7 Ottobre 2024
Tradizione Tradizione Ellenica

Artemide e i segreti della Geografia Sacra del mondo antico – Nicola Bizzi

In un mio precedente articolo pubblicato su EreticaMente, intitolato Apollo e il segreto dell’Oracolo di Delfi, mi sono soffermato a lungo sulla nascita, sull’isola di Delos, di Kynthia Artemis e di Kynthio Febo, figli della Dea Titana Leto e del Dio Titano Krios, sul significato e sul perché di tale duplice nascita e sul ruolo messianico che avrebbe dovuto rivestire la singola Divinità che sarebbe dovuta nascere, nelle intenzioni di Leto, al posto dei due gemelli. Come ho spiegato, questo Titano tanto atteso, questo Signore della riscossa e della vendetta, sarebbe stato destinato infatti, secondo un’antica profezia, a rovesciare il dominio di Zeus, a liberare i Titani imprigionati nei recessi del Tartaro, a ripristinare il loro Regno di Giustizia e a redimere l’umanità dall’oppressione dei falsi Dei. Ma ciò non avvenne a causa di determinate “operazioni” condotte dallo stesso Zeus, che ne temeva fortemente la nascita, più volte annunciata dalle profezie, e che si adoperò in ogni modo per ostacolarla. Abbiamo visto tuttavia come però Zeus non riuscì a impedire a Leto di generare, ottenendo però che il Titano tanto atteso e da lui tanto temuto si scindesse in due diverse Divinità, appunto Kynthio Febo e Kynthia Artemis. E, come Egli si era scisso in due parti distinte, così fu anche per la sua forza: le due Divinità generate da Leto non avrebbero avuto, singolarmente, la forza ed il potere necessari per adempiere alla missione prevista e per rovesciare l’odiato nemico.

Ma Zeus e il suo clero avevano, in tale occasione, vinto una battaglia, ma non certo l’intera guerra. Kynthio Febo e Kynthia Artemis rappresentavano comunque per lui e per il suo potere una forte minaccia. Come abbiamo visto, la loro nascita a Delos non era stata certo casuale. La piccola isola dell’Egeo divenne da quel momento il perno, il nodo focale, di un complesso e articolato schema di Geografia Sacra, di specchiamento del Cielo sulla Terra, messo a punto in epoca remota dai sapienti Sacerdoti del clero minoico; uno schema che portò all’edificazione, secondo particolari allineamenti basati sulle costellazioni, di tutti i principali grandi Santuari dell’antichità elladica. Di tali Santuari, che sorsero su dei punti energetici e di forza ben precisi e calcolati, e che rappresentavano, agli occhi degli Iniziati, dei veri e propri varchi di comunicazione fra Microcosmo e Macrocosmo, molti furono consacrati proprio a Kynthio Febo e a Kynthia Artemis.

Abbiamo inoltre visto che, con la caduta del potere minoico a Creta, che significò de facto la fine politica di quella grandiosa civiltà che aveva fino a quel momento esercitato un pieno controllo sulla Grecia continentale, sull’Egeo e sulle coste anatoliche, e con il conseguente predominio politico dei Micenei, ebbe inizio, da parte del clero zeutico e dei relativi Superiori Incogniti, una vasta offensiva mirante ad affermare, su tutta l’area elladica, il predominio del culto dei nuovi Dei usurpatori.

Sia nel sovramenzionato precedente articolo che in diversi miei saggi ho spiegato come buona parte della cosiddetta “mitologia ellenica” sia sorta proprio in quel turbolento periodo che va dal XV° secolo a.C. fino al Medio Evo Ellenico, parallelamente a tale offensiva, iniziata dai Wanax Micenei e in seguito portata avanti dai leader politici e religiosi dei popoli che li sostituirono alla guida delle varie regioni dell’Ellade, ancora in buona parte abitate, nonostante la massiccia calata dal Nord di popolazioni di stirpe indo-europea, da popolazioni autoctone di stirpe lelegico-pelasgica ancora saldamente fedeli al culto degli Dei Titani. E come l’obiettivo primario di quel clero asservito ai nuovi Dei usurpatori fosse la conquista – in primis – dei grandi Santuari oracolari e di tutti gli altri importanti centri del Culto Titanico che componevano lo schema messo in piedi dal clero minoico, e – in secundis –, parallelamente, quella altrettanto vasta e complessa operazione di sincretismo religioso, di assimilazione, di riplasmazione e di rivisitazione, a tratti forzata e sfociante nel ridicolo e nell’inverosimile, delle antiche Divinità dei popoli autoctoni in funzione del culto dei nuovi Dei. Una vera e propria operazione di ingegneria sociale, politica e religiosa, avvenuta nel contesto di una società che, giustamente, come la maggior parte delle società antiche, non distingueva nettamente i limiti della sfera del “sacro” da quella del “profano”, come diremmo oggi.

Nel contesto di tale operazione, durata diversi secoli e conclusasi pienamente soltanto verso la fine del Medioevo Ellenico, il clero zeutico ebbe tutto il tempo di creare e plasmare, in maniera stabile e definitiva, il cosiddetto pantheon dei dodici Dei Olimpici, che doveva sostituire, nelle intenzioni dei “Tessitori della Trama”, le figure dei dodici Dei Titani Primari, ebbe il tempo di impossessarsi dei principali (ma non certo di tutti) Santuari e luoghi di culto dell’Antica Religione, mettendo quindi le mani sulla complessa rete di Geografia Sacra che essi costituivano, e di alterare profondamente gli antichi schemi mitologici in funzione della figura di Zeus e dei suoi sodali. Fu così che importanti e antiche Divinità Titaniche scomparvero dal culto, cancellate con un tratto di stilo perché “scomode”, e altre vennero assimilate e forzatamente adattate secondo artificiose logiche di opportunità e di convenienza.

In questo quadro rientra a pieno titolo la sostituzione, che abbiamo già preso in esame, di Kynthio Febo con la figura di Apollo, e la riplasmazione della figura di sua sorella Kynthia Artemis in una figura nuova, l’Artemide composita e multiforme che, purtroppo, abbiamo imparato a conoscere dalla mitologia e dalla letteratura della Classicità.

