Torniamo ad aggiornare questa serie di articoli con le informazioni più recenti circa il dibattuto tema delle origini, dal momento che l’idea che abbiamo circa esse è un elemento essenziale della concezione che abbiamo di noi stessi. L’ambito di questa tematica, l’abbiamo visto, si presta a suddivisioni piuttosto ampie a seconda della scala temporale che abbiamo deciso di adottare, quanto vogliamo risalire indietro nell’esplorazione del nostro passato.
Questi articoli si sono collocati in genere in tre archi temporali abbastanza definiti: l’origine della nostra specie, quella delle popolazioni indoeuropee, e quella di ciò che possiamo chiamare civiltà. Fa un po’ eccezione il pezzo che ha preceduto questo, dedicato a esaminare la ripresa della civiltà europea in età medioevale dopo i “secoli bui” (occorre una volta di più sfatare la leggenda illuminista: per “secoli bui” si può intendere solo il periodo di caos seguito immediatamente alla caduta dell’impero romano, dopo di esso nell’Età di Mezzo la civiltà europea ebbe i suoi momenti di grandezza), dove abbiamo trovato una volta di più l’occasione per sfatare la leggenda della “luce da oriente”: l’Europa si risollevò con le sue forze, e il debito che ebbe nei confronti del mondo islamico mediorientale fu minimo o nullo, e l’islam agì semmai come disgregatore di civiltà, come portatore di imbarbarimento, cosa che – se ne può essere sicuri – non mancherà di fare neppure nell’età presente.
Questa volta ci muoveremo aggiungendo tasselli, ormai marginali, rifiniture se vogliamo, al nostro mosaico, un po’ lungo tutta la scala, al punto che questo nuovo articolo potrebbe essere assegnato a una qualsiasi delle diverse sezioni in cui abbiamo diviso la nostra ricerca delle origini, tuttavia ho deciso per “Ex Oriente lux” in considerazione del fatto che quello che è un po’ l’argomento principale che veniamo a toccare, la smentita della presunta origine orientale degli Etruschi, costituisce un’ulteriore confutazione di questa fiaba della “luce da oriente” che sembra ancora persistere così tanto fra i nostri contemporanei (complice sempre il peso di un libro “sacro” scritto nell’area mediorientale).
Io credo che ci si potrebbe sorprendere del fatto che dopo il lavoro svolto in questi anni sulle pagine di “Ereticamente” (anche altrove, s’intende, ma questo è ormai diventato il mio sito di riferimento), sia ancora necessario aggiungere qualche tassello alla concezione delle nostre origini così come l’ho delineata. In realtà, si tratta di conferme e approfondimenti di cose che abbiamo già visto.
Vediamo dunque le ultime nuove recentemente emerse sulla sempre controversa questione delle origini. Possiamo partire da un articolo pubblicato il 18 settembre sulla sezione scientifica di La Repubblica.it, “Scoperta una nuova popolazione ancestrale, è nel DNA di noi europei”. Quel che riporta la versione on line del noto quotidiano, è la ricerca sul genoma degli europei preistorici e moderni condotta in collaborazione fra l’università statunitense di Harvard e quella tedesca di Tubinga di cui vi ho parlato più di una volta. Da questo articolo apprendiamo che di questo team internazionale hanno fatto parte anche due ricercatori italiani, Valentino Romano e Francesco Calì.
Come abbiamo visto in precedenza, questa ricerca ha evidenziato che il patrimonio genetico degli europei attuali risale a tre distinte popolazioni preistoriche: una popolazione molto antica che forse risale all’uomo di Cro Magnon e rappresenterebbe la più remota presenza sapiens sul nostro continente, una popolazione neolitica di probabile origine mediorientale che si suppone abbia portato nel nostro continente l’agricoltura, e un terzo gruppo di antichi cacciatori-raccoglitori che è stato denominato eurasiatico settentrionale, e sarebbe anzi la popolazione che ha lasciato negli Europei la maggiore impronta genetica, per non dire nulla del fatto che il suo genoma si ritrova nella proporzione di 1/3 anche presso gli Amerindi, fatto che viene a rafforzare notevolmente la teoria secondo la quale la cultura Clovis e poi tutte le altre culture dell’America precolombiana avrebbero anch’esse una base “bianca” rappresentata da popolazioni di origine europea migrate attraverso l’Atlantico durante l’età glaciale.
Bisognerebbe, per la verità anche tenere conto della tenue ma riconoscibile traccia lasciata nel nostro patrimonio genetico anche dall’uomo di Neanderthal (circa il 2% dei nostri geni), che farebbe salire il numero delle nostre popolazioni ancestrali a quattro.
