielo-Terra, nonché la pluralità degli Dèi, siano fasi successive – e quindi decadenti – della conoscenza primordiale ovvero del sapere tradizionale arcaico, il quale vede l’unità nella diversi
Come l’Uno contiene in sé ogni cosa, anche nell’uomo vi è ogni essenza in potenza: in taluni predominano certe energie, in talaltri altre, ma in tutti sono commiste e ciò che varia da individuo ad individuo, caratterizzandone forma fisica e temperamento, è la misura di ogni archetipo o influsso contenuto nel soggetto umano. Le dodici potenze zodiacali e le sette planetarie – più le due del cielo delle Stelle Fisse e del Primo Mobile – altro non sono che aspetti dell’unico Essere: essi si trovano nell’uomo in combinazioni e gradazioni differenti, così come nella natura: da tali potenze dipendono gli umori, i temperamenti, le attrazioni e le repulsioni, le arti, le scienze, i vizi, le virtù. Ad esempio sette (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più due (Cielo delle Stelle fisse e Primo Mobile), per un totale di nove, furono i cieli danteschi e della sapienza arcaica, avvolgenti la terra, così sette furono le scienze del Trivio e del Quadrivio (Grammatica, Dialettica, Rettorica, Aritmetica, Musica, Geometria, Astrologia) coronate da Fisica e Metafisica, ognuna di queste corrispondenti al rispettivo cielo e sotto la tutela di una delle nove muse. Ogni cielo, pianeta, divinità, musa e via discorrendo, corrisponde ad un archetipo, una forza di cui è intrisa la natura, una manifestazione sensibile di un’essenza invisibile che modella e plasma la creazione. Ma tale essenza che si dona reggendo una fetta della Manifestazione, è parte integrante ed emanazione di un Ente più vasto, abbracciante ogni minuscolo frammento di vita che si manifesti in questo mondo. L’Essenza Suprema racchiude in sé caratteristiche e tendenze diverse, anche opposte secondo la visione umana, ma operanti per il conseguimento di un unico fine nel loro dispiegamento nel divenire. Tale fine è intrinseco nell’Unità che tutto racchiude: in esso non succede ma è ciò che nel divenire si consegue secondo il numero e il ritmo in una scansione che “riproduce plasticamente e in movimento ciò che nell’eternità non succede né si svolge, in quanto unità chiusa in Se stessa.” (4).
Possiamo dire che ciò che nel divenire si manifesta in quanto conflitto ed armoniosa lotta fra opposte e distinte forze, nell’Uno è rinchiuso ed amalgamato come unicità inseparabile. Tale unicità deve scindersi per poter essere esperita dai propri sottomultipli percettivi, ovvero i vari enti che popolano il cosmo, e tale scissione comporta la parcellizzazione degli aspetti che fanno dell’Uno l’Uno e la loro apparente lotta. La lotta eterna di queste parti è in realtà una cooperazione che crea la dynamis che permette al mondo di essere, all’universo di esistere, alla manifestazione di dispiegarsi, all’anima caduta nel corpo di prender coscienza di Sé. Dice un frammento di Eraclito che “Pòlemos di tutte le cose è padre: gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi.” (5). Pòlemos fu il nome che i greci diedero alla Contesa, personificazione della legge che muove il divenire cosmico nel suo cangiare e mutare d’aspetto. Se non vi fosse Contesa, ovvero lotta fra gli opposti e attrito tra gli enti, non si creerebbe la dynamis atta a far procedere il disegno cosmico. Soltanto nell’Uno, nell’Indifferenziato, nell’Unità Assoluta il conflitto cessa di esistere e la lotta tra gli opposti si risolve per quello che essenzialmente è, ovvero illusione. Pòlemos è una delle emanazioni dell’Assoluto, dèmone che agisce sotto l’influsso di Ares, il dio della guerra, il quale è sempre un’emanazione dell’Assoluto. Se Ares è uno degli archetipi primi, Pòlemos è uno degli archetipi secondi, ovvero una legge e una forza intrinseca nel divenire marchiata dalla segnatura marziale – Ares. Questa forza regge i rapporti tra gli enti e sostiene le dinamiche della vita naturale, dispiegantesi secondo l’archetipo marziale. Quindi l’Assoluto emana i princìpi primi, dai quali vengono emanati i princìpi secondi e così via, in una cascata discendente, ontologicamente sempre in atto. Queste emanazioni si allontanano sempre più dall’Essere che le contiene e da cui provengono, si attualizzano nel mondo secondo il loro ruolo o finalità intrinseca, rispondono soltanto al Disegno Supremo che è messa in atto secondo tempo, numero, ordine, ritmo e misura di ciò che l’Unità contiene in sé e per sé. I brevi cenni che abbiamo fatto riguardo Pòlemos ed Ares, potranno essere fatti parimenti su tutte le divinità maggiori e minori dell’Olimpo o di qualsiasi altro pantheon: si vedrà così che non tanti dèi ma un unico Dio, con innumerevoli attributi ed onnipervadente la Creazione, era il vero oggetto del culto degli antichi. Si badi che quando diciamo “unico Dio” non ci stiamo riferendo né ad un essere antropomorfo né alle concezioni cattoliche e bigotte del concetto di Divinità.
