“Noi siamo in guerra dal 1922, e cioè dal giorno in cui alzammo contro il mondo massonico, democratico, capitalistico la bandiera della nostra rivoluzione. Da quel giorno il mondo del liberalismo, della democrazia, della plutocrazia ci dichiarò e ci fece la guerra con campagne di stampa, diffusione di calunnie, sabotaggi finanziari, attentati e congiure anche quando eravamo intenti a quel lavoro di ricostruzione interna che rimarrà nei secoli quale indistruttibile documentazione della nostra volontà creatrice.” (Benito Mussolini)
Le conseguenze generate dalla fine della prima guerra mondiale ebbero l’effetto di sconvolgere il mondo intero, creando le condizioni ottimali per un radicale mutamento delle forme politiche e civili delle nazioni europee.
Si era infatti definitivamente concluso il periodo della cosiddetta belle époque, erano crollate realtà dinastiche che avevano imperato per secoli e la stessa Europa stava sprofondando in una abissale crisi di valori, apparentemente senza via di uscita,
La stessa partecipazione militare degli USA al conflitto, con tutto quello che ne sarebbe poi conseguito, congiuntamente alla rivoluzione bolscevica che si imposta in Russia, avevano fatto comprendere, anche ai più ingenui, che la secolare egemonia politica, culturale e militare dell’Europa sul resto del mondo stava volgendo drammaticamente verso il tramonto.
Sorgeva, invece, l’appassionante stagione delle grandi Weltanschauung che si impadronirono della coscienza delle masse europee, dei movimenti a vocazione totalitaria, della militarizzazione della politica e di una gioventù idealistica ansiosa di potersi battere nelle strade. La stagione impetuosa delle grandi rivoluzioni che avrebbero mutato il corso della Storia, determinando i destini dei popoli e delle nazioni: quella bolscevica, quella fascista e quella nazionalsocialista.
D’altronde, lo stesso Alessandro Pavolini, quando fu il federale di Firenze, nel suo editoriale dal titolo Rivoluzione di popolo, apparso sul giornale del Fascio fiorentino Il Bargello, del 12 giugno 1932, volle porre entusiasticamente l’accento sul fatto che: “A Mosca, a Berlino, a Roma le vaste folle compatte levano i volti appassionati, le insegne, i canti unanimi. I proiettori della storia e dell’attenzione mondiale le illuminano in pieno.”
Il crollo delle ormai superate concezioni democratiche e liberali si andava annunciando prepotentemente attraverso il linguaggio del mito eroico, della nazione coniugata con la rivoluzione, del popolo ricondotto nel corpo della nazione, dell’esaltante ed irriverente esuberanza squadristica erede della guerra di popolo combattuta nelle trincee, del disprezzo nei confronti del conformismo borghese e del suo mercimonio affaristico.
Attraverso questi motivi, le avanguardie che si riconobbero nel Fascismo, seppero parlare alle masse per educarle ad essere popolo e nazione, restituendole un organico senso di appartenenza condivisa e di solidarietà diffuse, un orientamento e una nuova fiducia nei confronti di una rinnovabile identità collettiva della nazione italiana.
Il Fascismo ― anch’esso figlio della grande crisi europea, al pari degli altri fermenti rivoluzionari di varia e differente natura ― nutriva l’ambizione di essere il promotore di processi rivoluzionari politici e sociali, delle mentalità e dei costumi, assolutamente all’avanguardia, un’aspirazione rivoluzionaria a vocazione totalitaria destinata ad un totale superamento degli ordinamenti antecedenti, che trovò il suo momento di coagulo nell’adunata del 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano, dove Benito Mussolini chiamò a raccolta le migliori energie, ancora frammentate, ma vive e presenti nella nazione italiana.
Offrendo loro, attraverso una innovativa interpretazione della partecipazione politica — i Fasci di Combattimento e le squadre d’azione — le molteplici risposte ai problemi generati dalle identità perdute e dalla crescente volontà di mobilitazione manifestata dalle masse, questioni che si erano già proposte come l’espressione delle crisi prodotte dalla modernità e che la guerra mondiale aveva soltanto radicalizzato ed esasperato.
L’elemento fondamentale che seppe trasformare un fermento culturale, intellettuale e organizzativo diffuso in una forza politica aggressiva e potente come quella fascista fu la sua capacità di affrontare la politica di massa con la spregiudicatezza tipica delle avanguardie creatrici delle nuove categorie politiche e dei nuovi parametri di riferimento.