Gli esiti di questa ricerca li avevamo già esaminati, e vi avevo evidenziato come essa dia un colpo mortale all’ipotesi del cosiddetto nostratico; se infatti le lingue e le popolazioni indoeuropee si fossero diffuse in Europa assieme all’agricoltura a partire dal Medio Oriente, la componente di origine mediorientale sarebbe dovuta essere di gran lunga più forte di quanto riscontrato, stante il fatto che l’agricoltore sedentario gode di un considerevole vantaggio demografico rispetto al cacciatore-raccoglitore nomade che non ha modo di incrementare le proprie risorse, ma solo utilizzare quel che l’ambiente occasionalmente gli offre.
Rispetto a tutto ciò che abbiamo già visto, oltre al contributo dei due ricercatori italiani, questo articolo aggiunge soprattutto un’informazione: l’esistenza della popolazione ancestrale eurasiatica settentrionale, la terza componente rispetto alle due già conosciute e che – a sorpresa – si rivela quella maggioritaria, non è stata determinata sulla base di ritrovamenti archeologici o paleoantropologici (strumenti o resti umani), ma esclusivamente tramite la ricerca genetica.
E’ un punto sul quale occorre riflettere: nel nostro patrimonio genetico c’è la traccia della nostra storia, interi capitoli che credevamo perduti e che la ricerca sta man mano riportando alla luce. Per il potere dominante oggi nel mondo cosiddetto occidentale che basa la sua legittimità su di una concezione artefatta dell’uomo, la sedicente democrazia, questo può diventare un problema sempre più serio. Come reagirà? Probabilmente scoraggiando la ricerca stessa attraverso un sistema censorio e inquisitorio, e alla fine sarà sempre più difficile scorgere delle differenze di principio fra la cosiddetta democrazia e, ad esempio, i talebani.
Un altro articolo di grande interesse dal nostro punto di vista è stato pubblicato a metà ottobre sul sito di Saturnia Tellus ma anche in questo caso si tratta di una conferma. La questione non è nuovissima, e riguarda un tema che è stato lungamente dibattuto, quello dell’origine degli Etruschi.
Nell’antichità alcuni sostenevano che gli Etruschi fossero originari della Lidia, regione dell’Asia Minore, credo che il primo a sostenere questa tesi, ma mi posso sbagliare, sia stato Erodoto. La cosa non deve stupire: a partire dalla diffusione dei poemi omerici, attribuire a qualcuno o a qualcosa un’origine da quest’area era un segno di distinzione, gli stessi Romani si ritenevano discendenti dai Troiani fuggiaschi guidati da Enea, leggenda che non aveva e non ha nessuna base storica. Nonostante che la presunta origine lidia degli Etruschi fosse controversa già in età antica, in seguito è stata supinamente accettata ed è giunta fino a noi, al punto che ancora oggi molti ricercatori sono inclini ad attribuire agli Etruschi una provenienza da qualche parte in Oriente.
E’ probabilmente questa la prima origine della favola della luce da oriente, favola che però doveva essere enormemente rafforzata dalla diffusione nell’impero romano e in Europa di una religione nata in Palestina e del libro su cui si basa, che divenne “il libro”, “la verità” per antonomasia.
Naturalmente, tutto ciò non corrisponde minimamente alla realtà, e anche in questo caso è lo studio del DNA a svelarci come stiano realmente le cose. La notizia non è nuovissima, e credo di avervene già accennato in precedenza, comunque ne riparliamo, “repetita iuvant”, si tratta di una notizia già apparsa sulla rivista “Plos One” nel febbraio 2013 e, come vi dicevo, ripresa ora da Saturnia Tellus. Una comparazione fra il DNA dei resti di antichi etruschi e di toscani moderni condotta da un’equipe guidata da Guido Barbujani dell’Università di Ferrara e Guido Caramelli dell’Università di Firenze ha dimostrato che il genoma etrusco è ancora presente in alcune aree, non in tutte, della Toscana, in particolare in Casentino e nella zona di Volterra, ma soprattutto, quel che è più importante e anche più rilevante ai fini della nostra questione, non esiste alcuna correlazione fra esso e genomi anatolici. L’idea della presunta origine orientale degli Etruschi è completamente smentita dalla genetica e con essa, permettetemi di dire non senza soddisfazione, se ne va un altro brandello di elemento a sostegno dell’ormai sempre più screditata favola della luce da oriente.