Statua di Artemide detta “La Diana di Versailles”, IV° secolo a.C.
(Parigi, Louvre)

Occorre adesso soffermarsi sulla figura di Artemide, per far comprendere ai lettori come l’Artemide della Classicità, arbitrariamente inserita dalla Tradizione Ellenica nel novero dei dodici Dei Olimpici, risulti molto diversa dalla Kynthia Artemis generata da Leto, insieme a suo fratello Kynthio Febo, sull’isola di Delos e venerata dalla Tradizione Eleusina.

Nel caso di Artemide non fu necessaria una vera e propria sostituzione del nome, ormai troppo radicato nella mentalità popolare, ma si preferì rimodellare la figura della figlia di Leto in una nuova Divinità “costruita” che, sincretisticamente, assorbì con il tempo gli epiteti, le funzioni e le caratteristiche di diverse altre antiche Divinità femminili. Epiteti, funzioni e caratteristiche – però – in molti casi profondamente diversi e in opposizione fra loro, cosa che ne fece una Dea dai mille volti e dalle mille sfaccettature: una Dea vergine e guerriera, amante della caccia (Elafebόlos, “feritrice di cervi”, era uno dei suoi più diffusi epiteti) e armata di arco e frecce, alla stregua di un’indomabile amazzone, come era nota in Beozia, e al contempo una Grande Madre, generatrice e germinatrice, una vera e propria Dea della fertilità, come veniva invece venerata a Efeso (celebre e grandioso fu ad Efeso il suo Tempio, considerato una delle meraviglie del mondo, e molto radicato in città il suo culto, tanto che perfino nel testo propagandistico cristiano noto come gli Atti degli Apostoli si narra che i fabbri Efesini, quando sentirono il culto della Dea minacciato dalle predicazioni di Paolo di Tarso, si levarono a difenderla con fervore, gridando «Grande è l’Artemide degli Efesini!»[1]); una Dea delle Ninfe, degli alberi, dei fiumi, dei boschi e dei laghi, una Artemis Limnetis o Limnaia, come era venerata in Arcadia e a Corinto, quasi una personificazione degli elementi naturali, e una Potnia Therόn, una Agríon Déspoina Therόn, vale a dire una Signora degli animali selvatici, come era nota in altre regioni della Grecia, assommando in sé le caratteristiche e gli attributi delle antiche Dee minoico-cretesi Brithemartys e Dictynna, figlie della Ninfa Karme.

E, come Apollo era stato trasformato dal clero zeutico in una Divinità solare, conferendogli epiteti e attributi appartenuti al Dio Titano Helios, per compensazione, si volle dare a sua sorella Artemide degli attributi lunari, ripartendo “salomonicamente” fra i due figli di Leto (o meglio, fra le controfigure di Essi così plasmate dal clero zeutico) la competenza sulla luce diurna e notturna. E da qui il passo fu breve per associarla ad altre Divinità come Selene e Hekhate, e addirittura ad assimilarla con Esse, con l’oscena creazione di una Artemide Trivia, i cui tre aspetti e forme corrispondevano, nella cultura popolare e religiosa tardo-antica, alle tre fasi lunari, oppure venivano identificati secondo il seguente schema, del tutto assurdo e improprio: Selene in Cielo, Artemide sulla Terra e Hekhate nel mondo degli Inferi.

Addirittura il suo culto venne sovrapposto a quello della Dea minoico cretese Eileithyia, la Dea Titana della vita, della nascita e della fertilità, la “Grande Levatrice”, fra l’altro con l’evidente paradosso che, secondo tutte le principali fonti relative alla nascita di Febo e Artemide sull’isola di Delos, era stata proprio la stessa Eileithyia ad assistere Leto durante il parto.

Per quanto possa apparire affascinante la figura di un’Artemide Agrotéra (“che scorre i campi”), il cui dominio sono i boschi e la natura più selvaggia, un’Artemide Elafebόlos e Kynegòs (“feritrice di cervi”, come abbiamo detto, e “cacciatrice”) e Eùskopos Iochéaira (“saettatrice infallibile”), come ce la racconta Omero nell’Odissea, o Opadòs okypòdon elàphon (“inseguitrice di cervi dal piede veloce”), come la descrive Sofocle nell’Edipo a Colono, e per quanto possa apparire suggestiva la figura di un’Artemide vergine e Anùmpheutos (“senza nozze”), Asulòs (“inviolabile”) e Basileia (“signora”), e al contempo Drumonia (“silvestre”) e Brimò (“terribile”), Gynaía e Kourothrophos (protettrice delle femmine e dei giovani), non comprenderemo mai a fondo la vera natura di questa Divinità se continuiamo a vederla rivestita di tutti questi soffocanti epiteti e attributi non suoi, che le sono stati imposti dalla Tradizione Ellenica. Epiteti e attributi che, al di là della molteplicità delle tradizioni locali e dell’assorbimento da parte di Artemide di Divinità poliadi o “minori”, hanno solo fatto il gioco del clero zeutico, nella plasmazione di una figura “nuova” e in un certo senso “inoffensiva”; una figura che si limitava a regolare il ciclo della Luna e a cacciare nei boschi, trasformando di tanto in tanto in cervi o in altri animali quegli imprudenti mortali (si vedano, ad esempio, le vicende di Atteone e Siproite) che osavano sorprenderla nuda, o a uccidere la giovinetta Chione, solo perché si vantava di essere più bella di lei, o i quattordici figli Niobe, che si vantava pubblicamente di essere più prolifica di Leto. Una figura, quindi, che, tutto sommato, poteva essere inclusa nel pantheon degli Olimpici senza destare troppo scandalo o preoccupazione. La stessa figura, ormai irrimediabilmente deformata e alterata, che ci presenta “ufficialmente” Callimaco da Cirene nel suo Inno a Artemide.

