Come avevo concluso nell’articolo precedente (“Dopo la Caduta: l’Età della Madre e la Luce del Sud”), è circa dalla metà del Treta Yuga – o “Età della Madre”, data la prevalenza culturale e spirituale dell’elemento femminile – che iniziano a farsi sempre più numerosi i reperti umani riconducibili al tipo Cro-Magnon, e per i quali si era proposta l’identificazione con la stirpe mitica dei Giganti.
Sono tracce che, tuttavia, non esauriscono completamente la gamma dei ritrovamenti paleolitici, perché in Europa è sempre presente anche una parallela linea “combecapelloide” (riferibile cioè al tipo Aurignac / Combe-Capelle), fenotipicamente più leggera e, come abbiamo visto, di antichità probabilmente superiore a quella “cromagnoide”; in ogni caso non dimentichiamo che, al di là dell’effettivo livello cronologico dei veri e propri reperti di Cro-Magnon e Combe-Capelle (che forse, in sè stessi, potrebbero avere una datazione anche inferiore di quanto finora stimato) nondimeno essi vanno considerati, se non come i capostipiti iniziali, almeno come le forme più rappresentative di queste due linee che già da tempi pre-mesolitici appaiono piuttosto ben differenziate.
Inoltre, è sempre all’incirca dalla metà del Treta Yuga che si entra anche nel momento centrale del Paleolitico Superiore il quale, dopo gli albori castelperroniani ed aurignaziani e prima delle più tarde fasi solutreane e maddaleniane, si può far corrispondere alla cultura del Gravettiano; una cultura caratterizzata dalla forte presenza, nello spazio tra Atlantico e Siberia, di idoli e statuette femminili – le famose “Veneri paleolitiche” – dai tratti minimali e che non sembrano manifestare rilevanti differenziazioni stilistiche tra aree geograficamente anche molto distanti. Di notevole interesse e raffinatezza è ad esempio quella di Brassempouy (nell’immagine di questo articolo), che risale a circa 25.000 anni fa; viene citata anche da Julius Evola e da lui associata all’uomo di Aurignac ed alla civiltà atlantico-occidentale, soprattutto nei suoi aspetti demetrico-sacerdotali, probabilmente da interpretare nell’ottica di una certa staticità culturale che avrebbe contraddistinto tale fase per diversi millenni. In effetti il Gravettiano sembra trasmettere l’idea di un momento “fusionale” e di unità, il cui tipo umano potè corrispondere sia al Combe-Capelle che al Cro-Magnon, tenendo comunque presente come esso appaia in buona misura sovrapponibile proprio con il periodo di maggior espansione di quest’ultimo.
E’ presumibile che in questa fase gli echi più traumatici della “Caduta” e della fine dell’Età Paradisiaca (circa 39.000 anni fa) si sia ormai affievoliti, anche se permangono gli effetti di lunga durata nella predominanza culturale e sacrale – veicolata dalla “Luce del Sud” – del mondo australe rispetto a quello settentrionale: in questo sotto-ciclo è quindi ipotizzabile che le popolazioni cromagnoidi risultino, in una certa misura, ancora assorbite nei contesti etnici “materni”, da cui la possibilità che, dal punto di vista linguistico, siano portatrici di forme “sino-dene-caucasiche” o anche più meridionali. Se infatti ritorniamo al mito dell’unione tra i “figli di Dio” e le “figlie degli uomini” secondo la particolare interpretazione evoliana, cioè quella di una caduta verificatasi a causa della “brama” per la potenza “femminile”, se ne può trarre l’impressione che la prole risultante – i “Nephelin”, ovvero la stirpe dei Giganti – rappresenti proprio il frutto tangibile di un “soggiacere” dell’elemento virile rispetto a quello opposto. E’ forse questa la fase in cui la mitica “Terra del Toro”, che da più autori viene fatta corrispondere all’Europa, sia anche ricordata come massicciamente popolata dalla Razza Rossa: un dato significativo nel momento in cui della figura taurina conosciamo bene la valenza simbolica femminile-lunare, suggerita soprattutto dalle sue imponenti corna ricurve che da sempre trasmettono l’idea della falce selenica.