Gli Etruschi sarebbero semplicemente un popolo autoctono facente parte di quello strato di popolazioni diffuso nella nostra Penisola prima dell’arrivo degli Indoeuropei. Già altri ricercatori avevano evidenziato che vi sarebbe una precisa continuità fra la cultura terramaricola, quella villanoviana e quella etrusca, che non sarebbero in definitiva altro che tre momenti dell’evoluzione di uno stesso popolo, di una stessa civiltà.
Io non so se l’avete presente, ma al caso ve lo ricordo: avevamo esaminato la questione nella seconda parte di “Ex oriente lux”. Con ogni verosimiglianza, gli Etruschi facevano parte di un contesto di popolazioni mediterranee pre-indoeuropee fra le quali esistono affinità non soltanto geografiche: Iberici, Liguri, Minoici, Pelasgi. Secondo una teoria basata sul fatto che fra le popolazioni delle Isole Britanniche la componente antropologica “mediterranea” è nettamente più forte che nell’Europa continentale alle stesse latitudini, anche la Cultura del Wessex, quella che in età neolitica ha creato Stonehenge e gli altri complessi megalitici, apparterrebbe allo stesso contesto “mediterraneo” pre-indoeuropeo.
Non lo sapevo, l’ho appreso successivamente nel contesto delle mie ricerche, ma la stessa conclusione cui io ero giunto indipendentemente, è stata formulata dall’antropologa Riane Eisler, allieva della celebre Marija Gimbutas, che ha chiamato “gilaniche” le popolazioni che formano questo insieme misconosciuto, ma naturalmente il nome non è la cosa più importante.
Tuttavia se noi prendiamo in mano un libro di storia, uno qualsiasi dalla scuola dell’obbligo all’università che parli del mondo antico, noi scopriamo che per quanto riguarda l’Europa occidentale e meridionale, si cita un profluvio di popolazioni “non indoeuropee” (né semitiche o camitiche) con una terminologia che farebbe ogni volta pensare a qualche popolazione-nicchia residuale sfuggita non si sa come alle catastrofi dell’età glaciale, con una terminologia talmente vaga che potrebbe adattarsi ugualmente bene (o male) a esquimesi, ottentotti o marziani.
Eppure, si tratta di un vasto insieme di popolazioni antropologicamente affini e collocate in un’area precisa, che comprende civiltà importanti come quella etrusca e minoica, e svariati popoli testimoni di un diffuso e antico popolamento: oltre a quelli che ho nominato, Aquitani, Euganei, Elimi, Sicani e certamente molti altri ancora.
La difficoltà ad ammettere, o meglio ancora il testardo rifiuto di ammettere l’esistenza di un quarto ramo “mediterraneo” delle popolazioni caucasiche deriva dall’influenza che ha ancora sulla nostra cultura storica quel libro che è solo una raccolta di vecchie e brutte fiabe mediorientali ma che ci si ostina a considerare “sacro”. Linguisti e antropologi hanno suddiviso le lingue e le popolazioni caucasiche in tre gruppi: semitico (Babilonesi, Assiri, Fenici, Ebrei, Arabi), camitico (Egizi, Berberi, Copti) e indoeuropeo (Greci, Latini, Celti, Germani, Slavi, Indiani, Iranici), hanno collegato ciascuno di questi tre gruppi a uno dei tre figli di Noè di cui si parla nella favola del diluvio universale: Sem, Cam, Jafet, e di lì non ci si schioda.
Forse la cosa più notevole è che la favola biblica continua a contagiare, a essere un presupposto mai rimesso in discussione anche per storici e ricercatori cosiddetti laici e marxisti, un’ulteriore riprova del fatto che la mentalità profonda di cristiani e marxisti è la stessa: ci sono i discepoli di un rabbino (forse) deceduto a Gerusalemme nell’anno 33 dell’Era Volgare, e ci sono i discepoli del rabbino di Treviri: discepoli di un rabbino gli uni e gli altri.
Il colmo del grottesco (sempre nel campo degli studi storici, naturalmente, perché altrove ne avremmo ben altre attestazioni) almeno alcuni di costoro lo raggiungono quando si spingono a postulare un’identità fra mediterraneo non indoeuropeo e semitico. Veramente costoro non sanno quello che dicono, e in simili momenti si ha la percezione netta dell’ignoranza arrogante salita in cattedra.