Nella vita di ognuno, vi è un collegamento intimo di simboli tra avvenimenti, incontri e fatti di qualsiasi tipo, da quelli apparentemente più insignificanti a quelli più complessi, poiché in realtà tutto ciò che crediamo reciprocamente diverso e lontano, è in realtà la parte di un Tutto legato in sé e per sé da divina armonia. Questo Tutto impalpabile ma intuibile, ha “occhi ovunque” e agisce in ogni dove per le vie più misteriose: tale è il senso dell’onniveggenza divina. “Lui che con lo sguardo abbraccia l’universo intero […] Lui che in ogni dove ha gli occhi, in ogni dove il volto, in ogni dove le braccia e in ogni dove i piedi” (6) è detto in un inno del Rigveda, richiamando una concezione anche islamica di Dio, in particolare appartenente alla tradizione sufica, secondo cui Allah è ovunque: ogni cosa sarebbe un’ espressione formalizzata nello spazio e nel tempo della Essenza Suprema, inconoscibile, che si manifesta tramite le forme apparenti del divenire le quali, per loro stessa natura, prima o poi scompariranno, ritornando a solversi nell’Origine senza forma e senza nome (7). Similmente Iho, “Dio supremo dei polinesiani, è eterno e onnisciente; è grande e forte, è l’origine di tutte le cose, la fonte di ogni conoscenza sacra e occulta, e così via.” (8). Varuna, in un inno che lo celebra come divinità creatrice, è detto che “conosce la rotta degli uccelli che volano nel cielo […] conosce la rotta del vento […] lui che sa tutto, spia tutte le cose segrete, tutte le azioni e le intenzioni” (9),. E nell’Atharva Veda è detto che Egli “ha contato anche i battiti d’occhi degli uomini” (10). I testi che parlano del persiano Ahura Mazda ci dicono essere onnisciente, “colui che conosce”, “dotato di un’intelligenza infallibile, onnisciente”. Nel testo tantrico del Kularnava-tantra troviamo che “Shiva è onnisciente e semplice, è il supremo Brahman e il creatore di tutto. Maya non lo altera e di ogni cosa egli è Signore. Solo e senza un secondo, egli è la Luce stessa. Nessun cangiamento in lui, nessun principio, nessuna fine. Egli è senza attributi e ancor più alto che il sommo. Essere, coscienza e estasi, di lui tutti gli esseri non sono che partizioni.” (11). Nei Frammenti Orfici è detto che “Uno solo è Zeus, Ade, Elios, Dioniso: un sol Dio è in tutti.” (12). Potremmo portare innumerevoli altri esempi e citazioni.
Ogni Divinità cosiddetta pagana rappresentava una scienza, un’arte, una forza naturale, una tendenza animica, una potenza sottile intellettualizzata e resa tangibile alla facoltà immaginativa umana. Infatti i miti sull’origine del mondo di moltissime tradizioni mostrano come un immenso essere si sacrifichi dando via alla creazione, spargendosi in essa, essendo ogni elemento in natura un suo membro. Nell’inno X, 81 del Rigveda troviamo Visvakarman, una sorta di artigiano universale, il quale crea ogni cosa ed ogni essere per mezzo di quanto viene chiamato “oblazione” o “sacrificio”: smembrandosi, egli dà vita al mondo: frammentando la propria essenza, unica e totalitaria, dà origine alle forme differenziate di vita, che altro non sarebbero se non parti del suo corpo. Allo stesso modo Ymir, il gigante primordiale della tradizione norrena, è causa della vita di ogni altro essere per mezzo del proprio smembramento (13). Queste note bastino da orientamento per chi voglia approfondire il tema del monoteismo e del politeismo alla luce della sapienza misterica. Aggiungeremo soltanto alcune precisazioni di carattere generale: il fatto che venga detto che Dio ha occhi e orecchi ovunque, che “non si muove foglia che Dio non voglia” e via discorrendo, non significa altro se non che esiste un’unica legge regolatrice della vita degli esseri, a cui ogni cosa è sottoposta, ed essendo tale legge SCIENTIFICA, ad essa non si può sfuggire, poiché si muove secondo una necessità inesorabile (Anánkē), per quanto i parametri e i ritmi di questa legge unica non siano conosciuti dalla maggioranza degli uomini. Questa Eterna Legge che regola la vita degli esseri e il dispiegamento di ogni evento è un’Intelligenza insita nella vita stessa: essa dispone eventi e situazioni affinché la Legge stessa si attui in ogni istante; fà ciò per mezzo di forze che sono parti di se stessa e che hanno preso il nome degli Dèi e dei dèmoni dei vari pantheon. Ma tale Intelligenza Suprema o Essere o Dio che racchiude tanti Dèi, altro non è se non il riflesso intelligibile o intuibile dell’Assoluto immanifesto, è il Brahman di Parabrahman, è l’Ain Soph che emana da Ain Soph Aur, è un’emanazione manifesta e intelligibile della Realtà Suprema che è immanifesta ed inintelligibile. Dèi, uomini, dèmoni e ogni altra creatura è come fossero, per usare una rappresentazione, lo stesso Assoluto che si specchia in uno specchio rotto: ogni frammento è una sua parte ma non è lui, ogni scheggia dello specchio ne riflette un’immagine distorta, un’effige che esiste ma non è reale.