L’innovativa e avanguardistica proposta politica fascista, che emerse nel 1919, seppe imporsi con un incontestabile successo nella società italiana ponendosi in totale contrapposizione con le fallimentari impostazioni dogmatiche dei partiti borghesi tradizionali, incapaci di qualsiasi slancio morale e totalmente privi di una sana e salda coscienza nazionale, e manifestando apertamente un deciso rifiuto dell’Italia giolittiana e di quel ricettacolo di intrighi rappresentato dal parlamentarismo democratico.
Le nuove categorie politiche professate dai fascisti provenivano direttamente dallo spirito del volontariato interventista e quindi da una convinta adesione alle motivazioni della grande guerra che i fascisti, successivamente, vollero interpretare come un grande evento rivoluzionario di popolo, la genesi di un rinnovato sentimento nazionale e di una nuova concezione della vita politica e della milizia politica che avrebbero dovuto essere la proiezione nella vita civile dell’esperienza maturata nelle trincee.
Le masse popolari combattentistiche e in modo particolare le sue componenti giovanili, bramose di ideali coinvolgenti, riportarono nella vita civile l’interpretazione dell’esperienza bellica vissuta come un’esaltante, anche se certamente drammatica, avventura permeata da una elevatissima tensione ideale. Sui campi di battaglia avevano scoperto di poter vivere in un’altra maniera e soprattutto di poter pensare in un’altra maniera, avevano scoperto dei nuovi valori radicati nell’etica della lotta, nel superamento dei limiti umani e nel cameratismo interclassista che aveva accumunato saldamente i combattenti tra di loro, un legame umano e spirituale che era stato cementato dall’orgoglio, dalla tenacia, dall’eroismo e dalla sofferenza che avevano unito nelle trincee uomini di origine politica e sociale diversissima, creando così i presupposti di quel formidabile spirito di solidarietà nazionale che, nelle intenzioni del movimento fascista, avrebbe ristabilito il primato della politica sulle altre questioni — soprattutto su quelle economiche — sarebbe stato alla base della costruzione di un nuova Comunità nazionale e sociale.
Tutto questo, con l’aggiunta di una esasperazione più che legittima, creò una divaricazione insormontabile tra le classi dirigenziali della nazione, trasversali a tutti gli schieramenti politici, che non avevano subito le ricadute del conflitto e le grandi masse popolari che invece avevano provato sulla propria pelle i drammi della guerra e che adesso reclamavano a gran voce il diritto di essere parte attiva nel processo di cambiamento della nazione, rivendicando il ruolo di architrave della rivoluzione nazionale, poiché come aveva giustamente affermato Edmondo Rossoni — che dall’attivismo sindacalista era passato allo squadrismo fascista — la patria doveva essere conquistata con la lotta e mai negata.
Scriverà Benito Mussolini all’indomani della fine del conflitto: “La nostra è stata guerra di popolo, la vittoria è vittoria di popolo. E’ stato un cozzo spaventevole fra le forze del passato e quelle dell’avvenire. L’Italia, la nazione dell’avvenire, ha schiacciato le forze del passato e, divelte le sbarre della vecchia prigione asburgica, ha liberato i popoli. Maggio 1915, ottobre 1918. L’inizio e la fine. La volontà. La costanza. Il sacrificio. La gloria.”
Sarà anche Giuseppe Bottai ad esprimere con efficacia i sentimenti e le volontà dei reduci più intransigenti, già moralmente in marcia verso l’avvenire: “Per noi la guerra non è finita il 4 novembre 1918. Le firme apposte sugli stracci di carta (sia per maceri anglosassoni che latini) non ci interessano. Sappiamo che la pace potrà costruirsi sulla vigile, ferma, instancabile volontà di noi combattenti. Scendiamo nelle piazze. Sentiamo ch’è il nostro dovere non tacere e gridare, urlare nelle orecchie di questo sonnolento e dimenticone paese… Non possiamo rinunziare alla politica. Essa è il nostro dovere, il nostro pane quotidiano.”
Il 23 marzo 1919, con la fondazione dei Fasci di Combattimento, le avanguardie di popolo dei combattenti, i sindacalisti rivoluzionari desiderosi di riconquistare il proletariato alla nazione, i futuristi dissacratori del perbenismo borghese, gli anarchici di matrice stirneriana in cerca di azione e le frange più irrequiete della gioventù si ritrovarono attorno a Benito Mussolini e al suo programma di sintesi sociale e nazionale per iniziare il loro assalto rivoluzionario contro l’edificio del conservatorismo liberale e del marxismo addomesticato nei salotti del potere.
