Dal momento che siamo italiani e parliamo l’italiano, cominciamo con l’intenderci sulle parole che utilizziamo. E per fare questo possiamo innanzitutto avvalerci del vocabolario, della lingua italiana ovviamente.
Alla voce socializzazione vediamo che cosa si scrive: «Nel linguaggio economico, genericamente, processo per cui si attua la trasformazione da privata in pubblica della proprietà e delle gestioni delle imprese» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Roma 1994, p. 383).
Non concordo pienamente, ma d’altra parte questa è una sintesi e poi non sono “il Vocabolario”. Quindi proseguo nella lettura, o meglio nella trascrizione, lasciando in coda eventuali commenti.
«In tal senso il termine è spesso usato come sinonimo di nazionalizzazione e di statalizzazione, che però hanno anche significati diversi e specifici. Più propriamente, l’assunzione da parte dello stato della proprietà dei mezzi di produzione delle imprese e il trasferimento della gestione delle stesse a organismi autonomi, in cui sono egualmente rappresentati i lavoratori delle imprese, i consumatori e lo stato. In origine la socializzazione, concepita in modo esteso e integrale, è stata teorizzata (ma mai attuata) nell’ambito del socialismo marxista, che l’ha considerata un mezzo adatto a preparare il passaggio della società capitalistica a una società socialista» (Ivi).
Bene, a conti fatti oggi l’Italia sta andando economicamente e socialmente malino. Che facciamo? Io personalmente non ne ho la benché minima idea. O, meglio, l’idea ce l’avrei, come moltissimi di voi. Ma siamo in democrazia, quindi anche il peggior briccone può iscriversi in un partito politico e fare carriera e comunque intascarsi uno stipendio così alto da risultare (anche se l’individuo fosse onesto) un vero insulto a chi lavora.
Che fare? Che inventare?
Intanto provo a ripescare una vecchia, ma non vecchissima, pubblicazione intitolata: «Le vere riforme. La socializzazione. Dall’economia salariale all’economia di partecipazione» (A cura del Settore Sindacale e Sociale della Federazione del M.S.I.).
E leggo: «Socializzazione significa far partecipare al godimento di un determinato bene quanti concorrono alla sua creazione. Il termine non può prestarsi a equivoci, benché sia usato ed interpretato genericamente e superficialmente anche dai seguaci del marxismo e del laburismo. La socializzazione non è né un fenomeno socialcomunista né socialdemocratico ma il modo corporativo di intendere il rapporto sociale» (Settore Sindacale e Sociale della Federazione del M.S.I. di Alessandria – a cura di -, Le vere riforme. La socializzazione. Dall’economia salariale all’economia di partecipazione, Alessandria 1971, p. 2).
Salto a piè pari le considerazioni scritte sul sistema comunista, socialdemocratico e pure sulla statalizzazione.
E proseguo nella trascrizione ripartendo dalle considerazioni proprio sulla effettiva socializzazione: «Nel sistema socializzato il soggetto della produzione è il lavoro, l’oggetto il capitale. Ciò significa che non esistono più tre fattori di produzione, ma un protagonista di essa che è il lavoro nelle sue forme tecniche e manuali ed un suo strumento che è il capitale. Pertanto i frutti della produzione appartengono prima di tutto al protagonista cioè al lavoro mentre al suo strumento va una quota relativa al rischio ed alla conservazione del potenziale economico da investire. Scompare quindi la figura del capitalista che nel sistema liberale intasca tutti i frutti della produzione e nel sistema socialista lungi dallo scomparire si trasforma in capitalismo di Stato che, al pari di quello privato, si accaparra anch’esso tutti i frutti della produzione. Non sparisce invece nella socializzazione da noi propugnata la figura del portatore di capitale che partecipa ai frutti della produzione non in quanto portatore di capitale ma in quanto tecnico, imprenditore, produttore, lavoratore. I portatori di capitale quindi non sono più una “classe” contrapposta ai lavoratori ma una categoria di lavoratori che in quanto tali hanno diritto di cittadinanza nello Stato, e che in quanto tali, a differenza che nello Stato marxista conservano il diritto-dovere di proprietà. La proprietà privata, pertanto, nella nostra socializzazione non viene soppressa quando è frutto della creazione umana e del risparmio, quando serve ad integrare e non a sostituire il lavoro» (Ibidem, pp. 4-5).