Il Gravettiano sembra quindi rendere una sensazione di grande uniformità culturale e stilistica in Eurasia – omogeneità che inizierà a disgregarsi solo più tardi, con il massimo glaciale di 18-20.000 anni fa – ed è probabile che ciò sia anche riconducibile ad una situazione climatica piuttosto stabile, non scossa da episodi wurmiani di particolare intensità; in effetti, da almeno 30.000 fino a 22-24.000 anni fa si riscontra un periodo relativamente caldo, corrispondente ad una fase “interpleniglaciale” posta tra i due massimi wurmiani e grossomodo corrispondente a quello che è stato definito come “stadio isotopico 3”. Tant’è che evidenze similari si rilevano anche in aree a latitudine piuttosto elevata, come ad esempio nell’isola di Baffin che circa 30.000 anni fa non sembrerebbe essere stata coperta da nessuna calotta, ed anche in quella di Lewis (al largo della costa nord-occidentale della Scozia) che evidenzia un’analoga situazione temperata fra 37.000 e 23.000 anni fa. Più verso orientesi registra l’interglaciale di Kharga, posto tra 36.000 e 22.000 anni fa, che separò le due glaciazioni wurmiane della Siberia (la Zyrianka e la Sartan); tracce specifiche di occupazione umana in area nordeurasiatica si riscontrano presso Ejantsy, Ust-Mil, Ikhine nel bacino di Aldan e per Klein risalgono grossomodo all’intervallo 35.000 – 20.000 anni fa. Nella Siberia ancora più orientale il sito di Berelekh, posto a 70° gradi di latitudine daterebbe a 30.000 anni fa, evidenziando come il delta del fiume Yama al tempo doveva essere sensibilmente più caldo di oggi, con una vegetazione tale da poter sostenere erbivori di grossa taglia e quindi, di conseguenza, anche l’uomo. Ma, dalle analisi di Saks, Belov e Lapina, è in generale tutto il bacino del Mar Glaciale Artico che da 32.000 a 18.000 anni fa avrebbe attraversato una fase relativamente temperata.
All’interno di questo periodo “interpleniglaciale”, in corrispondenza del passaggio dal Terzo al Quarto Grande Anno, avvenuto circa 26.000 anni fa, deve comunque essersi verificato un evento importante, ovvero la fine del continente mitico del Sud che si trovava nell’area dell’attuale Oceano Indiano; l’evento cataclismatico, che sempre accompagna il passaggio da un Grande Anno all’altro, tuttavia fu relativamente limitato, o comunque meno traumatico di quello verificatosi in corrispondenza della Caduta dell’Uomo, se è vero che questo non segnò il passaggio ad un’altra Era spirituale – il Treta Yuga, infatti, permane ancora – e che l’entrante Quarto Grande Anno fu segnato da un elemento cosmico non antitetico alla Terra, predominante nel Terzo, ovvero il Fuoco (a sua volta, il Quarto Grande Anno verrà infatti concluso dal Diluvio di memoria biblica, che scatenerà l’elemento Acqua proprio per estinguerne l’eccesso igneo).
In ogni caso, con il crollo del suo più importante centro di irradiazione, un effetto di questo passaggio fu costituito dall’affievolirsi dell’influenza australe verso Nord e l’avvio di un processo culturale e spirituale di riequilibrio che a mio avviso, come riflesso sul piano antropologico, comportò per una parte dei Giganti cromagnoidi l’inizio di una differenziazione verso forme meno pigmentate. Va infatti detto che il tipo-base Cro-Magnon molto probabilmente dovette presentare in partenza un aspetto non completamente “chiaro”, peraltro del tutto compatibile con un’ipotesi di origine non tropicale (secondo le teorie afrocentriche), ma temperata-boreale come qui proposto, seppur per ibridazione di diverse componenti un po’ più antiche, viste nell’articolo precedente. Tale livello di pigmentazione intermedia, oltretutto, dovrebbe essere cromaticamente coerente con il suo accostamento alla Razza Rossa ed alla esiodea “Razza di Bronzo”, cioè la terza. Questa divaricazione dei Cro-Magnon in un tipo bruno ed uno biondo viene ad esempio sostenuta da Paudler, ed anche a parere di Poesche essi avrebbero presentato una varietà semi-albina, costituendo con essa il gruppo ancestrale del più recente tipo dolico-biondo; una prospettiva piuttosto simile a quella avanzata da Wilser e ricordata da Evola secondo la quale, ad un certo punto, i Cro-Magnon migrarono in Scandinavia per sfuggire ad un’ondata di caldo (Evola data il fatto alla fine del glaciale, ma non escluderei che lo si potrebbe anche collocare nell’interpleniglaciale, prima dell’acme wurmiano di circa 20.000 anni fa) e qui diedero origine alla Razza Nordica come la conosciamo oggi.
