Cioran ed Eliade, due insigni rappresentanti della cultura romena del secolo XX. Il primo, scrittore puro, raffinato trascrittore del nulla, scettico contemplatore del mondo e delle sue sorti, il secondo storico delle religioni ed erudito, esegeta di miti e racconti favolosi dai quali apprese anche la tecnica squisita di romanziere di vaglia. I loro rapporti sono sati duraturi, si sono «frequentati», almeno epistolarmente, per oltre cinquant’anni, attraversando insieme momenti drammatici e tragici della storia del Novecento. Lo ricorda la recente e meritevole pubblicazione del loro carteggio, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983, curata da Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortaş, comparsa nel catalogo Adelphi (pp. 299, euro 22,00). Il volume è chiuso in Appendice da due scritti: nel primo, Cioran parla di Eliade, nel secondo, al contrario, Eliade si occupa di Cioran. Seguono due saggi dei curatori, che consentono al lettore di contestualizzare storicamente i contenuti dell’epistolario.
La silloge è costituita da centoquarantasei lettere, novantasei di Cioran e cinquanta di Eliade, custodite presso Archivi e biblioteche statunitensi, francesi e romene.
Entrambi erano convinti, come i tradizionalisti, che la civiltà europea volgesse alla propria fine, pervasa com’era, dallo spirito di decadenza. Per cui Eliade chiosa: «Ho la convinzione che tutto finirà, molto presto […] tutto quel che riguarda la nostra epoca (Kali-yuga), crollerà in modo apocalittico» (p. 15). Nonostante la vicinanza, è possibile rilevare nelle missive, delle differenze significative delle «equazioni personali» dei due autori. Cioran, il 25 dicembre del 1935, scrive all’amico: «Benché io provi per te un’infinita e non smentita simpatia, a volte sento il desiderio di attaccarti, senza argomenti, senza prove e senza idee. Ogniqualvolta ho avuto l’occasione di scrivere qualcosa contro di te, il mio affetto è aumentato» (p. 21). Del resto, Eliade già nel 1933, nelle Lettere a un provinciale aveva attaccato Cioran per la tanatologia ossessiva che caratterizzava, a suo dire, il suo mondo ideale e lo stesso scrittore di Sibiu, lo stesso anno, ne L’uomo senza destino, aveva «demolito» l’amico senza nominarlo. Inoltre, i due sono stati divisi, in alcuni momenti della vita, da fatti personali: Mircea aveva sedotto e abbandonato un’amica di Emil. Questi, pertanto, si era sentito autorizzato a stigmatizzare il comportamento poco onorevole del primo. Molto più tardi, negli Ottanta, durante una vacanza trascorsa nel Sud della Francia, ci furono nuovi dissapori tra i due, che coinvolsero anche Ionesco. La loro fu, quindi, una complicità discorde.
Stima reciproca, ma profonde differenze nei tratti caratteriali, che si rifrangevano anche sulle rispettive visioni del mondo. Mentre Eliade fu dominato, fin dall’adolescenza, da un’assoluta sete di conoscenza, da una tensione irrefrenabile che lo indusse ad: «accumulare conoscenze nei settori più disparati» (p. 284), l’esistenza di Cioran fu, da sempre, accompagnata da una visione tragica. Egli giudicò l’eclettismo dell’amico, prodotto del suo muoversi, nel mondo della cultura e dello spirito, più in «estensione» che in profondità. La personalità di Mircea, per Emil era priva di angoscia metafisica e di turbamento esistenziale: tali tratti possono garantire a chi ne sia latore un «destino». Per lo storico delle religioni, può valere la definizione che Cioran utilizzò per l’impresario d’idee, Jean Paul Sartre: «Pensatore senza destino, infinitamente vacuo e meravigliosamente ampio […] Nessuna fatalità lo perseguita» (p. 283). La mancanza di un polo ideale inamovibile nel suo orizzonte speculativo, rese Eliade, esploratore del sacro, estraneo alla dimensione autenticamente religiosa. Mircea fu fedele ad un solo culto, raro e prezioso, quello della bibliofilia: più degli dei adorò i libri che, in qualche modo, ne sono stati i fedeli custodi.
Al contrario, cosa unì intensamente i due studiosi? Su questo aspetto il loro epistolario non ammette smentite: l’estraneità alla storia e alle filosofie della storia. Per entrambi gli eventi umani, troppo umani, possedevano il tratto dell’inessenzialità. Così, in tema, si esprime Cioran: «Ciò che non è storia è religione. Tutto è religioso; giacché la storia non è. La mia tragedia nasce dal fatto che sono un uomo irreligioso, proprio come te» (p. 21). Emil non aveva forse scandalizzato la famiglia, soprattutto il padre, che era un pope, e lo stesso Eliade, con la pubblicazione di Lacrime e santi? Nonostante ciò, l’insigne storico delle religioni è considerato dal suo corrispondente, simbolo del paradosso religioso del nostro tempo, segnato dalla morte di Dio: «Siamo tutti, Eliade in testa, ex credenti, siamo tutti spiriti religiosi senza religione» (p. 286). Lo scettico Emil comprese che il punto di debolezza dell’amico era anche la sua forza: paladino teorico della coincidentia oppositorium, lo studioso la realizzò mirabilmente nella propria vita, conciliando mistica e letteratura, spirito erudito e facezie.
Eliade, prima di perdere i sensi a causa dell’ictus che, due giorni dopo, lo separò dalla vita terrena, era immerso nella lettura degli Esercizi di ammirazione di Cioran. In particolare, stava leggendo le pagine geniali, anche se irriverenti, che in quel testo di congedo gli aveva dedicato l’amico di sempre. La moglie dello studioso riferì di averlo trovato, sulla poltrona da lettura, con il sorriso sulle labbra: segno, forse, che ebbe coscienza, un’ultima volta, della loro segreta complicità, complicità di vetta, complicità stellare.
Giovanni Sessa