Scrive Jean Lartéguy ne ‘l’odissea dei soldati perduti da Dien Bien Fu ai monti d’Algeria’, libro apparso in Italia presso la Garzanti, anno 1966, con il titolo Né onore né gloria – recentemente ristampato con il suo titolo originario dal francese I centurioni – come ‘i vincitori odorano sempre di buono, i vinti di sudore e merda’ (cito con la mia dubbia memoria). Erano gli Anni ’60, gli anni della decolonizzazione, dello scontro in Algeria contro il tradimento del generale De Gaulle, dell’OAS, poi del film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri, che tanto successo raccolse, e dei film del regista Pierre Schoendoeffer, scomparso nel 2012 e di cui ne tratteggia un ricordo commosso e solidale Marco Valle in Confini e Conflitti, di cui su Ereticamente ne ho tratto la recensione. E mi ha riportato a mente il suo 317° section, visto allora in qualche cinema, forse il Cristallo, sotto casa mia, dove il pubblico si componeva di ragazzini servette e militari in libera uscita. In bianco e nero, storia non soltanto di questa pattuglia nella jungla dell’Indocina in lotta con i viet-minh che danno loro la caccia, ma film di formazione di cosa fosse la guerra rivoluzionaria di cui il giovane ufficiale francese prende consapevolezza fino ad esserne tragica parte ed epilogo.
Due episodi personali. Il filosofo Jean Paul Sartre s’era schierato, come era doveroso per gli intellettuali di sinistra, con il Fronte di Liberazione algerino ed era stato invitato in Italia a tener delle conferenze sul tema dal Partito Comunista. Una tappa a Roma, al teatro Brancaccio. Allora mi ero iscritto, credo da poco, alla Giovane Italia. E ci fu detto dai responsabili di andare al convegno, lanciare dei volantini, prendere a schiaffi il pubblico composto da ‘studentelli vecchie isteriche e froci’… Ci trovammo, al contrario, il servizio d’ordine composto dai camalli di Genova con mani callose e larghe simili a palanche. La prudenza ci avrebbe dovuto consigliare il filarcela in rispettoso silenzio, quatti e buoni. Si sa, però, che, la cantavano già gli squadristi armati di manganello e olio di ricino, strafottenti e audaci, ‘se non sono matti non ce li vogliamo’. E così il più impertinente incosciente masochista per vocazione lanciò un fascio di volantini, finendo sommerso da uno sciame operoso e corposo che voleva farne polpette. Che fare? L’indifferente è poco elegante e giù a darsi da fare per…ricevere una personale dose di botte.
Cinema Rialto, al centro di Roma, spazio notorio di zecche e dintorni. Proiettano La battaglia di Algeri (per anni la proietterò a scuola per gli alunni dell’ultimo anno). Si va? Ovvio che si va… In platea il gruppo più numeroso di noi – rispetto ai compagni, siamo sinceri, poca cosa –, in galleria in tre soli. Scena mitica: i parà sfilano per le vie d’Algeri. Avanti a tutti il colonnello Mathieu basco occhiali neri maniche arrotolate sopra i gomiti. Partono dal pubblico bordate di fischi urla invettive… ‘Viva i paracadutisti! Viva l’OAS!’ con saluto romano d’obbligo dalla galleria. Risposta: ‘ Vi ammazziamo! Carogne! Assassini!’ ed altro. Finisce il film. La galleria s’è spopolata. Per uscire una rampa ripida di scale un corridoio stretto ai cui lati si sono posizionati brutti ceffi di varia stazza. ‘Chi di voi ha gridato viva i paracadutisti?’. Domanda retorica. ‘Noi!’ e tre braccia tese. Si fendono le due ali, poi, all’improvviso una gragnola di colpi; si esce con Roberto che perde sangue dalla testa; arrivano gli altri attrezzati alla bisogna; due o tre zecche mordono l’asfalto e gli altri lesti nella notte e nel traffico preferiscono darsi a gambe. Passando lungo il corridoio Saverio si rivolge ad uno grande e grosso con il casco della moto fra le mani. ‘Che fai? Ci caghi dentro?’. Rissa garantita…
La guerra rivoluzionaria – scriveva nel suo Libretto Rosso il presidente Mao che del nemico va dispregiata la strategia, si deve intendere la tattica – quale prodotto dell’ideologia, cioè di una visione onnivora per dare risposta in termini totalitari all’uomo e al mondo. Certo dove e quando collocare l’esito promesso? Fino a instaurare il dominio della felicità, pensava l’avvocato di Arras M. Robespierre, gesuita della rivoluzione, nel suo lettuccio monacale e parco nel mangiare, oppure ammoniva il Che essere come una bicicletta che, se si ferma, cade a terra… Il primo lascia la testa sotto la ghigliottina, dopo essersi frantumata la mascella con un colpo di pistola, ma i termidoriani gli annodarono uno straccio perché potessero portarlo, la mattina dopo, davanti all’umanissima lama; il secondo andò a inselvatichirsi nella selva boliviana e la sua morte è tuttora avvolta nel mistero, se ucciso dai rangers del capitano Videla o con la gola squarciata dal machete di un giovane contadino…
