18 Luglio 2024
Controstoria

Mentitori e falsificatori

 

“Non è in buona fede e non ha retta coscienza chi non sa o non vuole riconoscere l’assalto di una nuova specie che il nemico ci ha mosso. Abbiamo resistito e resistiamo ancora, serenamente e senza tentennare, pensando che il martirio varrà un giorno ad illuminare la nostra azione e a conquistare i ciechi e gli increduli” (manifesto affisso dal fascio lucchese dopo i fatti di Valdottavo, 21 maggio 1921)

 

Che la storia la scrivano i vincitori è una verità fin troppo risaputa; che questa scrittura richieda aggiustamenti e accomodamenti è altrettanti risaputo; che si arrivi alla menzogna ed alla falsificazione è un po’ più difficile da ammettere.

E, invece, succede, in varie forme: si può dire una menzogna su un fatto non documentato o privo di testimoni; si può falsificare un documento; si può alterare (anche solo “forzandola”) una testimonianza; si può inventare di sana pianta una versione diversa dalla realtà, fidando solo sull’autorevolezza dell’autore dell’invenzione.

Ma si può anche partire da un documento vero, e, con un’opera di “taglia e cuci” trasformarlo in una cosa “altra” e fargli dire una verità “altra”.

In un esempio minimo minimo sono incappato giorni fa, e ve lo racconto qua.

IL FATTO

Il 21 maggio del 1921, una ventina di squadristi lucchesi, guidati da Carlo Scorza (destinato a futura ma incerta fama, perché ultimo Segretario del PNF, nominato il 19 aprile del ’43, terrà, prima, durante e dopo la famosa riunione del 25 luglio, un comportamento unanimemente criticato) si recano in camion a Valdottavo per presenziare alla fondazione del locale fascio di combattimento.

Terminata la cerimonia, alla quale, in un teatro, hanno assistito – e questo è abbastanza inspiegabile – quasi sino alla fine, un po’ defilati, ma indisturbati, tre noti sovversivi del luogo, il camion riparte, nella massima tranquillità.

Giunto in località “Croce Celata”, poco prima di Rivangaio, l’automezzo – sul quale ha preso posto lo stesso Scorza – viene centrato in pieno da molti massi (alcuni del peso vicino al quintale), fatti precipitare dall’alto (monte Elto).

Un macigno particolarmente grosso (sarà prima conservato nella sede del fascio di Lucca e successivamente esposto alla Mostra della Rivoluzione Fascista), battendo su una roccia sporgente per la china del monte, fa una parabola e piomba sul veicolo. Vi sono due morti, gli studenti universitari Gino Giannini e Nello Degl’Innocenti, quattro feriti gravi e svariati feriti leggeri, tra i quali lo stesso Scorza.

Le indagini, condotte dalle forze dell’ordine, portano al fermo di quattordici persone, tre delle quali vanno poi a processo. Sono gli stessi tre individui vista alla cerimonia fascista; la tesi accusatoria è che fossero lì per procurarsi un insospettabile alibi, salvo poi allontanarsi prima della fine, per predisporre l’agguato.

I tre, durante il processo, cadono in contraddizioni, e si accusano tra loro; in particolare, ad uno viene addebitata dagli altri la frase: “Se vengono i fascisti, gli faremo una scarica di pietrate”. Riconosciuti colpevoli verranno condannati a pesanti pene detentive.

PETTEGOLEZZI DI PAESE

Nel 1932, in coincidenza con la caduta in disgrazia di Scorza, che viene allontanato da Lucca, cominciano a circolare – ad opera dei suoi avversari interni al PNF – delle voci secondo le quali si sarebbe trattato di un’imboscata simulata dai fascisti stessi, su ordine del loro capo, che così voleva accrescere il suo ruolo nell’ambito del movimento e avere “mano libera” nella sua azione squadrista.

Il futuro ultimo segretario del PNF risponde, immediatamente, con una lettera a Mussolini, nella quale ribadisce la sua assoluta innocenza e definisce “infamia” l’accusa.