Il testo di Callimaco ci presenta, infatti, in maniera apparentemente a dir poco raccapricciante (ma non possiamo più di tanto fargliene una colpa, poiché rispecchia la visione comune e popolare profana del suo tempo) un’Artemide bambina che un giorno, all’età di tre anni, seduta sulle ginocchia di suo “padre” Zeus, rispondendo a una domanda di quest’ultimo in merito a quali doni avrebbe gradito, disse: «Concedimi, ti prego, l’eterna verginità, tanti nomi quanti ne ha mio fratello Febo, un arco e delle frecce come i suoi, il compito di portare la luce, una tunica da caccia color zafferano con un bordo rosso, sessanta giovani Ninfe Oceanine, tutte di nove anni di età, come mie damigelle d’onore, venti Ninfe dei fiumi, che farai appositamente giungere da Amnisos di Creta, affinché si curino dei miei calzari e nutrano i miei cani quando io non sono impegnata nella caccia, tutte le montagne del mondo, e infine tutte le città che vorrai scegliere per me. Ma una sola, in realtà, mi basterebbe, poiché intendo vivere quasi sempre sulle montagne. Le donne in travaglio mi invocheranno spesso, poiché mia madre Latona mi ha partorita senza dolore, e le Moire dunque hanno già fatto di me la patrona delle nascite».

L’inno di Callimaco prosegue, come ce lo ha brillantemente riassunto Robert Graves[2], con Artemide che allunga la mano per carezzare la barba di Zeus, che, sorridendo con orgoglio, le dice: «Con una figliola come te non avrò mai da temere della gelosia di Hera! Tu avrai tutto questo e altro ancora: non una, ma trenta città e una parte di molte altre, sia sul continente che nell’arcipelago, e io ti nominerò custode delle strade e dei porti».

Così Artemide, sempre secondo il testo di Callimaco, ringraziò il “padre” Zeus, saltò giù dalle sue ginocchia e si recò subito sul Monte Leuco di Creta, e poi nel fiume Oceano, dove scelse molte Ninfe di nove anni come sue ancelle.

Dietro invito di Efesto, la Dea si recò poi a visitare i Ciclopi sull’isola di Lipari, trovandoli intenti a martellare un trogolo per i cavalli di Poseidone. Il Ciclope Bronte, a cui era stato comandato di fare tutto ciò che Artemide avesse voluto, la prese sulle ginocchia, ma, non apprezzando le sue carezze, la giovane Dea gli strappò una manciata di peli dal petto. Quei peli non ricrebbero più e Bronte ebbe sempre da quel giorno sul petto una macchia bianca, sì che chiunque, vedendolo, avrebbe potuto crederlo malato di rogna. Artemide poi ordinò sfacciatamente ai Ciclopi di trascurare il lavoro per Poseidone e di fabbricarle un arco d’argento e un bel fascio di frecce. In cambio ella avrebbe loro offerto in pasto la prima preda che avrebbe abbattuto.

Con le sue nuove armi Artemide poi si recò in Arcadia, dove Pan era intento a smembrare una lince per darla in pasto alle sue cagne e ai loro cuccioli. Il Dio concesse ad Artemide tre dei suoi cani segugi dalle orecchie mozze, due bicolori e uno maculato, capaci di trascinare, tutti insieme, un leone nella loro tana, e sette agili segugi spartani.

Il testo prosegue con la Dea che, avendo catturate vive due coppie di cerve, le aggioga a un cocchio d’oro, le cui redini erano anch’esse del nobile metallo, e le guida verso Settentrione, dirigendosi sul Monte Emo della Tracia. Giunta poi sull’Olimpo Misio, la Dea intagliò una torcia da un pino e l’accese nelle braci di un albero colpito da un fulmine. Per quattro volte poi provò il suo arco d’argento, le prime due mirando agli alberi, la terza a una bestia selvatica, e la quarta a una città abitata da uomini ingiusti. Fece poi ritorno in Grecia, dove le Ninfe Amnisie liberarono le cerve dal cocchio, le strigliarono, le nutrirono con quello stesso trifoglio, rapido a crescere, che è il cibo favorito dei destrieri di Zeus, e le abbeverarono in trogoli d’oro.

La narrazione callimachea prosegue poi ancora a lungo, con alterne vicende, rievocazione di episodi mitologici e descrizioni di viaggi della Dea da un luogo all’altro.

Callimaco, che fu uno dei principali artefici della Biblioteca di Alessandria, era un grande Iniziato e niente, in ciò che scriveva, era solito lasciare al caso. Dietro questo suo celebre Inno, apparentemente “addomesticato” alla vulgata “olimpica” sulla figura di un’Artemide figlia di Zeus, ingenua Dea fanciulla che, sedendo sulla ginocchia del “padre”, appare docile e amorevole e pronta ad eseguire le sue volontà ricevendo in cambio doni e privilegi, una Dea fanciulla che con la purezza d’animo della sua età si muove poi per il mondo alla scoperta di tali doni, il lettore particolarmente attento e non digiuno di cultura esoterica potrà ravvisare molto altro. L’Inno ad Artemide è infatti, in realtà, per chi sa correttamente leggerlo, un incredibile condensato di allegorie e simbologie numeriche, astronomiche, astrologiche e geografiche che ci rivelano la Geografia Sacra e la disposizione dei principali luoghi di culto della Dea, con continui richiami alla sua autentica natura titanica. Una natura, quest’ultima, che letteralmente atterriva i Sacerdoti zeutici, che necessitavano per i loro fini di sfruttare la figura di Artemide, ma che costantemente operavano per riplasmarla e rimodellarla secondo le loro esigenze. Eppure, nonostante tali plasmazioni e rivestimenti, non riuscirono mai del tutto a snaturare l’autentica natura titanica di Artemide, che, nella Guerra di Troia, al pari di Apollo, parteggia apertamente e con tenacia per le truppe di Priamo, arrivando anche ad azzuffarsi con Hera (che prendeva le parti degli Achei) e si prende cura di Enea quando viene ferito e trasportato nel Tempio di Apollo.