L’inizio ora dei processi di formazione di un tipo più depigmentato potrebbe stare ad indicare, con l’avvio del Quarto Grande Anno, la nascita della “Razza Eroica” di Esiodo secondo la prospettiva quinaria già illustrata nel precedente “Titani, Antenati mitici ed Eroi culturali”. Si era infatti già accennato all’interessante possibilità di un’analisi, con Vernant, delle razze esiodee “a coppie”, cioè secondo il concetto che, dopo il particolare legame individuato tra la razza aurea e quella argentea, potesse analogamente sussistere anche una certa continuità tra la razza bronzea e quella eroica; anche in questo caso Evola fornisce una certa conferma di tale ipotesi nell’idea che Eroi e Titani (ma, come già detto in precedenza, dovrebbe riferirsi più precisamente alla generazione dei Giganti) costituiscano in fondo due varianti dello stesso ceppo. Una concezione non estranea nemmeno alla mitologia celtica se interpretiamo in tal senso le complesse ed intricate vicende delle razze leggendarie che, in varie ondate, avrebbero colonizzato l’Irlanda (da intendere, però, in senso lato, non proprio corrispondente all’isola attuale, bensì come rappresentazione simbolica di un contesto ben più ampio); in particolare sono i due popoli dei Fir Bolg e dei Tuatha de Danann che possono prestarsi a questa analogia. Evola infatti segnala per i primi una particolare relazione con il substrato “fomoriano” preesistente e con le figure dei Giganti, mentre per i secondi con il ciclo degli Eroi; in qualche altro accenno il pensatore romano correla i Tuatha de Danann ai Cro-Magnon, ma in virtù della loro valenza “eroica”, potremmo ipotizzare soprattutto al loro sotto-tipo meno pigmentato. Pare comunque di notevole interesse il fatto che i Fir Bolg ed i Tuatha de Danann – non a caso, apparsi proprio in quest’ordine cronologico – originino entrambi dai superstiti dei precedenti Nemediani, secondi civilizzatori mitici dell’Irlanda e per Evola corrispondenti al ciclo autenticamente primordiale, cioè in termini ellenici a Kronos (come i Tuatha de Danann lo sarebbero in rapporto ad Eracle, ovvero la stirpe eroica); quindi dimostrando – Fir Bolg e Tuatha de Danann – di essere due ceppi affratellati dalla comune discendenza nemediana, esattamente come i due tipi cromagnoidi, il primo bruno ed il secondo depigmentato.
Questi ultimi, tuttavia, non costituirebbero tout court gli antenati diretti di quella che oggi viene comunemente definita Razza Nordica (dalle caratteristiche “leptomorfe”, ovvero dalla statura alta ma anche dalla corporatura sottile e slanciata), bensì ne rappresenterebbero solo una particolare componente: con tutta probabilità sarebbero gli ascendenti predominanti soprattutto della varietà “dalica”, contraddistinta da fisionomie più imponenti e massicce (e non a caso definita anche “biondo pesante”). Non sarebbe da escludere che i cromagnoidi depigmentati possano identificarsi con quella radice antica che Montandon definì “Protonordica”: una stirpe che postulò per spiegare il frequente biondismo delle popolazioni caucasiche, respingendone però una parentela diretta con i più recenti nordici europei, propendendo invece per una comune discendenza, seppure per vie diverse e non simmetriche, da un unico ceppo ancestrale.
In effetti, per la genesi dei nordici “classici” è probabile che sia entrato in gioco anche un elemento meno robusto e collegato alla più leggera linea “combecapelloide”, sempre costantemente presente in Europa; Kossinna infatti ipotizzò che la recente razza nordica dolicocefala, attestata nel Mesolitico post-glaciale, fu originata da un incrocio tra i Cro-Magnon e gli Aurignac-Chancelade avvenuto già circa 22.000 anni fa. Qualche reperto di datazione analoga – ad esempio quelli della Grotta Paglicci nel Gargano e delle Arene Candide in Liguria – sembrerebbe evidenziare anche in via diretta la compresenza di caratteristiche riconducibili ad entrambe le tipologie umane, oltretutto in associazione con elementi culturali gravettiani. Dunque per l’origine dei nordici leptomorfi, l’ipotesi dell’unione tra le due diverse linee sembrerebbe più verosimile rispetto alla diversa teoria di una pura e semplice depigmentazione che, solo negli ultimi millenni, avrebbe interessato una popolazione fondamentalmente mediterranea e giunta da meridione. E’ un’ipotesi che, a ben vedere, non si distanzia poi nemmeno troppo dalle analisi di Carleton Coon, che infatti teorizza anch’egli un meticciamento tra i (proto)nordici paleolitici ricollegabili ai Cro-Magnon e uno stock di mediterranei più esili; per questi ultimi, tuttavia, prevede l’intervento di un certo grado di depigmentazione diretta e comunque li data ad un periodo più recente della storia europea, in quanto secondo lui riconducibili all’arrivo dei contadini neolitici dal Medio Oriente (quindi, nella sua interpretazione, non considerando la presenza della linea “combecapelloide” di profondità paleolitica).
