11 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, sedicesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo la nostra rubrica dalla seconda decade di gennaio per quanto riguarda i fatti esaminati, ma al momento in cui scrivo siamo a febbraio, e questo significa che non leggerete l’articolo prima di marzo. A causa soprattutto del diluvio di fatti e informazioni che si sono verificati nella seconda metà del 2019, ciò significa che lo iato di un paio di mesi fra le notizie riguardanti l’eredità ancestrale, e il momento in cui ho modo di parlarvene su “Ereticamente” non si è colmato, ma diciamo pure che questo rappresenta pur sempre un male minore rispetto a quello che potrebbe essere rappresentato da un rarefarsi delle informazioni che non consentisse a questa rubrica di continuare a esistere.

Il 13 gennaio un comunicato di lescienze.it riporta i risultati di una ricerca condotta dall’IRCCS Medea di Bosisio Parini (Lc) in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano. A quanto pare, i virus dell’Herpes Simplex di tipo 1 e tipo 2, diffusissimi nel continente africano e molto simili a quelli che infettano le grandi scimmie e presenti fra la popolazione subsahariana da qualcosa come 200.000 anni, si sarebbero diffusi fuori dall’Africa non prima del XVIII secolo, in coincidenza con la tratta degli schiavi.

L’aspetto importante per noi di questa ricerca epidemiologica del cui significato né i ricercatori lombardi né i redattori della versione “on line” de “Le Scienze” sembrano essersi minimamente accorti, è che essa, ammesso che ne avessimo avuto bisogno, costituisce un’ulteriore lampante smentita dell’Out of Africa, infatti, dal momento che questi virus hanno nel Continente Nero una presenza molto antica e diffusa, nell’ipotesi che i nostri antenati provenissero realmente da lì, essi dovrebbero essere diffusi anche fra le popolazioni extra-africane da decine di migliaia di anni, non da qualche secolo. La ricerca delle origini oggi somiglia molto all’astronomia dei secoli XVI e XVII, quando, più si cercava di confermare la visione geocentrica di Aristotele e Tolomeo, tanto più si ammucchiavano prove contro di essa. La stessa cosa succede oggi per l’Out of Africa, che sicuramente non vale di più del geocentrismo.

Oggi, come ho osservato più di una volta, sembra di assistere, quanto meno in campo scientifico, a una nuova Guerra Fredda a parti invertite, con gli Occidentali costretti a non contraddire il dogma afrocentrico, laddove i Russi sono invece liberi di esprimersi e dire le cose come stanno.

“Antropogenez.ru”, ci dà la risposta a una questione che “i ricercatori” occidentali hanno messo (o hanno dovuto mettere) in campo. E’ vero che fino a poche migliaia di anni fa le popolazioni eurasiatiche avevano la pelle scura, retaggio della loro presunta origine africana?

L’articolista cita il ritrovamento de resti di un cacciatore paleolitico rinvenuti a Ust Ishim in Siberia e risalenti a 45.000 anni fa. L’esame del DNA avrebbe rivelato geni per la depigmentazione (ossia la pelle chiara) e per gli occhi azzurri.

Un articolo di Antikitera.net del 13 gennaio a firma di Vins Lilly, riporta la notizia che a seguito della siccità è riemerso dalle acque il sito megalitico spagnolo di Guadalperal. Questo sito, a volte chiamato la Stonehenge spagnola, si trova nella provincia di Cacéres, ed è composto da 144 pietre erette, menhir che formano una struttura approssimativamente circolare. L’articolista lo definisce erroneamente dolmen, ma si tratterebbe piuttosto di una struttura simile a un cromlech. Si tratterebbe a ogni modo di uno dei siti megalitici più antichi d’Europa, datato a settemila anni fa,

Il sito, che un tempo si trovava ovviamente all’asciutto, è stato sommerso dalle acque oltre mezzo secolo fa, precisamente nel 1963 a causa della costruzione di una diga che ha portato alla formazione di un lago artificiale. Oggi si sta pensando di spostarlo in una posizione più elevata come è stato fatto per il tempio egizio di Abu Simbel. Ci sarebbe veramente da chiedersi come mai un’idea simile sia venuta solo adesso dopo un cinquantennio e passa di ammollo.

Si capisce che la produzione di energia elettrica e il ricavare nuova terra per l’agricoltura (le regioni interne della Spagna sono aride) hanno la loro importanza, ma ne ha anche l’archeologia, soprattutto di fronte a un monumento così antico, senza contare che tutto ciò potrebbe anche avere una ricaduta economica in termini di turismo, come dimostra l’esempio degli Inglesi che hanno ben saputo “usufruire” di Stonehenge da questo punto di vista. E’ vero però che non dovremmo parlare noi italiani che in fatto di incuria del nostro patrimonio artistico e archeologico, siamo maestri.

