“C’è il rischio che, sotto la spinta esterna dell’estremismo e quella interna dell’antagonismo, e sull’onda di contrapposizioni ideologiche così datate e insostenibili, prendano corpo nelle nostre società rotture e violenze d’intensità forse mai viste”.
E’ un allarme forte e un appello inusuale quello che il presidente della Repubblica, in occasione del 4 novembre, ha lanciato, nella sua veste di capo delle Forze Armate, richiamando l’esercito a tenersi pronto per assolvere agli eventuali compiti di difesa che fossero richiesti dalle minacce ormai presenti ai confini dell’Italia.
Un doppio fronte dunque, interno e internazionale. Il riferimento a quest’ultimo è chiaro, la minaccia dell’estremismo islamico è una realtà con la quale anche noi abbiamo imparato a fare i conti da almeno 13 anni e non è un caso che, sempre nella giornata del 4 novembre, il presidente abbia consegnato una medaglia d’oro al valor militare a un Alpino ferito in combattimento sulle montagne dell’Afghanistan.
Oggi l’esercito italiano, indipendentemente dal giudizio politico che possiamo dare sulle missioni nelle quali è stato impegnato, ha riconquistato prestigio grazie alla capacità e al sacrificio dei suoi militari dislocati nei teatri operativi più difficili del mondo.
Ma è quantomeno insensata e colpevole la condotta di uno Stato che riscopre solo a intermittenza i valori delle Forze Armate e ne onora la tradizionale devozione alla Patria.
Quest’anno l’Europa ha celebrato il centenario della Grande Guerra e l’Italia il 24 maggio del prossimo anno è chiamata a ricordare il suo ingresso in quel conflitto. Eppure, il 4 novembre, anniversario della Vittoria, è stato accantonato nella sua dimensione celebrativa, evitando qualunque riferimento all’eroismo e al patriottismo che animarono quella generazione d’italiani, per dare spazio a una interpretazione pacifista e lacrimosa che esprimesse solo orrore per la guerra (inutile strage), schifo per la patria, assenza totale di slancio eroico, inattitudine dei soldati alla vita militare, incapacità assoluta e disarmante di combattere e solo vittime riluttanti e disperate.
Ne è un esempio stucchevole la proiezione, con la presenza del capo dello Stato, di “Torneranno i prati” di Ermanno Olmi, un film di tragica monotonia sullo squallore della morte in trincea, ma sono sintomatici anche i divieti imposti a Bolzano di festeggiare il 4 novembre dinanzi al Monumento alla Vittoria, ovvero l’inqualificabile uso privato e politicamente fazioso operato dal sindaco di Roma dell’istituzione che governa, che ha deciso arbitrariamente di innalzare sul Campidoglio la bandiera arcobaleno dei pacifisti nel giorno della Vittoria.
Nella giornata delle Forze Armate e a cento anni dall’inizio di quella guerra mondiale ne esaltiamo più le tragedie e i disastri di cui fu causa piuttosto che la vittoria e l’eroismo dei nostri soldati che la combatterono, ripudiamo con disprezzo qualunque elemento di fierezza nazionale per solidarizzare con i dissenzienti, gli oppositori, i neutralisti e financo con le “vittime dimenticate” cioè coloro che furono fucilati per disobbedienza, diserzione o intelligenza col nemico.
Sono i segni tangibili dello sfaldamento di una comunità e dello spirito che animò i nostri padri e i nostri nonni in anni difficili e che consenti a quell’Italia di superare miseria, guerra e ostacoli d’ogni tipo e di trasformarsi da “espressione geografica” in Nazione.
Ma la capacità di resistenza e la forza morale che quelle generazioni mostrarono cento anni fa, sfociarono e confluirono poi nel fascismo dove trovarono il loro componimento e la loro unità le molteplici spinte nazionaliste e quegli ideali che volevano un’Italia più forte e moderna, unita e orgogliosa, all’avanguardia nel campo scientifico, umanistico, sociale e financo sportivo.
Negli ultimi 70 anni, invece, ci si è dedicati con furore a maledire quel passato con un solo desiderio, cancellare tutto, la storia, gli eroi, l’Italia, l’amor patrio e demonizzare il fascismo.
Oggi di fronte alla crisi economica e sociale che attraversa l’Europa, e l’Italia in particolare, c’è ancora chi sbraita istericamente per un saluto romano ed esige un livoroso rigore costituzionale che, in realtà, è solo il pretesto per escludere e sottomettere una parte e per dare libero sfogo ai propri istinti di prevaricazione con la pretesa d’imporre a tutti il proprio fanatismo ideologico.
Se c’è qualcuno che potrebbe far perno su una “conflittualità alimentata da ogni estremismo, che rifiuta pregiudizialmente il dialogo” e che configura quell’antagonismo che il presidente della Repubblica ha evocato come pericolo “interno” di destabilizzazione, la classe politica che ha governato dal ’48 a oggi non può che farsene carico, per avere in tutti questi anni assecondato tutte le peggiori devianze sociali e ideologiche e tradito la legalità del Paese ripudiando una parte di italiani, considerandoli reietti e meno uguali degli altri.
Ancora oggi quegli italiani sentono di vivere in uno Stato che non li rappresenta e alle prese con una casta politica ostile, vile e corrotta, che suscita solo sentimenti di distacco, diversità e rifiuto.
Mentre l’”antagonismo” che si nutre di conflittualità e di intolleranza è figlio di quella eversione
che ha le proprie radici nell’atto di nascita di questa Repubblica, cioè una sconfitta militare, e s’è perpetuata negli anni come un filone carsico mai rinnegato, con periodiche esplosioni di violenza e brutalità.
Chi si appella alla Nazione, di fronte ai pericoli che la minacciano, deve pensare che i richiami all’unità, per essere efficaci, devono tener conto di tutti, che la memoria è un dovere nei confronti dei nostri padri e di tutti quelli che per la Nazione si sono immolati e che le vicende nazionali si sono incrociate con quelle di milioni di famiglie che sono state emarginate e che ancora oggi qualcuno vorrebbe ambiguamente discriminare e considerare composte da cittadini di serie B.
Enrico Marino
Anniversario
La repubblica non celebra vittorie
- by Ereticamente
- 9 Novembre 2014
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- 10 anni ago
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