10 Ottobre 2024
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Le piume e i rovi

Della serie: anche da credenti e da ferventi cattolici si può essere buoni patrioti. E’ più o meno questo il senso del libro di memorie belliche scritto dal marò del battaglione Fulmine Giovanni Schinetti “Le piume e i rovi – Un cattolico nella Decima Mas”, Novantico editrice, pag 243, compreso un corposo archivio fotografico e una cronologia dei fatti. Un’opera che nell’assenza pressoché totale di dialoghi e di trama assume a volte i connotati del saggio, se non addirittura del diario di guerra. Il teatro d’azione è quello dell’Italia di nord est, Veneto e Friuli Venezia Giulia in primo luogo, avamposti di strenua resistenza – a Fascismo ormai caduto e a Repubblica Sociale agonizzante – da parte di un pugno di italiani e di tedeschi contro il terribile IX Corpus titino lanciato all’assalto del nostro inerme confine orientale.

L’obbiettivo degli slavi è il Tagliamento. Quello dei nostri marò è ostacolarli in ogni modo. Si tratta di una gloriosa pagina di storia nazionale volutamente dimenticata dalla vulgata resistenzialista per il semplice – e vergognoso – fatto che per ordine di Togliatti i comunisti italiani non solo non dovevano opporsi alla prepotenza dell’armata del maresciallo, ma avrebbero dovuto solidarizzare e collaborare con essa. Uno scellerato patto di alleanza che secondo i satrapi rossi andava “sublimato” nello sterminio per infoibamento dei fascisti del luogo – vale a dire degli italiani tout court – per poi regalare il territorio così “bonificato” al compagno Tito.
La Decima Mas del comandante Junio Valerio Borghese, invece, e in particolare il battaglione Fulmine del comandante Giuseppe Orrù e del capitano Eleo Bini, assieme coi battaglioni Barbarigo, Sagittario, N. P. e Valanga, alla faccia di Togliatti e dei suoi tirapiedi, non si rassegnarono all’ineluttabile e costituirono una valida barriera alle mire slave. Particolarmente coinvolgente il capitolo che concerne la battaglia di Tarnova. Numerosi gli atti di eroismo compiuti da parte dei nostri soldati, assillati dal gelo e dalla scarsezza di mezzi e vettovagliamento, anche se nello svolgimento delle operazioni si ha quasi l’impressione che lo Schinetti si limiti ad elencare vicende di cui egli stesso è stato soltanto lo spettatore. Tra le pagine del libro, a volte trasuda, oltre all’amarezza per l’oblio calato su quelle vicende, anche una involontaria vena comica.
Ad esempio nella sconsolata frase che l’anonimo partigiano sussurra all’orecchio dell’autore, che, ormai prigioniero, sfila a Giavenale, frazione di Schio, come una preda di guerra tra due ali di folla accorsa numerosa e festante a insultarlo e – solo ora, a ostilità concluse – irriducibilmente “resistente”: <E pensare che questo inverno, quando gli altri stavano al caldo in casa, noi in montagna eravamo solo una ventina>. E così per tutto il racconto, tra una missione e l’altra, veniamo a conoscere numerosi personaggi della cronaca dell’epoca, quasi sconfinando nel reportage. Il pugile Primo Carnera, ad esempio, il campione mondiale dei pesi massimi, incontrato da Schinetti a Sequals. A Maniago invece l’autore s’imbatte in Antonio Centa, attore di grido, mentre a Tarnova fa amicizia con Benito Lorenzi, futuro attaccante dell’Inter. A Vicenza riconosce Mauro de Mauro, il celebre giornalista che nel dopoguerra sarebbe rimasto vittima della lupara bianca. A Coltano, tra gli internati resi folli dalla calura e dalla denutrizione, tra pestaggi, purghe e vaccinazioni a go-go, si trova a tu per tu con Ezra Pound, con Vito Mussolini, figlio di Arnaldo fratello di Benito, con Vidussoni, ex segretario del Partito Fascista, col generale Carloni, comandante della Monterosa, col comandante del reggimento paracadutisti Folgore Maggiore Sala, col vicecomandante della Decima Mario Arillo, coi generali Bonomi, Farina, D’Alba, Frigerio, Agosti, Adami Rossi, Lotti, Berti, Gambara, Canevari. Nel campo accanto al suo c’era pure Fiorenzo Magni, giovane promessa del ciclismo.