François Perrier: Le Sacrifice d’Iphigénie, 1633
(Dijon, Musée des Beaux Arts)

Come ci narra Omero, inoltre, Artemide volle punire Agamennone per aver ucciso un cervo a lei consacrato. Così, quando la flotta greca si stava preparando a salpare verso Troia per portarvi la guerra, la Dea fece sparire il vento (o, secondo altre versioni, face spirare forti venti contrari), bloccando la partenza delle navi. Agamennone si rivolse allora all’indovino tebano cieco Tiresias (Τειρεσίας), figlio di Evereo e della Ninfa Cariclo, che alcune fonti misteriche indicano come Sacerdote di Febo, il quale gli vaticinò che l’unico modo per placare Artemide e far tornare il vento sarebbe stato quello di sacrificare sua figlia Ifigenia (Ιφιγενεια, nome composto dalle radici ιφιος, “forte”, e γενης, “nato”, o γενος, “nascita”, “generazione”, “stirpe”, il cui significato è quindi “nata dalla forza”), un personaggio molto celebrato dalla letteratura ellenica e reso particolarmente celebre da due tragedie di Euripide, Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride.

Altre fonti ci riferiscono che Ifigenia sarebbe stata in realtà figlia di Elena e Teseo. Dopo il rapimento da parte dell’”eroe”, Elena sarebbe stata tratta in salvo dai Dioscuri, ma, già in attesa di una figlia, l’avrebbe data alla luce ad Argo, sulla strada del ritorno. In segno di gratitudine consacrò un Santuario alla Dea Artemide, e poi affidò la figlia, Ifigenia, a Clitennestra e a Agamennone, che l’adottarono.

Alla luce del responso dell’indovino, Agamennone in un primo momento si sarebbe opposto al sacrificio di Ifigenia, sostenendo che Clitennestra non avrebbe mai dato il proprio consenso, ma le truppe greche insorsero, minacciando di giurare fedeltà a Palamede e di abbandonare il loro Sovrano se egli si fosse ostinato nel suo cieco rifiuto. Egli così cedette alle pressioni del suo esercito e si apprestò a sacrificare Ifigenia. Ma la Tradizione ci riferisce che, quando fu sul punto di farlo, Artemide stessa intervenne, portando via la fanciulla dall’altare sacrificale e mettendo al suo posto un cervo.

Sempre secondo la Tradizione e le varie fonti letterarie, Ifigenia fu poi trasportata in Crimea, divenendo Sacerdotessa del Tempio della Dea nella Tauride. Sarebbe stata poi inseguito riportata in Grecia da suo fratello Oreste e avrebbe istituito in Laconia, secondo una tradizione locale, il culto di Artemide Tauridea.

Ho riportato questo sunto della vicenda di Ifigenia perché, come ha evidenziato più volte Jean Richer nei suoi studi sulla Geografia Sacra[3], la sua figura risulta intimamente connessa con quella di Artemide, al punto che in alcune località della Grecia, in primis a Brauron, sulla costa orientale dell’Attica, le due figure venivano del tutto assimilate nel culto. E Brauron, come vedremo, negli schemi della Geografia Sacra del mondo ellenico, riveste un ruolo chiave per la comprensione della vera natura di Artemide.

A Brauron si raccontava che Artemide avesse sostituito con un’orsa (anziché con una cerva) Ifigenia in procinto di essere sacrificata e che proprio in questa città ella sarebbe approdata, di ritorno dalla Tauride, recando con sé l’immagine dell’Artemide Taurica. E, sempre a Brauron, nel contesto dei Riti in onore della Dea, uno spiccava su tutti gli altri, quello dell’Ἄρκτευσις o Ἀρκτεία. Ogni cinque anni, nell’ambito della celebrazione delle Brauronie, venivano scelte alcune fanciulle che, vestite con abiti color zafferano, venivano condotte al Tempio di Artemide e consacrate alla Dea per un periodo di cinque anni, durante il quale venivano chiamate Ἄρκτος (“orse”). Travestite da orse, esse compivano determinate danze rituali che richiamavano i movimenti delle stelle. Una tradizione confermata dal rinvenimento, nel sito, di numerose statuette votive raffiguranti piccole orse.

I moderni storici delle religioni, del tutto ignoranti della dicotomia Titani-Olimpici, e i miopi filologi, che occupano le cattedre delle principali università pontificando talvolta più sul sesso degli angeli che sugli autentici significati esoterici della letteratura antica, spesso ammettono di non aver mai compreso la vera natura di Artemide, ipotizzando una sua fantomatica origine “orientale”, oppure limitandosi a constatare quanto nella sua figura siano stati fatti confluire aspetti, caratteristiche ed epiteti di altre Divinità.

Concentriamoci un attimo sul nome di questa Dea. Esso è composto da Arth, che secondo l’autorevole interpretazione di Richer sta per ἅρκτος, “orsa”, ma che ha anche assonanza – aggiungo io – con ἄρκτος “Settentrione”, e da θέμις, suffisso che Richer interpreta come «grande forza», «l’ordine stabilito dagli Dei»[4], ma che, soprattutto, ci riconnette a Themis, la potente Dea Titana primaria della Giustizia, sia quella “siderale” e “divina”, che quella umana, la paredra del Dio Titano Iapetόs (blasfemamente fatta figurare come unita a Zeus dalla mitologia “classica”) e l’autentica originaria titolare del grande Santuario oracolare di Pythos, successivamente rinominato Delfi.

Per comprendere, quindi, la reale figura di Artemide, che, essendo di stirpe Titanica, non può essere che stellare, dobbiamo considerare il suo stretto legame con la costellazione dell’Orsa Maggiore. E quello di Brauron, uno dei principali Santuari della Dea nello schema di specchiamento del Cielo sulla Terra individuato da Richer, era per eccellenza il Santuario dell’Orsa Maggiore. Artemide è dunque, al contempo, una nuova Themis, generata da Leto per ripristinare sulla Terra la Giustizia siderale e divina, e, come osservava Richer, la «Governatrice della Legge dell’Orsa»[5], che coincide con l’ordine stesso del Cielo.