Ciò che per il popolo è verità dommatica, è invece rivelazione di un arcano della legge eterna per l’intelligenza sintetica che ne penetri il senso. Ogni religione ha il proprio senso recondito e occulto che è sublimazione e penetrazione del senso manifesto. Così anche l’arcano del monoteismo, dopo essere stato reso manifesto dalle religioni abramitiche, è stato frainteso e vituperato dalle masse le quali, per inesorabile legge cosmica, non possono appropinquarsi alle verità sempiterne – almeno non in questa epoca, non nel kali-yuga: esse non hanno inteso il mistero dell’Essere o Dio unico nelle cui sparse membra “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (14). Certo è che il monoteismo va inteso per quello che esotericamente indica, non certo per le mistificazioni e le deformazioni apportate dal pensiero moderno e dal cattolicesimo. Il rito e la religione sono per la massa petulante e pettegola che deve essere tenuta impegnata finché non squarci il velo del simbolo e dal peristilio del tempio non penetri al suo interno con l’occhio dell’intelletto aperto ed illuminato: allora ogni rito cesserà d’aver senso, ogni religio sarà compresa per i messaggi esoterici che porta seco e sarà quindi trascesa. Dichiara una sentenza tantrica che “dopo che si è conseguita la cognizione dell’Ente Supremo, cessa ogni bisogno delle cerimonie previste dai shastri (libri rituali)”. E il bramino Rajah Rammohun Roy aggiunge che
“l’uomo può acquistare la vera cognizione di Dio, anche senza osservare le regole e le cerimonie prescritte dai Veda per ciascuna condizione; poiché troviamo nei Veda medesimi che molte persone le quali trasandarono l’osservanza de’ riti religiosi, col solo dirigere la loro costante attenzione ad adorare l’Essere Supremo, acquistarono la vera cognizione di esso.[…] Occorrono frequenti esempi nei Veda di persone le quali, quantunque trascurassero l’osservanza de’ riti religiosi e delle sacre cerimonie, pure conseguirono la cognizione di Dio e l’assorbimento in lui, col solo vigilare sulle loro passioni, regolare i lor sensi e contemplare il regolatore dell’universo” (15).