Nascerà così la stagione rivoluzionaria dell’avventura squadristica, la testa d’ariete del movimentismo fascista che si mise in condizione di poter rispondere adeguatamente alla violenza degli antifascisti.
Allora, molti fra i benpensanti reazionari guardarono al Fascismo speranzosi che la sua azione si limitasse soltanto a soffocare le velleità insurrezionaliste della sinistra più massimalista al fine di restaurare la pienezza dell’autorità dello Stato monarchico, per costoro i fascisti dovevano servire esclusivamente per dare una sonora lezione alle teste calde dei marxisti e meno che mai per dare corso ad una rivoluzione sociale e politica di stampo nazionalpopolare in camicia nera. Di questo Benito Mussolini ne era più che consapevole, tanto da ribattere: “I pavidi borghesi sorridono di compiacenza quando ci vedono rompere il grugno ai socialisti, ma ringhiano di malcontento quando leggono fra i postulati del nostro programma la decimazione di tutte le ricchezze, la confisca dei sovrapprofitti di guerra, la forte tassa sulle eredità.”
In questo modo, Benito Mussolini, potette così confermare l’originalità del movimentismo fascista, non solamente respingendo l’illazione che esso potesse mai essere uno strumento manipolato dalla reazione borghese, ma anche lanciando appelli alle componenti socialmente più avanzate del sindacalismo, cioè quelle che non volevano accettare i condizionamenti del movimento marxista, affinché riconoscessero nel Fascismo l’unico movimento che avesse sinceramente a cuore non solamente il rinnovamento nazionale, ma ancor di più l’integrazione delle masse lavoratrici nella vita dello Stato.
Non a caso, infatti, anche Niccolò Giani, l’esponente di rilievo della Scuola di Mistica Fascista, non smetterà mai di ricordare che: “La Rivoluzione Fascista infatti non è stata reazione come qualcuno ha creduto in origine e come tuttora si crede da molti all’estero; è stata invece l’ostetrica della nuova storia. Il 28 ottobre 1922 è sorta una nuova civiltà capace di risolvere tutti i problemi della società contemporanea.”
Dalla fondazione dei Fasci di Combattimento fino alla data fatidica della marcia rivoluzionaria, gli squadristi fascisti dimostrarono con i fatti di essere un’aristocrazia politica e combattente forgiata nella lotta che seppe scrivere, con il proprio sangue, pagine epiche di coraggio e di ardimento, affrontando contemporaneamente e con grinta la violenza degli antifascisti, la repressione governativa dei prefetti e dei gendarmi, e le carcerazioni.
La forza rivoluzionaria squadristica delle camicie nere che il 28 ottobre riversò tutto il suo entusiasmo e la sua volontà di vittoria marciando verso Roma per scardinare definitivamente le infrastrutture di una società politica ormai decrepita e fatiscente, volle portare a compimento le tante aspettative covate dagli attivisti fascisti nel corso di quella violenta e sanguinosa guerra civile che avevano vissuto da protagonisti e che avevano attraversato con un enorme coraggio e spirito di sacrificio, portandone addosso le cicatrici, per rifondare ex novo una nuova società civile e politica, uno Stato forte ed autorevole che fosse in grado di sanare le lacerazioni che affliggevano il corpo della nazione e promuoverne la rigenerazione morale e sociale, il tutto all’insegna di una concezione fascista globale della vita che loro vollero proporre nel suo nucleo più intransigente, più puro ed autentico, senza compromessi e senza mediazioni.
Si trattava pertanto di una genuina visione del Fascismo, che chiamava alla mobilitazione non solamente contro la sovversione marxista e in fin dei conti anche contro quella clericale, ma con altrettanto vigore muoveva battaglia contro i settori più egoisti e miopi della ricca borghesia e contro le sue tradizionali rappresentanze massoniche, monarchiche e liberal-democratiche, per giungere infine ad una nuova definizione della concezione stessa della Nazione.
Era il Fascismo militante che esaltava senza tregua l’azione rivoluzionaria in senso anti-borghese e anti-liberale portata avanti dalle squadre d’azione, quel determinato Fascismo definito per l’appunto come “integrale” proprio perché irriducibilmente rivoluzionario, ponendo altresì l’accento sulla nuova aristocrazia del coraggio incarnata dagli squadristi, che allo stesso tempo sapeva essere aristocrazia di popolo.