Abbiamo detto che a Brauron si tendeva ad assimilare nel culto Artemide e Ifigenia, anche per il fatto che il suo nome significa, come abbiamo visto, “nata dalla forza”. Ma Ifigenia non è Artemide, come Artemide non è Ifigenia. Ifigenia, in quanto Sacerdotessa della Dea, divenne funzionale al culto, e la sua figura, oggetto di una vera e propria divinizzazione, giunse a rivestire un ruolo cardine nel processo di specchiamento del Cielo sulla Terra.

Jean Richer ha individuato incredibili relazioni geometriche fra le principali località associate alla storia di Ifigenia e i principali Santuari di Artemide, in particolare quelli dell’Eubea. Ad esempio, la distanza fra Argo e Capo Artemisio equivale a quella fra Argo e Platanisto, ed esse a loro volta equivalgono a quella fra Capo Artemisio e Platanisto, tanto che i tre punti considerati formano un triangolo quasi perfettamente equilatero. E l’altezza di tale triangolo tracciata da Argo passa da Aulide, la parallela a questa altezza da Sparta passa per Eretria e per Kymi, come la linea Argo-Platanisto passa per Brauron[6].

È attestato che sull’Acropoli di Atene vi fosse un Temenos di Artemide Brauronia e l’angolo Brauron-Atene-Aulide è di 120°. Sulla bisettrice di tale angolo, nel punto in cui si interseca con la costa dell’Attica, è situata Rhamnûs, in cui si possono ancora vedere i resti e i basamenti di un Tempio di Themis. Se si prolunga questa linea sulla carta, essa passa per Parion, sulla costa della Propontide (Mar di Marmara), in cui vi era un importante Santuario di Artemide, e termina esattamente nel Chersoneso Taurico (Crimea), dove Ifigenia venne consacrata Sacerdotessa della Dea. E la linea Brauron-Argo, se prolungata, taglia l’Arcadia, il cui nome – come osservava Richer – è in relazione con Arca-Arturo, e termina a Cruni, dove Pausania[7] ci riferisce l’esistenza della Tomba di Callisto. Ninfa del seguito di Artemide, insidiata da Zeus, Callisto divenne, secondo una tradizione molto diffusa nel mondo greco, la costellazione dell’Orsa Maggiore. Essa rappresenta, infatti, una delle sette stelle della costellazione e, come sottolineava Pierre Grimal, il suo guardiano Arca era Arcturus Bootis[8].

Osservava inoltre Jean Richer che Artemide veniva costantemente associata al cinghiale oltre che all’orsa, e in questo accostamento il grande studioso francese ravvisava il passaggio da un simbolismo polare (l’orsa) e un simbolismo equinoziale (il cinghiale del Solstizio d’Inverno).

Ma Richer doveva al contempo constatare che anche il cinghiale, al pari dell’orsa, riveste un significato polare. Sia nel mito di Adone che in quello di Meleagro, Artemide Iperborea, Guardiana del Polo, incita un cinghiale assassino, e a Patrasso vi era l’usanza di sacrificare insieme ad Artemide orsetti e cinghialotti.

René Guénon, in un suo importante studio del 1936, Le Sanglier et l’Ourse, spiegava bene come anticamente proprio la figura del cinghiale rappresentasse quella costellazione poi divenuta nota come Orsa Maggiore. Scriveva a riguardo Guénon: «Vi è, in questa sostituzione di nome, un segno che i Celti simboleggiavano precisamente con la lotta del cinghiale e dell’orso la rivolta dei rappresentanti del potere temporale contro la supremazia dell’autorità spirituale»[9].

Johann Heinrich Füssli: L’anima di Tiresias compare a Odisseo, 1785
(Wien, Albertina Museum)

Guénon prosegue indicando che, presso i Greci, l’equivalente della rivolta dei Kshatriyas era raffigurata con la caccia al cinghiale di Calidone, significativamente bianco, e che il primo colpo fu inferto all’animale da Atalanta, che era stata nutrita da un’orsa. E l’esoterista francese accostava anche i pomi d’oro della leggenda di Atalanta con quelli del Giardino delle Esperidi, figlie dell’Occidente, figlie di Atlante, come le Pleiadi. Nel medesimo studio, Guénon precisava inoltre che, nella Tradizione Indù, l’Orsa Maggiore è la Sapta Riksha, la dimora dei sette Rishis, e che riksha, termine che significa “stella” o “luce” in senso generale, appartiene alla famiglia della radice archis (da arch o ruch, che significa “brillare”, “illuminare”), cosicché  vi è fra l’orso e la luce un accostamento identico a quello che si riscontra per il lupo, sia presso i Celti che presso i Greci, poiché questo animale è associato simbolicamente tanto al Dio solare Belen che al Febo licio.

Il significato “polare” del cinghiale ci permette di comprendere anche il senso del giuramento sul cinghiale, un atto piuttosto ricorrente nella Mitologia e nella Tradizione letteraria del mondo greco, ma che nessuno, in ambito profano, prima di Jean Richer aveva correttamente analizzato e interpretato.

Se il cinghiale è, come attestano gli studi di Guénon e Richer, al pari dell’orsa, un simbolo polare, esso è l’immagine stessa della stabilità del centro invariabile. Si capisce allora perché Heracle, come ci riferisce Pausania[10], scambiò giuramenti con i figli di Neleo su dei resti di cinghiale a Steniclero, in Messenia, nel luogo detto “La Tomba del Cinghiale”, e si comprende anche il sacrificio di un cinghiale che accompagna il grande giuramento prestato da Agamennone per non aver toccato Briseide, menzionato da Omero nell’Iliade[11]. E si comprende, allo stesso modo, il giuramento degli atleti a Olimpia su brandelli di carne di cinghiale, di cui ci riferisce sempre Pausania[12].

Come osservava giustamente Richer, tutti questi esempi richiamano ad una tradizione sicuramente molto antica, fondata sul giuramento solenne sul «Polo che non cambia»[13].