Quest’incrocio tra le due componenti, una fenotipicamente più pesante ed una più leggera, oltre ad apparire tutto sommato coerente con il carattere “fusionale” del Gravettiano e del Treta Yuga (che, come dicevo, ancora permane nonostante ci si trovi già nella prima metà del Quarto Grande Anno), potrebbe forse corrispondere anche a quella fase di convivenza e mescolamento che, proprio nella Scandinavia citata da Evola come refugium dei Cro-Magnon, il mito celtico ricorda essere intercorso tra i Tuatha de Danann e gli stessi Fomoriani di substrato, anche con i quali sembrerebbero esservi stati antenati comuni; le caratteristiche non completamente umane di questi ultimi potrebbero essere confinate alla possibilità di ben precedenti e sporadiche ibridazioni con popolazioni neandertaliane, come Evola aveva ipotizzato per l’uomo di Aurignac / Combe-Capelle. Inoltre, l’apparentamento tra Fomoriani e Tuatha de Danann e, come visto sopra, tra Tuatha e Nemediani, comporterebbe indirettamente anche un remoto collegamento tra le due razze più antiche; a questo proposito, non dimenticherei che la precedente sconfitta subìta dai Nemediani ad opera dei Fomoriani viene da Evola descritta come la caduta dei primi in una fase involutiva, evento molto simile a quello che, alla fine del Satya Yuga, colpì le popolazioni “adamiche” proprio nel contatto con la variegata compagine delle genti “evaico-lilithiane”. Nemediani e Fomoriani, quindi da intendersi grossomodo quali sinonimi delle due branche “paleoartiche” già incontrate nell’articolo “Il ramo boreale dell’Uomo tra Nord-est e Nord-ovest”, idea che ritengo possa trovare un paio di ulteriori conferme.
La prima risiederebbe nel fatto che Evola ricorda anche per i Fomoriani lo stesso punto di origine primordiale delle altre stirpi mitiche, segnalando però che nel loro specifico caso si sarebbe verificata una caduta di un gruppo primordiale in una forma di materializzazione titanica; e già nell’articolo citato si erano messi in luce i percorsi, appunto, titanici, lunari e nordoccidentali correlati alla figura di Eva (etno-linguisticamente “sino-dene-caucasici”) di contro a quelli olimpici, solari e nordorientali rappresentati da Adamo (etno-linguisticamente “nostratici”). La seconda conferma risiederebbe nel collegamento che dei Fomoriani è stato proposto, ad un diverso livello biblico, con la figura di Cam, figlio del patriarca Noè come d’altro lato lo sarebbero pure i Nemediani, corrispondenti a Jafeth (anche se assieme ai Partholon, altra mitica stirpe colonizzatrice rimasta però senza discendenza). A mio avviso l’identificazione ora dei Fomoriani con Cam – e quindi, di riflesso, con la famiglia linguistica dei Camiti – non rappresenta una contraddizione rispetto a quella proposta, più sopra, con la branca sudoccidentale dei “paleoartici” e portatrice delle ben diverse parlate sino-dene-caucasiche. Infatti, come anticipato nel precedente “Dopo la Caduta: l’Età della Madre e la Luce del Sud”, in relazione ai contatti intercorsi soprattutto in zona atlantica con le popolazioni proto-basche, fu probabilmente il gruppo camitico quello che si separò per primo, o che nell’estremo Occidente si pose in una situazione di maggior perifericità rispetto all’unità nostratica (più o meno specularmente di quanto, ad est, avverrà per il gruppo sumerico: lo vedremo nel prossimo articolo), tanto da condividere poi per diversi millenni le stesse aree di popolamento dei precedenti sino-dene-caucasici: arrivando così a quel grado di somiglianza linguistica che, significativamente, venne rilevato da Alfredo Trombetti, seppur a suo parere piuttosto per parentela genetica, e particolarmente visibile nei rami camitici meridionali quali il Nilotico ed il Cuscitico. E’ comunque interessante notare che, proprio per il Cuscitico, Trombetti segnalò inoltre una particolare similitudine anche con le lingue boscimano-ottentotte, fatto che ritengo potrebbe trovare una possibile spiegazione nell’ingresso di popolazioni caucasoidi dall’Europa occidentale all’Africa attraverso Gibilterra circa 30.000 anni fa (o, forse, qualche millennio dopo), come ammesso anche da Cavalli Sforza; si sarebbe trattato di alcuni sparuti gruppi cromagnoidi, testimoniati dai più tardi reperti di Mechta-el-Arbi e dalla cultura Iberomaurusiana, rappresentanti forse già una primissima frangia della “Razza Eroica” di Esiodo che sarebbe precocemente caduta (Evola ricorda infatti come, da un punto di vista spirituale, non tutti gli Eroi divengano immortali e sfuggano all’Ade: hybris e protervia sono potenzialità sempre latenti e più tardi condurranno alla fine anche il loro ciclo). Tale migrazione avrebbe prodotto le odierne evidenze antropologiche tra i Berberi e quelle passate tra i Guanci, antico popolo delle Canarie che, culturalmente, pare avesse una struttura sociale basata sul matriarcato e, fisicamente, presentasse occhi chiari e capelli biondo-rossicci, forse a testimoniare una fase di transizione tra il rutilismo più arcaico e la depigmentazione incipiente; comunque, con questo movimento sarebbero giunti nel Maghreb i primi linguaggi camitici, o più genericamente “afroasiatici”, generando più ad Oriente l’incontro con i pigmoidi khoisanidi penetrati in Africa dalla zona medio-orientale, che da loro avrebbero così ricevuto alcune peculiari caratteristiche linguistiche e forse anche genetiche.