Spesso e volentieri gli squadristi si fecero anche voce di un anti-modernismo di matrice ruralista che venne interpretato come una risposta organica all’alienazione dell’urbanizzazione e che spesso andava a incontrarsi con il sindacalismo di matrice corridoniana.
Costoro, ponendo l’accento sulla matrice popolaresca, strapaesana e provinciale del moto rivoluzionario fascista — sempre più convinti che la difesa della buona salute del Fascismo non potesse che fare riferimento al genuino spirito rivoluzionario che contrassegnava gli squadristi delle province ed al proficuo raccordo che si era creato fra le avanguardie fasciste e le masse popolari — si trovarono anche a sottolineare che il Fascismo non poteva che essere un movimento avverso ad ogni smodata urbanizzazione che deturpasse l’armonia del paesaggio tradizionale, oltre che ad una industrializzazione senza freni.
Inoltre, questi rivoluzionari barricadieri, che della feconda sintesi di pensiero ed azione furono i portabandiera, nei loro giornali di lotta scrissero anche acute e velenose pagine sulla civilizzazione americana quale fonte di presunte felicità materialistiche e di reali sfruttamenti capitalistici, anticipando di qualche anno con le loro osservazioni critiche a carattere socio-economico e culturale non solamente le cause del drammatico crollo del 1929 della borsa di Wall Street — che il Duce del Fascismo definirà come uno dei sintomi più evidenti della crisi strutturale del sistema liberal-capitalistico — ma anche tutta una florida ed interessante letteratura politica anti-americana che prese corpo negli anni del regime evidenziando, in tempi non sospetti, la contrapposizione tra l’americanismo e la Civiltà europea e quindi tra il modello liberale americano e il modello fascista, e che si manifestò come una delle più interessanti espressioni culturali ed ideologiche degli ambienti del radicalismo oltranzista fascista.
Gli USA erano d’altronde la società capitalista per eccellenza, la nuova Babilonia del profitto speculativo, la sintesi perfetta di Demos e oro, gli stessi grattacieli di New York appariranno agli occhi degli intellettuali fascisti come dei campanili privi di campane di una religione materialista del Dio denaro, le rocche baronali della Plutocrazia e a tutto questo contrapporranno il Fascismo, individuato da loro come l’unica strada percorribile per l’uscita dei popoli dalla crisi della civiltà moderna e il più solido baluardo etico, sociale e morale contro l’imperialismo spirituale americano e il suo modello economico. Una coinvolgente chiave di lettura che troverà poi numerose casse di risonanza negli apparati culturali ufficiali del regime fascista e negli scritti degli intellettuali militanti del Fascismo integrale, come nel caso di Romano Bilenchi, uno stretto collaboratore di Berto Ricci: “Non bisogna mai dimenticare, nel giudicare la situazione politica dell’Europa e del mondo, questo: che il fascismo è una rivoluzione in marcia contro il mondo capitalista, liberale, democratico, borghese, materialista, nelle sue forme corporee, cioè nei suoi istituti, e sopra tutto nel suo spirito.”
Questi esponenti del Fascismo più integrale e radicale si considerarono, molto seriamente, l’avanguardia di una comunità morale che riconosceva, come unici spartiacque, il senso dell’onore, il servizio reso in guerra e le sofferenze patite nelle trincee, la fede nei nuovi valori sorti dall’esperienza combattentistica, i sacrifici imposti dallo sforzo bellico che erano stati accettati volontariamente, e poi l’adesione convinta al Fascismo inteso come il promotore di un nuovo stile di vita e nella militanza quadristica, che questa nuova tenuta esistenziale aveva rappresentato.
Una presa di posizione che richiamandosi alle virtù rigeneratrici dell’azione fascista, alla pedagogia educativa rivoluzionaria e squadristica, metteva impietosamente alla berlina i vizi borghesi, il lassismo borghese, i più bassi istinti borghesi, la brama speculativa borghese, insomma le tante manifestazioni dello stato d’animo borghese che intorbidivano la nazione italiana inquinando il suo popolo.
In questa battaglia, dall’intenso valore politico, etico e morale, le migliori penne provenienti dal mondo delle squadre d’azione, come Marcello Gallian, saranno in prima fila: “I più, a orecchio, intendono per borghese l’impiegato con i gomiti sdruciti e la papalina, l’orologio pronto a mezzogiorno e la camomilla la sera. Son pochi quelli che sanno l’impiegato essere il primo gradino d’una lunga scala, non importa se pulita o imbrattata, che ha sulla cima un Rockfeller o un Gillette. Rari, alla fine, sono coloro che credono borghesia essere uno stato d’animo, nel quale gli uomini tutti, sogliono cadere: si può essere leoni durante cent’anni e borghesi durante un’ora sola, ma terribile ora, catastrofica, letale. La borghesia è anche il popolo, il popolo tutto.”