Lo spostamento della Bilancia, tradizionalmente associata come simbologia alla Giustizia incarnata dalla Dea Titana Themis e dapprima simbolo dell’Orsa Maggiore, appare inoltre nella relazione etimologica diretta tra i nomi di Artemide e Armonia messa in rilievo, seppur involontariamente, da Francis Vian in un suo saggio del 1963. Il grande filologo e mitologo francese, in Les origines de Thèbes, Cadmos et les Spartes[14], stabilì infatti la relazione tra i nomi di Armonia e di Ermione, citando le parole omeriche ἀρθμέω[15] e ἄρθμιος[16], che designano un patto d’amicizia. Ed è sorprendente ritrovare in queste parole la radice αρθ, che, secondo l’interpretazione di Richer, indica la probabilità di un legame tra Artemide, Ermione e Armonia[17].

La costellazione dell’Orsa Maggiore nell’illustrazione di un atlante astronomico del XIX° secolo

Tornando agli studi di Richer sulla Geografia Sacra del mondo greco, secondo gli schemi scoperti dall’accademico parigino, quando dall’Attica ci si dirige verso Delfi si incontra, prima di giungere al Parnaso, l’imponente massiccio dell’Elicona (Ἑλικών, Helikón), una montagna sacra per eccellenza fin dai tempi più remoti per le antiche popolazioni pelasgiche autoctone dell’Ellade e della quale ho parlato più volte nell’ambito del mio saggio Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta. Si tratta, infatti della montagna delle Muse e, con i suoi 1.748 metri di altezza, è la vetta più alta della regione di Tespie, anch’essa già più volte menzionata per il suo legame con Apollo. Sulle sue pendici, inoltre, si trovava nell’antichità il villaggio di Ascra, che diede i natali a Esiodo, e proprio sull’Elicona avvenne l’incontro di quest’ultimo con le Muse, le quali gli ispirarono, in una vera e propria rivelazione, la stesura della Teogonia.

Nel sistema di Geografia Sacra che Richer ha pazientemente ricostruito, per usare le sue stesse parole riguardo all’Elicona, «sembra che il cielo giri intorno a lui». Se Delfi e il Parnaso rappresentano la Stella Polare, l’Elicona rappresenta a pieno titolo la costellazione dell’Orsa Minore.

È per mezzo delle costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore che si stabiliscono il legame e le corrispondenze tra lo Zodiaco e le altre stelle, ed è risaputo che si trova il Quadrato della costellazione di Pegaso (sede, secondo la Tradizione Misterica Eleusina, del lontano Regno Stellare del Dio Titano Perse) prolungando la linea βα dell’Orsa Maggiore al di là della Stella Polare e di Cassiopea. Ciò è stato sufficiente, come osservava Richer, perché si stabilisse un legame tra Pegaso e l’Orsa Minore partente fra Pegaso e l’Elicona. E Pegaso è anche in relazione con l’asse cosmico Leone-Acquario, antico asse dei Solstizi[18]. Allo stesso modo, osservava sempre Richer, il legame tra il culto di Helios (nella sua forma arbitrariamente impersonata da Apollo) e quello delle altre Divinità del Parnaso si stabilisce attraverso il culto delle Muse. Ora, le Muse venivano indicate dalla Tradizione come figlie di Armonia e governavano Tebe e la Beozia. Il loro numero, che è a volte indicato in sette e a volte in nove, era secondo Richer in rapporto con le stelle del Settentrione, e anche qui lo studioso francese individuava un’ennesima affinità fra Armonia e Artemide[19].

Partendo da queste e da numerose altre constatazioni, sia di natura astronomica che mitologica, Richer fu in grado di costruire una carta del culto di Artemide prendendo come base la lista dei grandi Santuari della Dea fornita dall’indice della Geografia di Strabone e i luoghi di culto a Lei consacrati che nomina Callimaco nel suo Inno.

Per ovvi motivi di spazio, non starò qui a riassumere tutte le conclusioni di Richer e rimando pertanto alla lettura del suo saggio sulla Geografia Sacra. Può comunque risultare utile riportare in questa sede alcuni dati. Ad esempio, Brauron, città che già abbiamo visto connessa con Artemide e come elemento fondamentale del sistema di Geografia Sacra centrato su Delfi (tenendo anche conto dei legami considerevoli del suo Santuario con i diversi luoghi del ciclo di Ifigenia), risulta sullo stesso parallelo di Efeso, altro luogo fondamentale del culto della Dea. A Creta, nell’Akrotiri, a Nord-Est di Chania, nei pressi del Monastero di Gouverneto, si trova inoltre tutt’oggi la Grotta dell’Orsa, nella quale delle concrezioni naturali sono state scolpite nell’antichità a rappresentare la statua di un’orsa. E questa grotta, come osservava Richer, si trova esattamente sul meridiano di Brauron. E Richer ipotizzava, alla luce di questi dati, l’esistenza di un Santuario di Artemide a Karpathos, la cui presenza avrebbe completato un perfetto rettangolo.

Tornando poi al Sistema di Delos, riscontriamo che l’asse Ammonium-Delos termina su una particolare cima dei Balcani, l’antico Haemus, dimora di Borea. Si tratta del Jurmuk Cal, oggi chiamato Monte Botev, nella Bulgaria centrale, che con i suoi 2.376 metri non solo è il monte più alto dei Balcani, ma è di poco inferiore all’Olimpo della Tessaglia (2.911 metri) e più alto dell’Olimpo della Bitinia, oggi chiamato Ulu Dag (2.327 metri). Secondo l’interpretazione di Richer, che mi sento di condividere, si può vedere in questa cima, senza esitazione, la “Porta degli Dei” di questo particolare sistema di Geografia Sacra.

Il compianto archeologo francese Hubert Gallet De Santerre, massima autorità degli studi su Delos, dimostrò che in questa isola che vide i natali di Febo e Artemide, in questa piccola isola dell’Egeo al centro di un grandioso disegno di redenzione dell’umanità da parte degli Dei Titani e perno di un altrettanto grandioso schema di Geografia Sacra, era particolarmente attestato il culto di Borea[20]. E i culti arcaici di Delos, come sono stati studiati da Gallet De Santerre, ci permettono di comprendere la giustapposizione in quest’isola dei simboli dell’Asse del Mondo e di quelli dell’Asse Sud-Nord.