Il nesso Fomoriani-Cam è oltremodo interessante se consideriamo che è stato rilevato come i Camiti in qualche modo seguano dei percorsi analoghi a quelli della precedente stirpe “maledetta” di Caino, che dopo l’uccisone di Abele aveva perso il “volto” di Yahweh ed era stato allontanato dal centro paradisiaco. Giuseppe Acerbi accosta Caino a Vamana, il quinto avatara di Vishnu che si presenta come Nano e quindi si identifica anche visibilmente con le popolazioni pigmoidi, per le quali in “Nord-Sud: la prima dicotomia umana e la separazione del ramo australe” avevo proposto una correlazione con la figura di Lilith, nel suo significato più ristretto, “australe”; tornando al mito celtico delle colonizzazioni primordiali, alla catena Caino-Vamana-Lilith-Pigmoidi (o “australoidi” in un senso più ampio), ritengo potrebbe corrispondere la stirpe di Cesair, figlio illegittimo di Noè ed antecedente anche ai Fomoriani, per i quali appunto è come se rappresentasse una sorta di “modello” nella negativa dinamica di una caduta divergente rispetto al centrale nucleo umano (secondo la già indicata relazione Caino/Cam, ma anche quella, analoga, Lilith/Eva nella loro azione sovvertitrice rispetto ad Adamo).
In ogni caso, il temporaneo momento di unione fra i Tuatha de Danann ed i Fomoriani (ma che a mio avviso potrebbero essere interpretati, come abbiamo visto, anche nella veste dei Nemediani ormai decaduti alla fine del Satya Yuga) sarebbe accostabile al passo evoliano che, citando Plutarco, segnalava l’unione tra la stirpe “eroica” di Eracle e quella “primordiale” di Kronos, anticamente avvenuta in una “terra boreale”; quindi, forse, un primo nucleo bianco e “protonordico”, citando Montandon, in varia misura mescolatosi con alcune delle multiformi propaggini della più vetusta Razza Rossa (i combecapelloidi ?) in una fase di concordia che però, come vedremo nel prossimo articolo, sarà ben presto seguita da un’altra di conflitto tra le due stirpi. Il tutto, comunque, prima della loro nuova e definitiva fusione che avverrà in un momento ormai postglaciale, postatlantico e direttamente nella meno boreale terra europea, secondo le articolate linee complessive che, per usare le stesse parole di Evola in “Rivolta contro il mondo moderno”, avrebbe comportato “flussi e riflussi, incroci e scontri con razze aborigene, o già miste, o diversamente derivate dallo stesso ceppo”. Come risultato finale di tutti questi ripetuti intrecci, fissioni e fusioni, l’Europa arriverà ad essere, secondo le analisi di Cavalli Sforza, il continente geneticamente più omogeneo di tutti, visto anche – aspetto certamente non secondario – che le mescolanze devono aver coinvolto stirpi in partenza non molto dissimili tra loro.
