Oggi Charonne è stata integrata all’interno del tessuto urbano di Parigi e trasformatasi in una banlieu come lo sono le periferie di tante capitali d’Europa. Lo si avverte immediatamente appena si accede all’esterno della fermata della metropolitana. Il grigio dell’anonimo, dello squallore, di un non so che di sporco che ti avvolge e che penetra nella mente nel corpo e che non si configura solo per i sacchi di immondizia e le carte gettate a terra. Eppure c’è un angolo che s’è protetto, si è conservato ed è ciò che attira i visitatori, beh, diciamo un tipo specifico di visitatori. Ad esempio quelli che hanno letto I sette colori, coinvolti ed emozionati e affascinati da quello spazio ove si svolge una delle prime e fondamentali scene e, dal 1957, tomba del suo autore.
E’ la chiesa di Saint-Germain- de Charonne, nel XX arrondissement, rue de Bagnolet…’Videro a mezza costa, improvvisamente, spiccare la piccola chiesa col suo campanile e il suo galletto, relitto meraviglioso di un antico villaggio. Sulla sua vetta, fra case moderne, essa sola serba il ricordo dei borghi di periferia fra i lillà, e delle antiche pene umane. Davanti ad essa è stata allargata la piazza, alla quale si sale sempre per una gradinata di pietre dove, nello Charonne paesano, dovevano essere belli a vedere i grandi matrimoni e le prime comunioni. Ma le cose non sono tanto cambiate, e si dimenticano le case alte di mattoni rossi per quella torre di pietra grigia riparata col cemento, per il recinto che domina la strada, e dal quale si affacciano alberi e croci. Essa sola, infatti, credo, in Parigi, ha serbato il suo piccolo cimitero invaso dalle erbe, il suo cimitero di campagna dove già non v’è più posto per i futuri morti’. Se questa è la descrizione del luogo, in esso i due protagonisti, Caterina e Patrizio, disvelano il sentimento, che stava nascendo in loro, sfiorandosi la mano. Con gesto delicato e leggero perché lo scrittore amava questi toni, la leggerezza appunto, che egli riteneva (purchè non trattasse delle scelte di fondo, di stile interiore potremmo dire) espressione della giovinezza dei suoi incanti dei sogni, priva di certa pesantezza dell’essere.
Il 6 febbraio 1945, alle ore 11 (così dal verbale d’esecuzione redatto dal suo avvocato Jacques Isorni) il dramma si è consumato. Robert Brasillach è stato prelevato dal carcere di Fresnes e condotto al forte di Montrouge, legato al palo e fucilato da un plotone composto da dodici uomini. Pallido con la sciarpa rossa al collo e la fotografia della madre sul petto, con voce alta e gli occhi rivolti verso il cielo. ‘Coraggio!’ e ‘Viva la Francia!’ sono state le sue ultime parole. Su un foglio di carta Isorni raccoglie la grossa goccia di sangue che gli scivola dalla fronte ‘per portarla a quelli che l’amano’…
Il suo corpo viene portato a Thiais, là dove le tombe non portano nome, dove è vietato erigere una stele o deporre soltanto un fiore. Nessuna pietà per chi è stato condannato a morte. Poi lo stesso giovane che, in tribunale, alla lettura del verdetto aveva gridato tra il pubblico ‘E’ una vergogna!’ (pronto Brasillach gli aveva risposto ‘No, è un onore!’) gli cede un posto nella tomba di famiglia al Père Lachaise, fino appunto al ’57 quando l’amico e cognato Maurice Bardèche riesce ad ottenere la traslazione a Charonne, dove ha trovato definitiva pace con la madre Marguerite Brasillach-Maugis. Una tomba che è un tripudio di fiori… perché quella goccia di sangue dal colore vermiglio è tanto simile al sole che, sempre e comunque, s’impone sulle tenebre, la menzogna, l’ottenebramento.