Cento anni sono trascorsi dal primo, grande!, conflitto mondiale. Cento anni. Un secolo da quando l’Europa bruciò nel proprio fuoco.
Dieci decenni fa gli eserciti di tutto il “vecchio continente” si attestavano sui propri confini, rivolti verso i rispettivi nemici.
Si credeva che sarebbe stata una “bella e veloce avventura”. Che il canto dei cannoni sarebbe cessato in un baleno. Ma i proclami di guerra tempestiva e facile sconfitta del nemico, si fecero strame nel duro impatto con la storia.
La guerra imperversò nelle terre Europee per ben 5 anni. Il prezzo di sangue fu altissimo, circa 17.379.773 vittime, fra soldati e civili, costò questo immane conflitto. Un prezzo fra i più alti mai assistiti fino ad allora.
L’Europa rischiò quasi di perdere se stessa.
Ma a cento anni che cosa ne rimane realmente nelle menti e nell’immaginario dell’uomo di oggi?
Si rammenta molto passivamente l’anniversario storico, si cerca persino di non ledere la tranquillità sociale ommettendo e passando in sordina anche lo stesso avvenimento. Lo si inabissa nel lento sonno dell’assenza di emozioni. O peggio, in questa Italia, in questa nuova Europa, in questa “Unione Europea”, solerte nel farsi panacea a qualsiasi male, individuando in modo certosino qualsiasi “mezzo” volto a rammentare al volgo la sua natura incontrovertibile, si ostenta il richiamo alla vergogna, al “mai più”, rammentando solo le vittime e stroncando qualsiasi celebrazioni edificante l’eroismo, prima ancora la vittoria. Così questa “civile” Unione, si può perpetrare nel dubbio al di fuori di essa, e nella paura senza essa. Nel terrore che con la mancanza dell’Europa di Bruxelles, si potrebbe ricadere nell’odio, nel fuoco delle polveri, nella terra intrisa del sangue dei campi di battaglia.
Davvero è tutto licenziabile in un’affannosa preghiera scongiurante?
Da quando esiste l’uomo, esistono le guerre. Sono un’ineluttabilità. E volendo, sono il dato ultimo di un “conflitto” più impercettibile. In antichità “la guerra” era vista come l’altra faccia della pace. Con essa si compiva e concludeva un ciclo che, dopo l’agio e la tranquillità dell’epoca serena, sfociava nel ritorno alla marzialità, al dovere, al sacrificio dati dall’epopea guerriera. Ed è in tali termini la guerra veniva venerata.
La guerra come fautrice di coraggio, come creatrice di eroismo, come linfa del nuovo che si appresta a nascere dalle battaglie. La prima guerra mondiale, prima delle vittime, prima dei posteriori anatemi contro di essa, prima della pace ad ogni costo, fu tutto questo.
Nel conflitto che andò dal ’14 al ’18 del secolo scorso, un mondo perì ed un nuovo esordì. Un altro corso battezzato nel sanguinoso lavacro sgorgante dalle vene dei soldati. Un’epoca apertasi nel segno della tragedia, perché solo le epoche istitutrici del nuovo e del grande, abbisognano di essa.
Quello che venne dopo, indipendentemente dal giudizio, è stato qualcosa di unico! E questo “Unico” è stato realizzato dalla mutata coscienza sociale che il conflitto aveva dato. L’intraprendenza degli alpini, la temerarietà degli arditi nel saltare dentro le trincee nemiche, pugnale in bocca e bomba in mano, le ultime grandi cariche delle cavallerie e le loro sciabole al vento. Come detto, da tutto questo scaturì una nuova coscienza creatrice. Una coscienza che oggi manca come manca la creatività, perché non si concepisce più la tensione.
Nell’epoca che precedette la grande guerra, i pacifismi di ogni sorta si sprecavano. Come nella domenica appena passata ed in quell’ormai privo di forza spettacolo che è la Marcia della Pace Perugia – Assisi.
Tanti i carri, le musiche, le bandiere e gli slogan che echeggiavano lungo il tragitto della Marcia. E da rituale i discorsi si intessevano al segno dell’antimilitarismo, del famoso “Guerra alla Guerra”. Con smielate urla che avrebbero infastidito anche Aldo Capitini.
Il mondo è in guerra e qui si parla di pace!
Il mondo ricorda la guerra e qui si parla di pace!
Lungi dall’idolatrare la morte e la vita persa. Ma in una contingenza così guerreggiante certi atteggiamenti risultano essere stomachevoli e prima di questo, anacronistici!
E’ un dato pragmatico della inesistente percezione della realtà che avvolge il tracotante “Occidente”.
Anni di consumo sfrenato, di ricerca spasmodica del benessere, questo faustismo scellerato ha infiacchito la nostra parte del globo. Si ci inorgogliva quando si riusciva ad eludere il servizio militare, e boati di gioia vennero liberati alla sua cancellazione. Ci si reputava civili ed evoluti nel perdere qualsiasi contatto con le armi e si bollavano come trogloditi i paesi che ancora ne facevano uso.
Ora che la guerra sembra riemergere e farsi più prossima, si riparte con la pacifica retorica. Ma questa convinzione di superiore civiltà nei confronti degli scenari belligeranti, sottende il vero sentimento. La paura! La paura perché a dispetto di quello che si credeva il mondo mite e globalizzato, oggi c’è ancora chi riesce a concepire le battaglie.
I conflitti scoppiano si per interessi, si per tensioni geopolitiche, ma anche e soprattutto per mancanza di marzialità. Per totale aborro dell’arte militare, tipico delle civiltà in decadenza.
Da una parte il cinismo della geopolitica crea gli scontri, qui si gioca a fare gli apostoli della pace e da un’altra parte si scopre e si riconferma il valore del soldato, un valore che addirittura viene riportato nelle scuole, come ne è un esempio la odierna Russia, fatto che si va a sommare alle condanne che s’innalzano dalla nostra opinione pubblica verso di essa.
Che traspare da tutto ciò? Che le nazioni in cui certe qualità del militarismo non sono perse, cioè l’autorità ed il dovere, riescono a farsi forza e a contrastare la crisi economica e morale, mentre in certe nazioni dove l’opulenza si è fatta valore sociale, si risprofonda nella povertà. Che le nazioni con gli “addominali” parlano di guerra, e le nazioni con il “ventre flaccido” parlano di pace.
E quando la guerra arriverà? Tranquilli! Qui si parlerà di pace.
Federico Pulcinelli