L’intera produzione teorica di Elémire Zolla è attraversata da un’idea antropologica assai distante da quella oggigiorno dominante. Il senso comune contemporaneo tende a pensare l’uomo come costituito di corpo, anima, mente, ragione e spirito. Zolla richiamandosi al mondo tradizionale e alla visione arcaica e protostorica dell’uomo, lo legge quale entità: «complessa, frastagliata e vibrante, solcata al proprio interno da forze che lo allacciano alla natura e al cosmo» (p. 223). A dirlo è Grazia Marchianò, curatrice dell’opera omnia del pensatore, nell’Appendice alla nuova edizione di un libro di Zolla che, in modo esplicito e diretto, si occupa di tale antropologia.
Il libro è diviso in due parti: nella prima l’autore si occupa dei limiti dell’esistenza totalmente esteriorizzata ed appiattita del mondo contemporaneo e, dopo aver attraversato le antiche vie di terapia del disagio esistenziale del mondo antico, come il dionisismo, ancor presente nella sublimazione dell’eros propria dello stilnovismo: «ricostruisce la topografia dell’interiorità nella raggiera di metafore che ad essa alludono […] il vento, l’ombra, il custode, il soffio» (p. 9). Lo stato di evidente assopimento in cui vive il soggetto moderno è da attribuirsi alle manipolazioni che egli subisce e che agiscono sul suo corpo, sull’anima e la ragione, funzioni nelle quali l’uomo moderno si riconosce. Esse determinano: «la soggezione al materialismo rispetto al corpo, allo scientismo e al razionalismo rispetto alla ragione e all’irrazionalismo o sentimentalismo rispetto alla psiche» (p. 231). Nella seconda parte del libro, al contrario, il pensatore indaga le facoltà dell’uomo interiore in un ampio viaggio nei repertori delle antiche civiltà d’Oriente e d’Occidente. Egli ci accompagna attraverso antichi documenti e filosofie dell’Egitto, del mondo classico, del Tibet, di Israele e della Cina taoista. Va ricordato, al riguardo, che Zolla, in Storia del fantasticare, aveva posto al centro delle proprie attenzioni il tema del cuore della mente, centrale nella fisiologia taoista.
Con tale espressione si alludeva al salire del pensiero dal cuore, dal centro della personalità. Tale ascesa determinava una modifica dell’essere che la viveva e destava in lui le «potenze dell’anima». Nella filosofia śivaita del Kaśmir, il paesaggio dell’interiorità è esperito come un campo in cui si affrontano forze pure che vengono descritte come «corazze». Le principali tra esse sono kalā, energia, vidyā, conoscenza e rāga, passione. Quest’ultima, a seconda del modo in cui impregna l’individuo, può legarlo alla dimensione meramente cosale del mondo, o può trasformarsi in mezzo propulsivo di liberazione interiore. Il processo realizzativo tende ad accordare tra loro e ad indirizzare nello stessa direzione anagogica le tre «potenze dell’anima», grazie ai mudrā, gesti canonici, ai mantra, forme rituali, e citta, mente vuota concentrata sull’unico. In tale contesto, «oltre»» diviene la parola chiave sulla via del risveglio: il miste deve porsi oltre la dimensione distruttiva e raffrenante delle «potenze». L’uomo, per definizione, è essere ambiguo come si evince da molta simbologia tradizionale, non ultimo il punto di intersezione tra i bracci della stessa croce cristiana, indicante il lambirsi della spinta anagogica verticale con quella catagogica orizzontale. In noi, oltre al piano umano e sovrumano, è presente anche quello disumano, che oggi rischia di avere libero campo. Pertanto, chiosa Marchianò, tenendo conto del senso ultimo del volume di Zolla, sperimentare correttamente le «potenze dell’anima», nel bel mezzo della società post-moderna, che sta realizzando il golem tecnologico, il cyborg: «capace di sorpassare l’uomo nelle sue prestazioni di essere senziente» (p. 14), potrebbe davvero essere d’aiuto onde evitare: «di venir snaturati dal post-umano» (p. 15).
Il principio che i Greci indicavano con zoè, vale a dire l’energia fondate della vitalità che palpita nei singoli bios, ci spinge, oltre i cicli di nascita e di morte, a farci sintonici al suo darsi infinito. Le «potenze animiche» ci possono innalzare all’interezza, all’ integrità del vivere. Esso consiste, come insegnò Carlo Michelstaedter all’inizio del secolo scorso nella sua La persuasione e la rettorica, non casualmente opera sempre attuale nella sua costitutiva giovinezza spirituale, ad avere la vita in sé, a non chiedere la consistenza nella dipendenza dalle cose o nel proiettarsi desiderativamente fuori di sé, ma nello «stare» in quel centro in cui il Sé è il Principio. Un via, quella di Zolla e Michelstaedter, che non può essere «da omnibus», ma ognuno deve cercarla da sé salendo in prima persona sulla croce della vita.
Giovanni Sessa