Al ritorno da Lexington i soldati inglesi furono decimati dai ‘patrioti’ che, memori delle guerre indiane, li attendevano nascosti nei boschi e scaricavano su di loro rabbia e pallettoni da caccia. E lo stesso fecero dall’alto delle colline di Boston alle ‘schiene d’aragosta’ che avanzavano secondo la tradizione militare del Settecento, in file serrate baionetta innestata rullo di tamburo bandiere al vento. Un secolo e mezzo dopo ancora gli eserciti d’Europa usarono il medesimo metodo, saltare fuori dalle trincee all’arma bianca urlare e lanciarsi attraverso la ‘terra di nessuno’ contro mitragliatrici e filo spinato. Qualcuno ha descritto la scena dopo la battaglia come corpi simili a panni stesi ad asciugare al sole… E la seconda guerra mondiale, usura contro lavoro certo, come poetava Pound, ma anche visione del mondo ideologia annientare il nemico di classe tutto è lecito…
Mi raccontavano alcuni combattenti della Repubblica Sociale, quelli che avevano imparato riflettuto dalla esperienza nella guerra civile – ‘novelli centurioni’ come li avrebbe definiti Lartéguy – di come si trovarono ingenui sprovveduti indifesi di fronte ai partigiani comunisti, addestrati alla scuola di Mosca e fattisi le ossa nella guerra di Spagna, che combattevano per instaurare anche in Italia la dittatura del proletariato. La rappresaglia, ad esempio, uccidere anche donne vecchi e bambini, il semplice iscritto al partito, nessuno deve sentirsi garantito, assicurare il salvacondotto e poi iniziare la strage… tutti borghesi o al servizio della borghesia (come divenne il MSI, di fatto), nemici del popolo, sicuri del ‘sol dell’avvenire’ e, di contro, larve di valori parole d’ordine senso dell’imminente sconfitta (valori che rimangono in noi quale metro coattivo del nostro comportamento, ma difficilmente spendibili nella lotta politica, a cercar la bella nobile morte, sì, ma in guerra – e questo nostro quotidiano è pur sempre espressione di quella eterna lotta del sangue contro l’oro – o ci si batte per vincere o non ci si batte… nonostante mi commuova ancora rileggendo le ultime battute del mio amico compagno sodale mito Cyrano de Bergerac).
I libri di Lartéguy sono certo datati – dopo Africa addio i mercenari nel Congo cosa resta e che senso ha ancora parlare della difesa dell’uomo bianco? –, ma rimane il concetto di guerra rivoluzionaria, del soldato politico, del combattente al servizio dell’Idea, del tradimento dei chierici… Film come Rambo Il cacciatore Apocalypse Now ed altri hanno riscattato nell’immaginario USA l’ambasciatore americano che fugge dal tetto dell’ambasciata di Saigon in elicottero e sotto il braccio la bandiera arrotolata. (Noi abbiamo visto quei film e di alcuni ci siamo lasciati coinvolgere – il monologo di Marlon Brando o la scena ove Robert de Niro risparmia il cervo –, ma rimaniamo inossidabili gaudenti per la sconfitta in Viet-nam e pensiamo sia bello volare verso le torri gemelle)…
Nonostante ciò – unica regola la conquista del potere per chi crede nella lotta politica –, tra i libri sparsi e ammucchiati ormai in pile abbiamo la fotografia di Filippo Corridoni, sindacalista rivoluzionario fattosi interventista, della chiesetta di Alfonsine, dove furono sepolti i primi caduti del btg. Lupo sul Senio, di Robert Brasillach con lo sguardo mite e triste di Mila, bella oh sì bella e disperata ‘all’ombra del padre’, di Ugo Franzolin, corrispondente di guerra della Decima giornalista scrittore amico, di Ricardo anch’egli con lo sguardo assorto e presago la fotografia con dedica di Leon Degrelle il frammento di camicia nera di uno di quei giovani sabotatori, aprile 1944, fucilati presso le cave di S. Angelo in Formis un kimono di colore nero e la grande bandiera, bianca e al centro la croce dei cavalieri teutonici, della marina imperiale che, pur di non consegnarsi al nemico al termine della Prima guerra mondiale preferì autoaffondarsi nelle acque di Scapa Flow…
Eppure noi, al di là del bene e de male, noi che distinguiamo l’etica dalla morale, noi aristocratici e anarchici e fascisti, per un sì o per un no, faccia al sole e in culo al mondo, unici avendo fondato noi stessi nel nulla e dalla nientità fattici disperati folli alteri e orgogliosi, noi preferiamo ancora il corpo che emana il sudore del lavoro lo sperma del sesso appagato la merda e il fango del combattente ovunque e comunque… Noi soli, noi pochi, noi felici, noi…
Michele Mario Merlino
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