L’Asse del Mondo a Delos, come osservava Jean Richer, è simboleggiato chiaramente dalla palma all’ombra della quale la Dea Titana Leto, secondo la Tradizione, partorì i Gemelli Divini. Richer ha poi individuato una connessione fra questo albero sacro e l’asse zodiacale Cancro-Capricorno. Artemide, infatti, cacciò su monte Kynthos le capre selvatiche che fornirono a suo fratello le corna per costruire il Keratinos Bomos, il celebre “Altare delle corna”, che secondo l’interpretazione di Richer alludeva proprio, simbolicamente, a tale asse. L’asse Sud-Nord del “sistema”, secondo gli studi di Richer, è invece rappresentato dalla linea Kamiros-Sardi. Le monete di Kamiros presentavano una foglia di fico a cinque lobi che, secondo Richer, alluderebbe all’Albero del Mondo. E Plutarco di Cheronea, nel suo trattato De E Delphica, ci riferisce che il numero cinque era tradizionalmente consacrato ad Apollo[21]. Ma non solo: in un altro suo celebre trattato, il De Iside et Osiride, il grande Iniziato ci indica anche la para-etimologia che mette πέντε, il “cinque”, in relazione con πάντα, il “tutto”, l’”Universo”.

Nel sistema di Geografia Sacra studiato da Richer sembra che sia una linea Miletos-Sardi-Olimpo di Bitinia a rappresentare l’asse solstiziale. Ed esiste, secondo lo studioso francese, una sorprendente equivalenza tra il culto dell’Orsa come si praticava a Mounichia, nei pressi di Miletos, e quello dell’Artemide Brauronia. Vi si ritrova, infatti, un rito caratteristico come quello dell’Ἀρκτεία. Ora, come osservava Richer, se si vuole accettare che l’asse solstiziale sia quello indicato, se ne ricava uno schema zodiacale che mostra una somiglianza sorprendente con quello che lo studioso parigino ha rilevato per l’Attica. In poche parole, così da Delos ci ricolleghiamo a Eleusi!

Il lavoro di Jean Richer non risulta soltanto sorprendente. Lo definirei semplicemente incomparabile e si stenta veramente a comprendere come esso venga tutt’oggi vergognosamente trascurato in ambito accademico e universitario. Le sue conclusioni, che non starò qui a riportare e a riassumere per ovvi motivi di spazio, riflettono in buona parte quanto è stato da sempre trasmesso e insegnato, in ambito iniziatico, dalla Tradizione Misterica degli Eleusini Madre in merito alla Geografia Sacra e allo specchiamento del Cielo sulla Terra. Nonostante che Richer (che, curiosamente, portava lo stesso nome e cognome di un grande astronomo francese del XVIII° secolo, che operò nell’ambito dell’Académie Royale des Sciences sotto la direzione di un grande Iniziato, Giovanni Domenico Cassini) non fosse un Iniziato Eleusino (o almeno non mi risulta che lo fosse), dobbiamo dargli atto di aver avuto delle intuizioni che solo una mente particolarmente aperta e in sintonia con gli Dei solitamente può avere.

Alla luce di queste constatazioni, ci serviremo ancora delle scoperte e delle osservazioni di Jean Richer in eventuali articoli successivi, nei quali completeremo, da un punto di vista iniziatico Eleusino Madre, l’analisi di quelle Divinità che sono state incluse (molte delle quali arbitrariamente e impropriamente) nella cerchia dei dodici Dei Olimpici.

 

Suggestiva raffigurazione scultorea dell’Artemide di Efeso di epoca romana imperiale.
Si notino le simbologie delle costellazioni sul petto della Dea
(Ephesos, Ephesos Museum)

 

NOTE

 

[1] Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, 19, 28.

[2] Robert Graves: The Greek Myths. Ed. Penguin, London 1955.

[3] Jean Richer: Geografia sacra del mondo antico. Ed. Rusconi, Milano 1989.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Pausania: Periegesi della Grecia, VIII°, 3,6 e VIII°, 35,8.

[8] Pierre Grimal: Dictionnaiere de la Mythologie Grecque et Romaine. Ed. Presses Universitaires de France, Paris 1951.

[9] René Guénon: Le Sanglier et l’Ourse. Articolo su Études Traditionnelles n. 200/201, Agosto/Settembre 1936.

[10] Pausania: Opera citata, IV°, 15,8.

[11] Omero: Iliade, XIX°, 266-268.

[12] Pausania: Opera citata, V°, 24,9-11.

[13] Jean Richer: Opera citata.

[14] Francis Vian: Les origines de Thèbes, Cadmos et les Spartes. Ed. C. Klincksieck, Paris 1963.

[15] Omero: Iliade, VII°, 302.

[16] Omero: Odissea, XVI°, 427.

[17] Jean Richer: Opera citata.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Hubert Gallet De Santerre: Délos primitive et archaïque. Ed. De Boccard, Paris 1958.

[21] Plutarco di Cheronea: De E Delphica, 8-16.