Se si considerano le cose senza paraocchi, non si possono concepire due mondi più diversi: guardate gli affreschi minoici dei palazzi di Knosso e Tirinto oppure quelli delle tombe etrusche: vediamo un mondo percorso dalla vitalità e dalla gioia di vivere, costantemente immerso in una natura lussureggiante che gli autori di queste antiche pitture dovevano amare profondamente. La figura umana, il corpo spesso nudo e giovanile, vi ha ampio rilievo, e la figura femminile ha la stessa rilevanza di quella maschile.
Se ci spostiamo nel mondo semitico, troviamo l’antitesi assoluta di tutto ciò: il semita è cupo e misogino, disprezza la natura, la gioia di vivere, la bellezza, la donna che tiene in una condizione di costante inferiorità e considera solo “buona per la riproduzione”. Tipicamente, il semita è il beduino, l’uomo del deserto per cui la natura è solo un ambiente vuoto e ostile. E’ da qui che è venuto il disprezzo cristiano per “questo mondo” che ha distrutto la gioia di vivere dell’uomo antico.
Noi Italiani siamo prevalentemente mediterranei. Bene, di questa eredità abbiamo solo motivi di fierezza, mentre tutto ciò che è semitico – a cominciare dal cristianesimo – rappresenta per noi solo un’infezione dello spirito.
Di tutto ciò vi ho già parlato, e con ampiezza, solo che a questo punto mi sembra sia il caso di aggiungere qualche ulteriore considerazione: il caso degli Etruschi in fondo è tipico, sembra che di fronte a qualsiasi civiltà antica la domanda da porsi sia quella “da dove venissero” i suoi fondatori, e sembra esista una sorta di tabù a pensare che una cultura, una civiltà possa essere originata per forza autoctona.
Faccio un paragone ardito: la maggior parte degli scienziati che cercano una risposta al mistero delle origini della vita, tende a non prendere in considerazione la teoria della cosiddetta panspermia, secondo la quale il nostro pianeta potrebbe essere stato “infettato” da germi provenienti dallo spazio, e questo semplicemente perché questa teoria sposta “altrove” il problema, ma non offre alcun elemento per capire come la materia inerte potrebbe essersi trasformata in vivente.
Ora, mi pare chiaro che quando si cerca di spiegare l’origine di una civiltà con un’immigrazione o un’influenza da altrove, si fa lo stesso tipo di operazione, che sposta soltanto il problema, ma non da alcuna risposta circa i meccanismi che portano gli uomini a costruire una cultura una civiltà a partire dalle loro necessità e risorse, dal loro ingegno e dalle sfide dell’ambiente.
In realtà, questa visione delle cose che ci si vuole imporre non è per nulla così innocente. Si cerca di diffondere l’idea assolutamente falsa che l’immigrazione e l’ibridazione costituiscano comunque un apporto culturale anche quando provengono dalle aree più culturalmente deprivate del nostro pianeta, è la classica idiozia che si può definire “mentalità di sinistra”, ed è certamente ironico il fatto che i suoi veicolatori siano principalmente coloro che all’epoca della Guerra Fredda si presentavano come avversari di chi l’ha creata.
Qualcuno ha detto che il modo più efficace di ingannare gli altri, è quello di ingannare prima di tutto se stessi, in modo da presentarsi alle vittime con la faccia della sincerità, ma qui non si tratta soltanto di auto-inganno. Che in America non vi sia nulla che non sia venuto da fuori negli ultimi cinque secoli, stante la brutale cancellazione delle culture amerindie e lo sterminio delle popolazioni native, questo è ovvio.
Quello che è meno ovvio, e probabilmente spiega il “pensiero” yankee a tal proposito, è che la cultura statunitense è praticamente sterile. Certo, gli USA dispongono del più vasto e possente apparato scientifico e tecnologico che si sia mai visto, ma se guardiamo bene, coloro che l’hanno creato e lo fanno funzionare, da Meucci a Von Braun, sono quasi invariabilmente immigrati che si sono formati fuori dagli USA, né potrebbe essere diversamente, dato che la scuola americana è un ignorantificio ancor più disastrato di quella italiana. E’ chiaro che gente così non può non concepire un qualsiasi arricchimento culturale se non come apporto dall’esterno.
Coloro che manovrano le leve del potere dietro le quinte negli USA hanno fatto in modo che non solo il vecchio ceppo anglosassone, ma la stessa componente caucasica sia oggi una minoranza nel “grande Paese”, e intendono riservare anche all’Europa lo stesso destino.
Gli yankee credono di essere un grande popolo, ma non sono nemmeno un popolo, sono solo un’accozzaglia di gente che condivide uno spazio geografico.
Fabio Calabrese
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