Ma neppure i numerosi lacerti di cronaca, potremmo dire “rosa”, riescono a mitigare il magone che pervade il racconto. Un’atmosfera resa ancora più sconsolata dal fatto che loro, i nostri ragazzi, pensavano ancora – illusi – di combattere contro un nemico “leale”. Vale a dire cavallerescamente e faccia a faccia. E, sognatori e romantici quali sono, sulle prime provano riluttanza a sparare sui “fratelli” italiani. I quali, al contrario, specialmente quelli d’osservanza comunista, non hanno remore di alcun genere. A farne le spese per primo è il povero comandante del reggimento Barbarigo, Bardelli, ucciso a tradimento mentre, disarmato, parlamentava con un gruppo di civili. L’orrore dei cadaveri di Bardelli e dei suoi commilitoni con le bocche riempite di letame a oltraggio post mortem lo sconvolge.
Ma il racconto è una continua discesa agli inferi, nel più profondo delle tenebre della ragione, tra atrocità e nefandezze di ogni genere che in un conflitto fratricida assumono, se possibile, tinte ancora più inquietanti. L’agguato, il tranello, il colpo alle spalle, sono la caratteristica della assai poco cavalleresca “guerra” condotta dai partigiani in quella maledetta estate del ‘45. Una guerra proseguita anche a ostilità concluse. E con massacri seguiti a infide promesse di “incolumità”, di “lasciapassare”, di “onore delle armi”. Macché. Altro che onore delle armi. “Pietà l’è morta”, si andava dicendo, e “l’onore delle armi” spesso non era altro che una sventagliata di mitra che ti raggiungeva in pieno volto magari dopo feroci pestaggi e bestiali torture praticate con barbara efferatezza.
Valga per tutti l’esempio di Marcello Piccinini, il quale, parole dell’autore, <fu relegato una settimana dentro un porcile, legato e in ginocchio e per mangiare doveva immergere la testa nel beverone dei maiali al quale i contadini aggiungevano la loro urina. Poi passò in un’altra casa dove gli fecero la “stiratura della canottiera” che consisteva nel passare un ferro da stiro rovente sulla maglia fino a quando questa fosse penetrata nella pelle. Quando poi capirono ch
e stava per morire lo portarono in paese come un trofeo e lui che era di statura dritta e imponente camminava a stento e molto curvo. Suo figlio che era tra la folla imbestialita si avvicinò al padre urlando e chiedendo perché gli avessero fatto quelle torture; Marcello Piccinini si girò verso il figlio e gli accarezzò il volto sul quale rimase un’impronta di sangue. Ormai Marcello non ce la faceva più a stare in piedi. Lo caricarono su una carriola e lo portarono al comune per impiccarlo al pennone della bandiera. Ma questo fu giudicato troppo poco e così lo portarono verso casa sua, che stava addossata alla Rocca Bolognese. Suo padre, seduto su una sedia, davanti alla porta, vide il figlio trapassato dalle scariche dei mitra e dopo pochi mesi morì di crepacuore. Il medico accertò che il corpo di Marcello Piccinini era stato maciullato dalle torture e colpito da più di 40 pallottole>. Ma c’è dell’altro. L’eccidio di Schio, la strage di Bomporto, la vicenda della “corriera fantasma”.
Sono tutti delitti partigiani dei quali l’autore viene a conoscenza o dei quali è spettatore diretto, e lo stesso Bruno Lazzari, cugino dello scrivente quasi in odore di santità, ci lascia le penne col solito metodo del “colpisci a tradimento e scappa”. E malgrado tanto dolore, lo Schinetti, nelle vesti di capoposto presso la stazione ferroviaria di Ponte Canavese, quando ha la ventura d’imbattersi in una Topolino nera guidata da un sacerdote con a bordo dei capi partigiani, li lascia andare incolumi. Potenza della misericordia del credente!
Angelo Spaziano

2 Comments

  • Dante Schinetti 11 Luglio 2019

    Grazie Signor Angelo per la presentazione. Il babbo ha voluto lasciare una traccia di verità storica e forse qualcosa di più.
    Dante Schinetti.

  • Dante Schinetti 11 Luglio 2019

    Grazie Signor Angelo per la presentazione. Il babbo ha voluto lasciare una traccia di verità storica e forse qualcosa di più.
    Dante Schinetti.

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