Ciò è inaccettabile, dobbiamo essere consapevolo che senza la conoscenza del passato non è possibile tracciare la via per il futuro della nostra gente.

Il 14 gennaio “Discover Magazine” riporta una notizia sorprendente: fino ad ora si era pensato che gli uomini di Neanderthal si fossero estinti attorno ai 40.000 anni fa, e che il loro ultimo santuario fosse stato nella Spagna meridionale, la regione attorno a Gibilterra. Ora questa idea deve essere abbandonata. L’articolo in questione, invece, a firma di Bridget Alex, (traduco il titolo in italiano) Nel lontano nord della Russia un gruppo isolato di Neanderthal potrebbe essere stato l’ultimo del loro tipo.

Il sito siberiano di Byzovaya si trova a ridosso dei monti Urali a 65 gradi di latitudine nord, a non più di cento miglia di distanza dal circolo polare artico, molto più a nord di quello che si credeva fosse il limite degli insediamenti neanderthaliani, e ha restituito circa 300 manufatti in pietra e oltre 4000 d’osso di tipo musteriano. Gli uomini di Byzovaya erano a quanto pare neanderthaliani dediti alla caccia di grosse prede, soprattutto mammut. Ma quel che rende eccezionale questo sito, è il fatto che esso è stato occupato da questi cacciatori fino a 31.000 anni fa, cioè 9.000 anni dopo quella data di 40.000 anni or sono che finora si è ritenuto fosse l’epoca dell’estinzione degli uomini di Neanderthal.

9.000 anni fanno una bella differenza. Basti pensare che si tratta di un periodo di tempo maggiore di quello che separa il presente dalla costruzione delle piramidi di Giza. Dobbiamo renderci conto che quel che sappiamo della più remota storia dell’umanità, è ancora veramente poco.

Cosa davvero strana, ma quanto più progrediamo nella comprensione della storia della nostra specie, tanto più l’ago della nostra bussola non punta verso l’Africa, ma irresistibilmente verso il nord.

Rsi.ch è un sito di appoggio alla televisione svizzera in lingua italiana. Domenica 26 gennaio è apparso su di esso un breve articolo di commento a un servizio su “Il giardino di Albert”, la rubrica scientifica. (Temo fortemente che l’Albert in questione sia il noto ciarlatano e plagiario che lavorò all’ufficio brevetti di Basilea). L’articolo e l’omonima trasmissione televisiva ci parlano del Mistero della scomparsa delle megafauna. In parole più semplici possibile, dopo la scomparsa dei dinosauri e fino a poche decine di migliaia o a poche migliaia di anni fa, il nostro pianeta era popolato da animali giganteschi, uccelli e mammiferi il cui sviluppo giunse quasi a eguagliare quello dei dinosauri, che nel loro complesso formarono quella che è stata chiamata megafauna, e che andarono incontro a una ancora per molti versi misteriosa estinzione.

“Il giardino di Albert” ci racconta che in passato i ricercatori ne hanno attribuito la causa soprattutto ai cambiamenti climatici, in particolare quelli relativamente bruschi verificatisi alla fine dell’ultima età glaciale, mentre oggi puntano il dito soprattutto sull’uomo che avrebbe provocato l’estinzione di mammut, mastodonti, megateri e via dicendo, sia direttamente attraverso la caccia, sia indirettamente alterando il loro habitat.

Peccato che gli autori del servizio e dell’articolo non abbiano tenuto conto e verosimilmente non si siano nemmeno accorti di un importante corollario del loro ragionamento: l’estinzione della megafauna non è avvenuta contemporaneamente dappertutto, e se gli esseri umani ne sono stati i responsabili, allora essa deve aver proceduto con lo stesso ritmo e secondo le stesse direttrici dell’espansione umana sul nostro pianeta.

Bene, esaminando le cose in quest’ottica, che cosa vediamo?

Le regioni in cui l’estinzione della megafauna sono stato più precoci sono state l’Europa e l’Asia a nord della catena dell’Himalaia, seguite dall’America settentrionale. Più tardiva l’America meridionale, dove sono stati trovati resti di milodonte, una specie di bradipo gigante, risalenti a non più di tremila anni fa. Più tardive ancora l’Oceania e il Madagascar, dove vivevano ancora in epoca storica uccelli giganteschi come il moa neozelandese e l’uccello-elefante malgascio. In fondo all’elenco, il subcontinente indiano dove troviamo i resti di una megafauna ancora viventi oggi, rappresentati dagli elefanti e dai rinoceronti indiani, e soprattutto l’Africa che possiede ancora oggi una florida megafauna rappresentata da elefanti, rinoceronti, ippopotami, giraffe.

Se consideriamo l’estinzione della megafauna una conseguenza dell’espansione umana sul nostro pianeta, scopriamo una direttrice di marcia che è esattamente l’opposto di quella prospettata dall’Out of Africa, che parte dal settentrione eurasiatico e in cui, anzi, l’Africa al disotto del Sahara mostra piuttosto di essere l’ultima tappa.