La “terra boreale” dove sarebbe avvenuta questa – o una di queste – prime unioni tra Bianchi e Rossi, potrebbe forse corrispondere alla zona scandinava già ricordata sopra, ad esempio quella nella penisola di Kola di cui i ritrovamenti del 1997 ad opera di Valerij Diomin e risalenti a circa 20.000 anni fa; tuttavia non credo si possano escludere a priori sedi non eccessivamente distanti, come i siti di datazione similare citati da Klein all’estremità nord-orientale dell’Europa all’altezza del Circolo Polare Artico, fino a quello di Byzovaya sul fiume Pechora (zona Urali settentrionali) sebbene un po’ più antico, di circa 25-26.000 anni fa. Ma anche a prescindere dai reperti umani, dal punto di vista ambientale e di quanto può essere osservato dall’analisi dei terreni, della paleovegetazione e delle faune presenti, sembrerebbe confermato che aree potenzialmente adatte al popolamento, e quindi anche alle mistovariazioni summenzionate, potrebbero essere costituite da tutte quelle zone ad elevata latitudine che non sembrerebbero essere mai state glacializzate, nemmeno durante le fasi più acute del wurmiano; una situazione che, sorprendentemente, sembra aver riguardato addirittura la Groenlandia settentrionale e, nella Siberia nord-occidentale, la penisola di Jamal e gran parte di quella del Tajmyr. Inoltre, ancora più a nord di queste ultime, sono state ritrovate zanne di mammuth risalenti ad un periodo tra i 25.000 ed i 19.000 anni fa, chiaro indice di una condizione climatica che permetteva il sostentamento dei grandi erbivori e la loro conseguente caccia da parte dell’uomo.
Aree ad elevata latitudine in una situazione ambientale non sfavorevole, anche se ai margini peri-glaciali, avrebbero quindi portato, per depigmentazione e rimeticciamento tra le diverse componenti europoidi, alla formazione in ultima analisi del tipo nordico; un evento che diventa emblematico per la genesi dell’intera Razza Bianca, che ora però và intesa in un senso più specifico e limitato rispetto a quello, più largo e generico, definito dal termine “Caucasoide”. Se infatti qualche autore ipotizza la formazione dei “leucodermi” in Siberia è probabile che, a questo punto del ciclo già lontano dalle origini, si debba ragionare soprattutto nei termini del tipo dolico-biondo, da interpretare appunto come elemento prototipico di riferimento dei cosiddetti “Bianchi”. Concetto, questo, che al giorno d’oggi appare piuttosto sfumato sia a causa della base di partenza “caucasoide arcaica”, che anticamente avrebbe accomunato moltissime popolazioni del mondo (rif. articolo “Le più antiche caratteristiche razziali”), sia anche per i ripetuti scambi ed innesti successivamente intercorsi con i vari residui della Razza Rossa primordiale: tanto, ormai, da inquadrare quest’ultima non più come un’entità a sé stante, ma come una semplice varietà inglobata nei “Bianchi”, però intesi in un senso più ampio.
Quindi, quando Herman Wirth segnala quella “grande razza bianca unitaria” di circa 22.000 anni fa che sarebbe migrata da zone più nordiche verso l’Europa, l’America e l’Atlantide (che vedremo nel prossimo articolo), si riferisce forse a queste prime forme depigmentate e/o rimeticciate nelle “terre boreali” con alcuni resti dei Rossi arcaici durante il Gravettiano, quindi prima della accennata e definitiva fusione tra i due gruppi che avverrà alla fine del Quarto Grande Anno e rimescolerà nuovamente il tutto; una migrazione Nord-Sud che, a ben vedere, non viene scartata a priori nemmeno dalla ricerca odierna, se è vero che qualche ricercatore ammette la possibilità, all’incirca nel periodo indicato da Wirth – e cioè in corrispondenza del secondo pleniglaciale wurmiano – che popolazioni già depigmentate e nordiche, spinte dal peggioramento delle condizioni climatiche, siano scese verso meridione, qui incontrandone altre dalla pelle più scura e sospingendole altrove. Successivamente, quando al termine del Pleistocene i ghiacci iniziarono a ritirarsi, questi nordici sarebbero ritornati verso nord ri-occupando le aree precedentemente abbandonate, ma così inducendo alcuni ricercatori ad adottare un’ottica più ridotta per il popolamento nordeuropeo, e cioè non contemplando la possibilità che da quelle stesse regioni i tipi depigmentati potessero essere stati originati in precedenza; quindi impostando il tema della genesi della Razza Nordica in una cornice più angusta, postglaciale e praticamente mesolitica. Tuttavia, come abbiamo visto, vi sono diversi autori che invece pongono la prima radice delle popolazioni chiaro-nordiche già nel Paleolitico Superiore, anche se ciò deve essere avvenuto nella sua seconda metà e quindi – ricordiamolo, per evitare di cadere nell’errore diametralmente opposto – pur sempre posteriore di circa 25-30.000 anni rispetto al momento che vide la prima corporeizzazione umana. Non và infatti dimenticato che, come già sottolineato in precedenza, alcuni antropologi hanno valutato il classico tipo biondo con gli occhi chiari essere una forma altamente specializzata e poco “primitiva”, nel senso cioè di rappresentare una fisionomia maggiormente “differenziata” rispetto a molte altre; la sua genesi quindi sarebbe relativamente recente – comunque congrua con le ipotesi paleolitiche sopra esposte – ovvero più o meno contemporanea a quella di altre forme molto specializzate, come i Negridi subsahariani ed i Mongolidi orientali (o, al limite, posta a metà tra queste due, ma comunque il tutto in un arco di tempo abbastanza ristretto). Da questo punto di vista, quindi, si potrebbe ipotizzare, proprio in virtù di tale marcata differenziazione, una corrispondenza piuttosto precisa di queste stirpi con i tre rispettivi elementi cosmici Terra-Fuoco-Acqua che già Frithjof Schuon aveva proposto.
