L’interesse scientifico-accademico, storico religioso, non fu esclusivo in Mircea Eliade. Lo studio delle antiche culture, delle mitologie di popoli disparati e l’interesse giovanile, mai venuto meno nell’età matura, per la filosofia del Rinascimento, lo indussero ad interpretare la letteratura in continuità con le narrazioni mitiche. Leggiamo infatti nell’Introduzione americana di un suo racconto fantastico, per la prima volta tradotta in italiano: «La creazione di universi immaginari coi mezzi offerti dalla letteratura può essere comparata ai processi mitologici. Ogni mito, infatti, rivela la storia o la leggenda di una creazione» (p. 19). Ci riferiamo all’Introduzione a Mircea Eliade, Il segreto del dott. Honigberger, nelle librerie per Bietti (per ordini: 02/29528929, pp. 147, euro 15,00). Il volume è curato da Horia Corneliu Cicortaş, al quale si deve un significativo saggio che accompagna il volume. A Gianfranco de Turris, uno dei massimi esegeti della letteratura fantastica, si deve lo scritto conclusivo del libro.
Questo racconto breve, come gli altri di Eliade, risulta fondamentale per avere compiuto accesso al suo mondo ideale. Come rileva de Turris, in letteratura, l’intellettuale romeno ha dato il meglio di sé nei racconti fantastici, attraverso l’adozione della dialettica del camuffamento: «La sua intenzione […] è semplicemente quella di porre il lettore di fronte a due aspetti: non solo il camuffamento del sacro nel profano, ma direi soprattutto la fuoriuscita dal tempo (storico)» (p. 135). La prima edizione de Il segreto vide la luce nell’estate del 1940, ma si trattava di un testo rivisto. Infatti, nella primavera dello stesso anno era uscito, Il regno invisibile, la «bozza» de Il segreto. In quel frangente Eliade era impegnato in lavori di diversa natura: dai romanzi alle opere di ricerca scientifica, ma scrisse le pagine che presentiamo ad: «un ritmo vertiginoso» (p. 7), dal che si evince il suo coinvolgimento esistenziale. Ma qual è la storia narrata? Quale il suo senso?
L’incipit del libro è dato dalla richiesta che una signora rivolge per lettera all’io narrante, uno studioso da poco rientrato dall’Oriente (Mircea Eliade), affinché questi possa recarsi a trovarla presso la propria abitazione nel centro di Bucarest. Si tratta della Signora Zerlendi, il cui consorte per anni si era dedicato allo studio della vita e delle opere del dott. Honigberger, personaggio storico realmente vissuto alla fine del secolo XIX. Giunto all’indirizzo convenuto: «una specie di enclave antimoderna nel centro moderno di Bucarest» (p. 136), lo studioso è introdotto dalla donna nella biblioteca. La stanza è, nella narrazione eliadiana, immediatamente attrattiva, è il «Centro» del racconto, ed è descritta con i tratti tipici della geografia mitica: qui aveva lavorato Zerlendi alla ricerca di Honigberger.
Una parte della biblioteca, l’angolo Honigberger, custodiva il diario segreto di Zerlendi, ritrovato dopo la presunta morte del ricercatore. Questi era solito vergare in modo minuzioso, ogni giorno, queste pagine: in esse riferiva quanto andava scoprendo relativamente alla vita di Honigberger. Inutile dirlo, il diario era scritto in sanscrito, al fine di preservarne il segreto. L’io narrante, provetto orientalista, decodifica lo scritto. Nelle sue pagine Zerlendi: «spiega come attraverso le pratiche psicofisiche dello yoga stia acquisendo poteri extranormali, fantastici» (p. 137). A tale pratiche era stato introdotto proprio dagli scritti di Honigberger, per la cui figura umana perse, ben presto, interesse. Ciò che davvero lo coinvolgeva era la «via» da questi aperta, ma non perseguita fino in fondo, che avrebbe dovuto condurlo verso Shambala e Agartthi, il Regno invisibile, cui alludono molte pagine della letteratura tradizionale, ma anche diversi testi di orientamento teosofico. L’io narrante si rende allora conto che Zerlendi non era affatto morto, come avrebbero voluto far credere moglie e figlia, ma era riuscito, liberandosi del corpo, a raggiungere la meta ambita dal suo predecessore: il Regno invisibile.
A questo punto, Eliade introduce il colpo di scena che chiude il racconto: il protagonista torna nella casa di Zerlendi, dalla quale si era allontanato qualche giorno prima, ma la trova sbarrata. Quando riesce ad entrarvi è costretto a confrontarsi con una situazione paradossale. Zerlendi è morto davvero, la moglie si è risposata, la vecchia domestica, che abitualmente gli veniva incontro sull’uscio, era morta da dieci anni, mentre i trentamila volumi della biblioteca erano spariti da un pezzo. L’autore ci presenta in termini narrativi una fuoriuscita dal tempo, inteso in termini moderni, meramente cronologici, e mostra che: «il tempo non ha inizio nel passato e una continuazione nel futuro ma […] può essere circolare, ribaltarsi su se stesso» (p. 138). Il narrato, pertanto, si chiude sul mistero del mondo e della vita. La domanda che il lettore è costretto a porsi è inerente le relazioni tra realtà e fantasia. Insomma, anche per Eliade, il mondo non è mai quello che dice di essere, ma è il regno dei possibili di fronte al quale, l’arroganza della ratio positiva è costretta a far un passo indietro, un bagno di umiltà.
Nel libro si fa riferimento ad un personaggio indicato con le iniziali J. E., presentato come discepolo di Honigberger, rimasto paralizzato a seguito di esperienze yogiche, inconcluse o fallite. Naturalmente, poiché Eliade conosceva Evola e la storia della sua paralisi, erroneamente attribuita a presunte pratiche magiche, è plausibile che l’autore abbia voluto ricordarlo in questo racconto. La cosa ha assunto maggior credito, come ricorda Cicortaş, in quanto il tentativo di identificazione messo in atto da Culianu di J. E. con un personaggio vissuto nelle città di Iaşi, non è andato a buon fine. Del resto, gli aspetti biografici eliadiani emergono qui di continuo, in particolare il ricordo nostalgico del soggiorno a Rishikesh in India, presso l’ashram di Swami Shivananda, in cui la pratica dello Yoga e le esperienze conseguenti, coinvolsero, in modo totale, lo storico romeno. I riferimenti al Kali-yuga e alla visione tradizionale del tempo, sembrano avvicinare Eliade al pensiero di Tradizione. Nel 1935 egli scrisse una lettera a Cioran in cui si legge: «Tutto quel che riguarda la nostra epoca crollerà in modo apocalittico». La cosa è ricordata opportunamente dal curatore (p.109). Da questo racconto, pertanto, si evince con evidenza la cultura antimoderna dello studioso romeno, le cui pagine sono illuminate da ciò che oggi appare ai più come l’impossibile Tradizione.
Giovanni Sessa