Voi certamente ricorderete che gli studi sul DNA antico iniziati da Svante Paabo hanno evidenziato la presenza di geni neanderthaliani (fino al 4%) nelle moderne popolazioni europee e asiatiche, e denisoviani (fino al 6% in quelle asiatiche e australoidi), mentre per quanto riguarda i neri subsahariani non è stata trovata traccia né dell’eredità degli uni né degli altri, di quelle che con un bruttissimo termine sono state chiamate introgressioni, quasi si trattasse di infezioni parassitarie, mentre sono l’eco di antichi accoppiamenti (negli animali superiori, negli esseri umani che non sono esattamente dei batteri, il rapporto sessuale è l’unico modo in cui può avvenire lo scambio di materiale genetico tra popolazioni diverse).

Questo diede modo ad alcuni sinistri imbecilli, sempre pronti a manifestare un atteggiamento di masochismo etnico, di darsi a esaltare la pura linea sapiens africana in confronto a noi eurasiatici, poveri ibridi di Neanderthal e Denisova, tacendo naturalmente alcuni fatti, come ad esempio che questi puri sapiens africani hanno un Q. I. mediamente inferiore di 30 punti rispetto a quello degli eurasiatici, ma dandoci nel complesso una splendida dimostrazione del fatto che il razzismo di sinistra esiste eccome! Razzismo che non è soltanto obiettivamente ingiusto e moralmente repellente, ma fondamentalmente stupido, perché diretto contro la propria gente.

Poi nel 2017 è arrivata la doccia gelata, perché i ricercatori dell’università di Buffalo hanno dimostrato che, anche se non c’è né Neanderthal né Denisova nel genoma dei neri subsahariani, c’è bene un’introgressione pari all’8% (la più alta che si conosca in qualsiasi gruppo umano attuale) di un homo primitivo non identificato che è stato chiamato “specie fantasma”. Altro che puri sapiens. Per parafrasare un noto slogan, “restiamo umani al 92%”.

Bene, le cose sono rimaste finora a questo punto, ma lescienze.it del 30 gennaio, riprendendo un articolo pubblicato sulla rivista americana “Cell”, ci dà notizia che una ricerca guidata da Josha Ackey dell’università di Princeton avrebbe permesso di evidenziare una lieve traccia di DNA neanderthaliano anche nei neri africani, valutata allo 0,3% del genoma. Essa sarebbe dovuta a una migrazione avvenuta dall’Eurasia all’Africa attorno ai 20.000 anni fa.

Questo non sposta molto le cose, vista anche la sua tenuità, tranne che in un senso, che ci testimonia di uno spostamento di geni, e quindi di popolazione, dall’Eurasia all’Africa, mentre non abbiamo traccia di migrazioni in senso contrario.

I redattori de “Le scienze” non sembrano accorgersene, ma l’Out of Africa ne esce ulteriormente indebolita.

Noi vediamo che si stanno accumulando prove che smentiscono in maniera sempre più evidente l’Out of Africa, la leggenda dell’origine africana della nostra specie, non solo ma gli indizi in proposito puntano decisamente verso il nord eurasiatico e – diciamolo pure – boreale, tuttavia possiamo essere certi che di ciò l’establishment accademico e il sistema mediatico strettamente ammanigliati al potere politico, e per i quali l’aderenza ai fatti è semplicemente un lusso che non si possono permettere, non ne terranno minimamente conto.

L’Out of Africa, come l’altra leggenda, quella della presunta luce da oriente che ho più volte smentito sulle nostre pagine, secondo la quale senza un qualche influsso civilizzatore dall’esterno, noi Europei di nulla saremmo stati capaci, hanno un preciso scopo che le rende strumenti preziosi per il dominio del potere mondialista, quello di deprimere l’idea che noi genti d’Europa possiamo avere di noi stessi, in modo da opporre la minore resistenza possibile alla sostituzione etnica.

Come se non bastasse, e l’abbiamo visto nelle parti precedenti, sempre in vista di questo infame scopo, è scattato un progetto anche di falsificazione della storia documentata, volto a farci credere che l’Europa sia sempre stata multietnica o addirittura “nera”, come l’aberrazione in cui oggi vogliono trasformare il nostro continente, cosa che è una falsità assoluta.

Noi dobbiamo perciò essere consapevoli che quello che difendiamo non è solo un concetto, importante ma astratto, di verità storica o storico-antropologica, ma prima di tutto il futuro della nostra gente e dei nostri discendenti.

NOTA: nell’illustrazione, a sinistra alcuni menhir del complesso megalitico spagnolo di Guadalperal, al centro ricostruzione del volto di un uomo di Neanderthal, questi antichi uomini sono sopravvissuti in Siberia molto più a lungo di quanto si pensasse, a sinistra, logo de “Il giardino di Albert”.

 

 

 

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