Tale essa viene, in effetti, considerata dal vertice del Regime, e, anche nel dopoguerra, la Magistratura non riterrà – nonostante il clima sia tutt’altro che favorevole ai fascisti sconfitti – di dover riaprire il caso, confortata da un rapporto della Prefettura che, sia pure un po’ pilatescamente, nella sostanza ribadisce la colpevolezza dei tre sovversivi condannati a suo tempo.

Personalmente credo che l’ipotesi di un attentato “costruito” non abbia né capo né coda:

  • Scorza non ne ha bisogno per riaffermare la sua autorità sul fascio lucchese, né per organizzare “rappresaglie” (che poi, in effetti, non ci saranno, se si esclude un morto, probabilmente estraneo ai fatti);
  • solo un aspirante suicida potrebbe pensare a farsi cadere addosso, dall’alto, una valanga di pesanti massi di su una strada tortuosa e piena di curve;
  • la stessa magistratura che condanna i tre responsabili (e ne manda assolti altri undici), quasi in contemporanea assolve la gran parte degli accusati dei ben più gravi fatti di Sarzana, a riprova di un’impermeabilità a pressioni per sentenze di comodo. Per non dire che identica cosa avverrà nel dopoguerra, senza nessun procedimento a carico di Scorza o altri fascisti della zona.

LA MENZOGNA E IL FALSO

Cercando on line qualche notizia in più su questo episodio (che io sappia, non esiste un libro sul fascismo lucchese delle origini) mi imbatto in un articolo apparso su “La Nazione” del 21 giugno 2010; eccone un estratto:

“(E’ solo un’infamia la voce per cui) l’imboscata sarebbe stata preparata da me allo scopo di giustificare la violenza squadrista. Vero è che…la mia intenzione non fu omicida, ma voleva limitarsi solamente ad una simulazione: l’eccidio avvenne per pura fatalità.” Con queste parole autografe, scritte al duce il 1° settembre 1932, e firmate da Carlo Scorza, oggi, a quasi 90 anni dai fatti, salta fuori la verità, finora solo presunta, sulla colpevolezza del segretario del Partito fascista a Lucca in relazione al famoso eccidio di Valdottavo del 1921”

“Accidenti – mi dico – roba da non crederci: un fascista che ammette di aver organizzato un finto attentato nel quale due suoi camerati sono morti, quattro feriti gravemente, e, ciò nonostante, diventa, di lì a qualche anno, Segretario Generale del PNF”

Le cose non stanno affatto così: ecco il testo integrale della lettera:

“Duce… sono accusato di assassinio. Il dott Vasco Giannini, fratello di uno dei martiri di Valdottavo, mi scrive oggi che è stata diffusa la voce che l’imboscata, in cui caddero schiantati dai massi due nostri camerati, e quattro rimasero feriti, sarebbe stata preparata da me allo scopo di giustificare la violenza squadrista. Tale infamia si è diffusa perché il babbo dell’altro martire, Nello Degli Innocenti, è stato chiamato in Federazione, e gli è stata comunicata con circospezione la notizia. Vero è che COLORO CHE LO HANNO INTERROGATO HANNO AGGIUNTO CHE la mia intenzione non fu omicida, ma voleva limitarsi solamente ad una simulazione: l’eccidio avvenne per pura fatalità. Duce vogliate comprendere il mio dolore. Per me chiedo solo che voi crediate alla mia fedeltà”

 

Anche sorvolando sul restante “taglia e cuci”, con l’eliminazione delle parole che per comodità ho messo in maiuscolo, il giornalista (si chiama Paolo Bottari) stravolge il senso della lettera di Scorza, che non è assolutamente una confessione di colpevolezza, ma, anzi, l’orgogliosa rivendicazione del proprio operato e la richiesta che la verità sia ristabilita, contro le menzogne di avversari interni di Partito.

Un autentico falso, che andrebbe punito a norma di codice penale… se penso che, in un prossimo futuro, qualche ignaro studentello di liceo (ma non solo) potrebbe servirsi anche di quell’articolo per ricostruire i fatti, rabbrividisco…

 

Giacinto Reale

 

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