Oltretutto, credo sia parzialmente fuorviante l’idea del biondo-depigmentato come di un tipo nato e rimasto omogeneo per tutta la sua storia: se da un lato sembra plausibile il fatto che la sua prima ed unitaria radice sia stata costituita dalla versione “chiara” dei Cro-Magnon, dall’altro non si può escludere che possano essere esistite anche sedi diverse nelle quali questo primo nucleo di base abbia sviluppato, a sua volta, dei sotto-tipi non del tutto omologabili l’uno all’altro. In effetti, la pellee gli occhi chiari, come il biondismo, sono caratteristiche legate genericamente a regioni a clima freddo, glacializzate e povere di raggi ultravioletti; come detto, è probabile che margini ed anfratti prossimi ai ghiacci abbiano riprodotto piuttosto diffusamente queste condizioni ambientali, quindi interessando varie zone che furono lambite dalla calotta wurmiana, e di conseguenza non solo quella strettamente scandinava ma anche, ad esempio, l’area ucraina o quella norduralica. Ciò significa che molteplici possono essere stati i punti, e le relative modalità, di sub-differenziazione/depigmentazione e/o rimescolamento tra il ceppo cromagnoide e quello combecapelloide, arrivando quindi per diverse strade alla formazione di più tipologie bionde, come ad esempio ipotizza sempre Paudler che infatti ne postula uno indoeuropeo ed uno non indoeuropeo (sulla nostra famiglia linguistica torneremo comunque più avanti). Il risultato giunto fino a noi sarebbe quindi costituito da forme non completamente sovrapponibili l’una all’altra, come ad esempio i già accennati “dalici” – di radice forse più direttamente cromagnoide – ma anche più ad est i “baltici”, e più ad oriente ancora un tipo dolicocefalo biondo che tempo fa alcuni scienziati sovietici ipotizzarono nel Neolitico aver popolato la zona siberiana, probabilmente da mettere in connessione con etnie protouraliche. Di tutti questi gruppi depigmentati nordeuroasiatici, in verità fenotipicamente non troppo dissimili tra di loro, il ramo più occidentale sarebbe costituito proprio dalla “classica” Razza Nordica leptomorfa della quale, infatti, anche Gunther ipotizza da almeno 10.000 anni la sede originaria nell’Europa di nord-ovest, anche se nella sua interpretazione si pone l’accento soprattutto sull’origine per depigmentazione di un precedente gruppo umano che sarebbe stato molto simile alla razza “occidentale” (fondamentalmente di ceppo mediterraneo), quindi, se ne desume, minimizzando il contributo cromagnoide più “pesante” ed antico.
In ogni caso, il complesso rapporto tra Bianchi e Rossi – Eroi e Giganti – costituirà ancora un fattore centrale dei tumultuosi eventi che concluderanno la “stasi” gravettiana e l’Età della Madre; circa 20.000 anni fa una nuova recrudescenza wurmiana (il secondo pleniglaciale) innescherà infatti una serie di migrazioni ad ampio raggio, nell’ambito delle quali l’area nordatlantica reciterà un ruolo importante che cercheremo di approfondire nel prossimo articolo.