Il Fascismo manifestò apertamente, fin dalle origini diciannoviste, la sua ferma e inderogabile volontà politica di voler perseguire il fine dell’integrazione totale del popolo italiano nel processo rivoluzionario di radicale trasformazione della società in senso fascista, affinché si raggiungesse il completamento culturale e politico della sintesi organica tra Stato, Nazione e popolo. Un tale processo che non poteva quindi prescindere dallo sviluppo e dall’applicazione di un vasto panorama di interventi che dovevano, attraverso la propaganda e l’inquadramento politico dei vari strati della popolazione, sviluppare una nuova coscienza di appartenenza alla Comunità nazionale, ricostruendo l’interezza del tessuto della vita collettiva che le Oligarchie liberali avevano seriamente compromesso.
Il popolo italiano doveva essere educato politicamente, mediante una costante azione di integrazione sociale negli organismi dello Stato e del Partito, affinché riconoscesse nel Fascismo l’entusiasmante e coinvolgente soluzione dei conflitti che avevano lacerato la società moderna, l’aurora di una nuova era di rinascita sociale e di grandezza nazionale, la nascita di una nuova Civiltà destinata a durare nel tempo futuro e a questa forte percezione contribuirono efficacemente la mobilitazione costante delle forze della nazione, l’educazione della gioventù in un clima di elevata tensione idealistica, il culto politico della figura del Duce, il senso del dovere quale fondamentale virtù civica, il disprezzo verso il decadentismo borghese, un sentimento di sacrificio disinteressato volto alla grandezza nazionale, la valorizzazione del culto eroico dei caduti per la causa della Rivoluzione, che incarnavano spiritualmente la perpetuazione mistica della Comunità nazionale e fascista, la testimonianza del sangue versato, della fede nell’opera del Duce e nella missione epocale del Fascismo.
Che il richiamo alla potenza evocatrice del mito avesse avuto un inequivocabile valore fondante nel modo di pensare fascista venne ammesso dallo stesso Benito Mussolini: “Il mito è una fede, una passione. Non è necessario che sia una realtà. E’ una realtà, nel fatto che è pungolo: che è una speranza, che è fede e coraggio.”
La cultura fascista, nelle sue migliori espressioni, pose quindi in essere i fondamenti pedagogici per una selezione diretta alla formazione dell’Uomo Nuovo, che avrebbe coinciso con la concretizzazione vivente del mito attivistico fascista, andando così ad affermare apertamente la necessità di una rivoluzione delle identità, una rivoluzione culturale e una riconversione antropologica e spirituale della persona e di un percorso di crescita e di valorizzazione da attuarsi attraverso una radicale ridefinizione dei valori, dei comportamenti e delle mete del popolo italiano e in senso migliorativo della personalità umana.
Il progetto avrebbe mirato a creare le migliori condizioni propedeutiche all’affermazione dell’uomo integrale fascista, una particolare tipologia umana dalla dimensione generosa, sobriamente virile ed entusiastica, nei confronti della quale si espresse Benito Mussolini parlando nel 1933 all’assemblea delle corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero.”
Evidenziando così quella specifica concezione che il Fascismo aveva dell’Uomo Nuovo, che avrebbe dovuto essere in grado di raccogliere in sé tutte quelle energie creative che la cultura rivoluzionaria fascista aveva così tanto entusiasticamente espresso e che non aveva mai smesso di ricollegare alla stagione eroica dello squadrismo, così intrisa di fede, di sacrificio e di martirio, come lo stesso Mussolini volle sottolineare: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.”
Per arrivare infine a quella visione rivoluzionaria, coltivata dal Duce fin dalle origini diciannoviste, di un Uomo Nuovo, fascisticamente concepito, capace di esprimere compiutamente se stesso attraverso la tenuta interiore e la forma esemplare, poiché sarebbe stato arricchito, nell’anima e nella mente, da tutte quelle virtù eroiche, politiche, spirituali e civiche che il Fascismo volle trasmettere alle generazioni che sarebbero cresciute e maturate all’ombra della Civiltà del Littorio: “Il Fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore di istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuol disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il fascio littorio, simbolo dell’unità della forza e della giustizia.”
Maurizio Rossi
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