Come nota il Rossetti, “questi ed altri passi dicon chiaro e ripetono che, compresa una volta l’essenza vera di Dio, cessa la necessità del culto esterno: conseguito il fine, si tralasciano i mezzi.” (16). Tale Dio abbiamo detto essere l’Intelligenza Suprema, non localizzata ma disciolta ovunque, sempre presente nella propria pienezza, come una “sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo”, e l’uomo è immagine microcosmica di questo Essere macrocosmico. L’uomo è commistione delle forze naturali e di quelle divine, unica sintesi dei mondi inferiori e di quelli superni, esso ha in sé la natura minerale tramite il sistema osseo, la natura vegetale per via del sistema vegetativo, la natura animale con i suoi istinti e pulsioni e la natura divina in potenza nelle facoltà intellettive: egli è al gradino più alto nel mondo animale-naturale, al gradino più basso nel mondo divino, sintesi media che tiene insieme il cielo e la terra, capace di elevarsi verso le più sublimi altezze noetiche così come abile ad imbruttirsi e divenire simile alle bestie. Ciò che lo rende simile all’Essere Supremo e sua più similare immagine in terra, sono le facoltà intellettive (sulla differenza tra intelletto e ragione, rimandiamo al nostro precedente articolo dal titolo Sulla Luce Intellegibile: Nous, Spirito, Destino https://www.ereticamente.net/2019/03/sulla-luce-intellegibile-nous-spirito-destino-stefano-moggio.html) le quali da potenza devono divenire atto. La mente del dio microcosmico, ovvero dell’uomo, è uno specchio che riflette: o gli appetiti dei sensi, o i sussurri dello spirito. La mente dell’umanità profana è specchio dei sensi, ovvero identificata con una falsa coscienza costruita dall’identificazione di sé con gli stimoli sensoriali che costruiscono un senso dell’io fittizio che potremmo chiamare anche “io-animale”, poiché riflesso della parte animale e istintiva del composto umano. A differenza loro, nella mente dei Sapienti (17) si riflette lo spirito assoluto secondo il loro proprio grado d’assorbimento e intesa dello stesso. Mens, ovvero mente, starebbe per meus ens, “mio ente”, ovvero il grado d’assorbimento proprio e personale di un individuo dotato di facoltà cognitive e intellettive nei confronti dell’Essere, ovvero di Dio, ovvero del Tutto che l’attornia, il quale diventa ente dal momento che la mente lo “stacca”, per così dire, dall’Essere, particolarizzandolo e rendendolo parte d’un’esperienza di soggettività (da cui meus). Le menti degli uomini, seguendo il ragionamento, sono il grado di quanto gli enti particolari umani siano riusciti ad assorbire ed integrare dell’Essere Assoluto. L’ente è l’essere divenuto, o diveniente, ovvero cristallizzato in una forma transitoria, soggetta al divenire. La possibilità di tale assorbimento, da parte della mente umana, dell’Essere in cui si è immersi, è pressoché illimitata poiché in potenza le facoltà intellettive non hanno limiti e possono giungere all’intendimento del divino. L’arcano del dio unico che segretamente veniva svelato agli adepti nei templi dell’antichità enunciava tali verità, nonché che, ad un certo grado, Dio e l’Uomo coincidono. Per quanto l’arcano della Vita, dell’Uomo e del mistero divino sia fitto ed intricato, non è del tutto insondabile dall’anelito umano.
Chiuderemo con questa nota: sia chi oggi si definisce pagano rigettando l’idea di un “Dio unico”, sia il bigotto credente in un non ben identificato unico Dio a volte castigatore e a volte misericordioso, si sbagliano. Entrambi non hanno penetrato gli enigmi delle sfingi che portano alla comprensione dell’unità dei messaggi occulti delle religioni, nonché alla convivenza del politeismo nel monoteismo: gli uni gettano via il secretum magnum per agganciarsi alle effigi dei tanti idoli che l’ignoranza erge a divinità assolute, gli altri è come se tagliassero gli arti e le membra di loro stessi. Per comprendere ciò è necessaria una certa finezza d’intelletto, insieme allo studio delle tradizioni, dei miti, dei culti del mondo arcaico, affinché ogni tassello del panorama tradizionale sia tenuto insieme secondo una logica impeccabile. Di base, la cognizione precisa e limpida di certe verità, avviene tramite una presa di consapevolezza interiore, poiché il grado d’intendimento dei misteri dell’esistenza è pari al grado d’assorbimento del proprio Nume, ovvero, possiamo dire, dello Spirito che aleggia attorno alle vite degli umani esseri, aspettando soltanto di essere afferrato e fatto carne affinché la stessa carne divenga Spirito.
Note:
1 – Sir W. Jones, On the Mystical Poetry of the Persians and Hindus.
2 – Vedi S. Moggio, L’uomo alla Luce delle Cosmogonie Arcaiche, capitolo II.
3 – G. Rossetti, Il Mistero dell’Amore Platonico del Medioevo, vol. I, p. 66.
4 – L. M. A. Viola, Religio Aeterna, vol. II.
5 – Eraclito, Fr. B 53.
6 – Rigveda, x, 81.
7 – Cfr. ad es. Leo Schaya, La dottrina sufica dell’unità, Edizioni Mediterranee, Roma 2012 (I ed. 1962, Parigi) e il nostro già citato L’uomo alla Luce delle Cosmogonie Arcaiche, capitolo II.
8 – M. Eliade, Miti, sogni, misteri, p. 173.
9 – Rigveda, I, 25, 7 e sgg.
10 – Atharva Veda, IV, 16.
11 – Kularnava-tantra, traduzione di Arthur Avalon presente in Introduzione alla Magia, vol. I, p. 77-78.
12 – Frammenti Orfici, 239b.
13 – Vedi Edda.
14 – Atti, 17, 28.
15 – Citato in G. Rossetti, op. cit., vol. I, p. 79-80.
16 – Idem.
17 – Sophoi” come li chiamerebbe Eraclito, ovvero gli uomini che hanno incarnato la Sofia, la Conoscenza trascendente.
Stefano Moggio