Michele Ruzzai
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- Bernardino del Boca – La dimensione della conoscenza – Edizioni L’Età dell’Acquario – senza indicazione di data
- Deswell / Helveroi / Siegert / Svendsen – La lezione dell’artico – in: Le Scienze – Dicembre 2002
- Giacomo Devoto – Origini indeuropee – Sansoni – 1962
- Julius Evola – I saggi della Nuova Antologia – Ar – 1982
- Julius Evola – Il mistero del Graal – Edizioni Mediterranee – 1997
- Julius Evola – Il mistero dell’Artide preistorica: Thule – Quaderno “Il mistero Iperboreo. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970”, Julius Evola, a cura di Alberto Lombardo, Quaderni di testi evoliani n. 37, Fondazione Julius Evola, 2002 (articolo presente anche ne “I testi del Corriere Padano” – Ar – 2002)
- Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978
- Julius Evola – L’ipotesi iperborea – in: Arthos, n. 27-28 “La Tradizione artica” – 1983/1984
- Julius Evola – La Tradizione ermetica – Edizioni Mediterranee – 1996
- Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988
- Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana – Jaca Book – 1994
- Angelica Fago – Mito esiodeo delle razze e logos platonico della psichè: una comparazione storico-religiosa – Studi e materiali di storia delle religioni, Vol. 57 – anno 1991
- Rand e Rose Flem-Ath – La fine di Atlantide – Piemme – 1997
- Pierre Fromentin – Gli uomini della preistoria – Massimo Milano – 1957
- Gaston Georgel – Le quattro Età dell’umanità. Introduzione alla concezione ciclica della storia – Il Cerchio – 1982
- Mario Giannitrapani – Paletnologia delle antichità indoeuropee. Le radici di un comune sentire (parte 1) – in: I Quaderni del Veliero, n. 2/3 – 1998
- Mario Giannitrapani – Paletnologia delle antichità indoeuropee. Le radici di un comune sentire (parte 2°) – in: Quaderni di Kultur, n. 4 – 1998
- Mario Giannitrapani – Protostoria indoeuropea – in: “Il mistero Iperboreo. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970”, Julius Evola, a cura di Alberto Lombardo, Quaderni di testi evoliani n. 37, Fondazione Julius Evola, 2002
- Dario Giansanti – Gli invasori d’Irlanda in un’ottica funzionale – Sito del Centro Studi La Runa, indirizzo internet: http://www.centrostudilaruna.it/invasionidirlanda.html
- Renè Guenon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987
- Renè Guenon – Simboli della scienza sacra – Adelphi – 1990
- Hans F.K. Gunther – Tipologia razziale dell’Europa – Edizioni Ghénos – 2003
- Graham Hancock – Impronte degli Dei – Corbaccio – 1996
- Charles H. Hapgood – Lo scorrimento della crosta terrestre – Einaudi – 1965
- Richard Henning – Dov’era il Paradiso ? – Martello – 1959
- Homo Sapiens nell’artico già 30.000 anni fa – Sito Anthropos – 10/1/2004 – indirizzo web: http://www.antrocom.it/textnews-view_article-id-152.html
- Richard G. Klein – Il cammino dell’Uomo. Antropologia culturale e biologica – Zanichelli – 1995
- Janusz K. Kozlowski – Preistoria – Jaca Book – 1993
- Bjorn Kurten – Non dalle scimmie – Einaudi – 1972
- Pia Laviosa Zambotti – Le più antiche civiltà nordiche ed il problema degli Indo-Europei e degli Ugro-Finni – Casa Editrice Giuseppe Principato – 1941
- Iaroslav Lebedynsky – Gli Indoeuropei: fatti, dibattiti, soluzioni – Jaca Book – Milano – 2011
- Giorgio Locchi – Prospettive indoeuropee – Settimo Sigillo – 2010
- Attilio Mordini – Il mistero dello yeti – Società editrice il Falco – 1977
- Adolfo Morganti – Il razzismo. Storia di una malattia della cultura europea – Il Cerchio – 2003
- Claudio Mutti – Hyperborea – in: Vie della Tradizione, n. 125 – Gennaio/Marzo 2002
- Romano Olivieri – Le razze europee – Alkaest – 1980
- Raffaello Parenti – Lezioni di antropologia fisica – Libreria Scientifica Giordano Pellegrini – 1973
- Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978
- Marino Rore – Genesi dell’inconscio nell’ambito delle civiltà tradizionali (1° parte) – in: Arthos, n. 21 – Gennaio/Giugno 1980
- Frithjof Schuon – Caste e razze – Edizioni all’insegna del Veltro – 1979
- Oswald Spengler – Albori della storia mondiale, Vol. 1 – Ar – 1996
- Alfredo Trombetti – L’unità d’origine del linguaggio – Libreria Treves di Luigi Beltrami – 1905
- Alfredo Trombetti – Le origini della lingua basca – Arnaldo Forni Editore – 1966
- Nicholas Wade – All’alba dell’Uomo. Viaggio nelle origini della nostra specie – Cairo Editore – 2006
- Gabriele Zaffiri – Alla ricerca della mitica Thule – Editrice La Gaia Scienza – 2006
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