Ma in buona sostanza, che ci si guadagna?
«Sul piano aziendale essa si attua praticamente attraverso la cogestione e la partecipazione agli utili» (Ibidem, pp. 5-6).
Poi ci sarà sempre il lavativo parassita, ma questo è un altro paio di maniche e se lo Stato e la Società sono sani sapranno bene che cosa si potrà fare.
Il riferimento al “Manifesto di Verona” del 1943 (vedasi Repubblica Sociale Italiana) è poi chiarissimo: «In ogni azienda, dice il punto 12 del Manifesto di Verona (industriale, privata, parastatale, statale), le rappresentanze dei tecnici e degli operai cooperano intimamente attraverso una conoscenza diretta della gestione, all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili stessi per parte dei lavoratori» (Ibidem, p. 6).
Che dire più di quanto non sia già stato ampiamente detto e pure sperimentato nei tempi passati?
Cari “politici” o pseudotali, che vi definite di questo o quell’altro colore, come mai in questi tempi di vacche magre non ho mai udito ciò dalle vostre labbra? Troppo presi a cercare beneplaciti e voti, oltre che i nostri soldi? Ma noi, il Popolo, per quale motivo dobbiamo continuare a darveli? Siete forse i fantocci di qualchedun’altro che in effetti da dietro le quinte comanda?
Il giorno che vi si farà calare i pantaloni e le gonne a tutti, il Popolo vedrà il vostro vero colore, ovvero quello delle vostre mutande: giallo per tutti. E vi s’inviterà ad andarvele a lavare!
Caro Comunista (semmai sei esistito veramente e se non sei un massone mascherato), non storcere il naso e rifletti. Caro Fascista (se ancora veramente esisti e se non sei un massone pure tu) queste parole sulla socializzazione le scrisse anche l’M.S.I., ma a te non le ho mai sentite ripetere. Cari altri appartenenti a differenti e differenziate correnti, logge, chiese e quant’altro, non negatelo: che il popolo chini la schiena fino a farsi venire la gobba sta più che bene pure a voi.
Caro Gobbo, con la gobba cresciuta per il troppo lavoro e per il troppo genuflettersi, forse aveva ragione il nostrano Tommaso Campanella, quando secoli fa scriveva la poesia intitolata Della Plaebe:
«Il popolo è una bestia varia e grossa,
ch’ignora le sue forze; e però stassi
a pesi e botte di legni e di sassi,
guidato da un fanciul che non ha posa,
ch’egli potria disfar con una scossa:
ma lo teme e lo serve a tutti spassi.
Né sa quanto è temuto, ché i bombassi
Fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa.
Cosa stupenda! E’ s’appiccica e imprigiona
Con le man proprie, e si dà morte e guerra
Per un carlin di quanti egli al re dona.
Tutto è suo fra quanto sta fra cielo e terra,
ma nol conosce; e, se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra».
(Campanella T., La città del sole e altri scritti, Molli F. – a cura di -, Mondadori Editore, Milano 1991, p. 129.
Ma la socializzazione basterebbe a risollevare le sorti della Nazione?
Ma certamente, fa anche rima…
Accidenti, perdonate, dimenticavo una cosuccia di poco, anzi, pochissimo conto: il Cittadino, e in primis il Cittadino-Gobbo, dev’essere innanzitutto il proprietario del proprio denaro.
Altrimenti siamo punto e a capo.
La moneta e soprattutto la carta-moneta devono sempre e solo essere di proprietà del Cittadino e consequenzialmente dello Stato, se si vuole vivere da Cittadini onesti e liberi in uno Stato.
Solo così lo Stato garantisce il Cittadino e garantisce la corretta circolazione del denaro che viene emesso solo ed esclusivamente dalla Zecca di Stato e dato in fruizione mediante la sola ed esclusiva Banca di Stato.
Già, perché ancor’oggi almeno i nove decimi degli Italiani credono che la Banca d’Italia sia dello Stato, ovvero degli Italiani. Non sanno che la Banca d’Italia è sempre stata privata. Ma allora è vero che l’Italiana e l’Italiano preferiscono leggere lo scioglimento della parola fuorigioco piuttosto che quello di signoraggio (della moneta, ovviamente).
Bravi, bella carriera!
Gianluca Padovan