5 Comments

  • Antonio 13 Gennaio 2020

    Qui si tende a parlare di “usurpazione” fatta dai nuovi Dei nei confronti degli antichi, ma si tratta di semplice sovrapposizione-sostituzione legata ai diversi cicli storici che si susseguono nel tempo seguendo una logica decadentista. Ne consegue che si tratta più o meno sempre degli stessi principii reinterpretati in modo sempre differente secondo il riferimento fondamentale del ciclo storico prevalente. Mentre in genere si tende a considerare solo le ere zodiacali, si dimentica che anche i 7 tradizionali pianeti hanno la loro importanza, non fosse altro per il fatto che sono in relazione con la genesi del sistema solare. Prima ci sono stati gli Dei titani in relazione con Saturno, ma poi Giove, formatosi dopo e al di sotto di Saturno, lo ha detronizzato e così gli Dei olimpici dei greci con in testa Zeus, hanno “coperto” gli Dei titani, si sono sovrapposti ad essi e li hanno sostituiti. Poi abbiamo avuto i romani con la loro versione degli Dei, ma i romani erano soprattutto marziali (Marte). Di lì a poco ci si è messi a parlare del “Verbo” e di “Cristo”, la quale caratterizzazione è l’elemento solare. I nuovi riferimenti si sovrappongono ai vecchi e tendono a sostituirli. Attualmente la cosiddetta “nuova era” acquariana del teosofismo, che si può far corrispondere al pianeta Venere, tende a soppiantare il cristianesimo e le altre religioni per imporre le sue pseudo divinità, sotto forma della “Gerarchia” che vuole manifestarsi. Tale gerarchia, ormai completamente umanizzata e materializzata, non è nient’altro che il governo unico mondiale che si vuole imporre a tutti i costi, anche con la violenza e con metodi criminali. Dei restanti pianeti interessa solo il loro aspetto negativo e invertito. Mercurio è solo il razionalismo e il mentalismo e invece di essere il messaggero degli Dei, è diventato uno schermo impermeabile tra il superiore e l’inferiore, tra lo spirito e la materia. La Terra è l’umanismo e l’individualismo spinti agli estremi. La Luna è il medianismo senza controllo e senza freni, il vampirismo e la necrofilia. Se è vero che questo processo è legato al decadimento storico, però serve a poco mettersi a begare o a fare polemica fra i vari dei e le varie epoche storiche. Si dimentica che perfino il sistema solare è qualcosa di transeunte, essendo un semplice processo di manifestazione. La dinamica dei 7 pianeti andrebbe tenuta a freno o coordinata meglio, ma la “manifestazione” ha le sue necessità e i suoi determinismi, uno dei quali è la logica dell’illuminare e del tenere in ombra, la quale può essere ridotta al minimo ma non può essere eliminata del tutto. Illuminando un elemento, un fattore, una caratterizzazione, altri elementi, fattori, caratterizzazioni cadranno in ombra. Illuminare significa gestire attivamente, porre l’attenzione su quel fattore, mentre tenere in ombra significa l’opposto.

    • Giovanni 14 Gennaio 2020

      Molto interessante questo articolo ma condivido la tua glossa davvero puntuale Antonio.

      Oltre al fatto, per dirla in parole povere, che sono eoni che queste elusive entita’, cosiddette divine, ci tengono, per cosi’ dire, sotto un formidabile scacco astrale, cambiando sembianze e maschere per attingere continuamente al nostro quid animico-energetico.
      Insinuandosi fin dentro le piu’ recondite aspirazioni e sovrapponendosi ai piu’ alti ideali di salvezza.
      Platone ci mise sull’avviso rammentando che l’uomo e’ il bestiame degli dei.
      Alla malora qualsiasi impianto che sostiene questa giostra propriamente arcontica

      E’ la totalita’ del cosmo una prigione percettiva
      L’armonia delle sfere testimonierebbe unicamente il prodigio sincronico delle serrature concentriche sigillanti il nostro profondo esilio

      Aveva ragione Eraclito nel diffidare di Pitagora

      Ne’ con dio ne’ con gli dei ne’ con i loro emissari. L’uomo, appartenente al Ciclo maggiormente degradato e oscuro, dovra’ necessariamente dare prova di una propria determinazione sovrana. Evocare in se’ lo splendore sopralucente e farlo contrariamente ad ogni ambizione di realizzazione meramente terrena, sebbene e’ questa stessa materia che ne dara’ testimonianza.
      Non si puo’ non essere contro gli dei
      Al singolo la prova di condurre una disciplina irreprensibile e trascendente

  • Nicola Bizzi 14 Gennaio 2020

    Ringrazio Antonio per il suo commento, che però in buona parte non condivido. Non si tratta, a mio parere, sempre degli stessi principi e non tutto può essere ricondotto meramente all’Astronomia. O, meglio, ad una limitata visione astronomica eliocentrica.
    Non condivido, del resto, neanche la logica decadentista o catabasica.
    La Teogonia di Esiodo parla chiaro. La Titanomachia, in particolare, non è dal mio punto di vista interpretabile esclusivamente in chiave simbolica, naturalistica o astronomica, altrimenti corriamo il rischio di sfociare nel più deteriore evemerismo. Ho sempre avuto la ferma convinzione che i testi di Esiodo facciano riferimento a fatti reali e a episodi storici concreti di un remoto passato.

  • Antonio 16 Gennaio 2020

    Non è questione di astronomia, il rferimento ai pianeti astronomici è puramente analogico. L’ordine dato è in realtà il tolemaico perché i 7 pianeti, essendo 7 gradi di materializzazione, 7 funzioni e molto altro ancora, hanno senso solo se riferiti al sistema tolemaico. Il decadimento storico è un dato di fatto sostenuto da tutti gli autori tradizionali e confermato dall’attuale realtà, dove si evolve materialmente e tecnologicamente ma si involve spiritualmente. Non è bene fare ragionare gli antichi come ragionano i moderni, perché allora la mentalità moderna era ancora di là da venire. Mi sembra di capire che gli Dei, per essere veri e reali, devono corrispondere a personaggi storici umani esistiti realmente. Mentre per Dei, di solito, ci si riferisce a essenze, potenze, potestà del sovramondo, che possono entrare in sintonia o adombrare qualche personaggio storico, ma in sé sono espressione del sovraumano.

  • Nicola Bizzi 17 Gennaio 2020

    No, Antonio, non fraintendermi. Non ho mai sostenuto che gli Dei, per essere veri e reali, debbano corrispondere a personaggi storici umani esistiti realmente. Gli Dei sono chiaramente delle potenze e delle espressioni della sfera sovrumana, ben distinti dai mortali. E non ho mai neanche sostenuto che si debba far ragionare gli antichi con ottica moderna. In un mio articolo intitolato “Le limitazioni dei moderni storici e scienziati nella comprensione della dimensione del Sacro degli antichi”, pubblicato in data 8 Settembre 2019 sempre su Ereticamente, spiego bene il mio pensiero a riguardo. Intendevo semplicemente dire che testi come ad esempio la Teogonia di Esiodo fanno a mio parere riferimento a fatti realmente avvenuti, fatti che però non devono necessariamente essere interpretati come vicende umane, bensì come rientranti nella sfera divina.

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