Inizio la stesura di questo articolo, riprendo la nostra rubrica sull’eredità degli antenati agli inizi di aprile. Vi dico subito che questo articolo avrà una fisionomia alquanto diversa dal consueto. Di questi tempi stiamo assistendo a una rarefazione delle notizie riguardanti la nostra eredità ancestrale, rispetto alla pioggia torrenziale che ha caratterizzato soprattutto la seconda metà del 2019.
D’altra parte, non so se sia francamente il caso di rammaricarsene, dato che la maggior parte di esse non ha riguardato nuove scoperte, ma il progetto che ho dovuto più volte denunciare, di una vera e propria riscrittura orwelliana della nostra storia, tesa a minimizzare il ruolo dell’uomo europeo e caucasico ed enfatizzare, ingigantire (o inventare, perché in concreto non sembra averne avuto alcuno) quello dell’uomo nero subsahariano, inventando vichinghi, inglesi, etruschi, romani di colore o almeno meticci.
Oggi tutto ciò sembra essersi calmato, e non possiamo non considerare la cosa con sollievo. Non dobbiamo però dimenticare che tutto ciò, che ha lo scopo di indebolire le resistenze alla progettata sparizione dell’uomo caucasico, anche se momentaneamente ci è stata concessa una tregua probabilmente temporanea, negli Stati Uniti dove la popolazione caucasica di origine europea sta sempre più perdendo terreno e si appresta a diventare minoranza se non lo è già diventata, queste fanfaluche sono spacciate per scienza e insegnate nelle università.
Vi ho detto più sopra che questo articolo avrà una fisionomia alquanto diversa dal solito, perché in questo caso le notizie importanti sulla nostra eredità ancestrale si riducono praticamente a una sola; si tratta peraltro di una scoperta fondamentale che ci apre letteralmente nuove prospettive, e che è bene commentare con la dovuta ampiezza, anche se il modo in cui cambia le cose rispetto al nostro remoto passato sembra essere perlopiù sfuggito.
Prima però è forse il caso di vedere una notizia curiosa, tangente al nostro discorso. Penso che perlopiù avrete sentito parlare dell’uccisione dell’arcivescovo Thomas Becket avvenuto nella cattedrale di Canterbury nel dicembre 1170 per ordine del re inglese Enrico II, nell’ambito di un conflitto che riproponeva sul suolo inglese la lotta per le investiture, un episodio reso famoso dal dramma Assassinio nella cattedrale di T. S. Eliot.
Secondo quanto riferisce RAInews del 3 aprile, un’eco di questo episodio storico di età medioevale è stata ritrovata dai ricercatori britannici… nelle alpi svizzere.
Secondo quanto ha riferito alla rivista “Antiquity” l’archeologo Christopher Loveluck dell’università di Nottingham a capo del team di ricercatori, una nuova tecnica di analisi chiamata spettrometria di massa al plasma ha permesso di rilevare nella sezione di un ghiacciaio svizzero della località di Colle Gnifetti un picco di inquinamento da piombo nello strato di ghiaccio corrispondente al periodo fra il 1170 e il 1220.
Secondo Loveluck, questo sarebbe dovuto all’intensa produzione e utilizzo di piombo avvenuti in quegli anni in Inghilterra. Il piombo fu fuso in grandi quantità per la produzione di tubi, tetti e vetrate (nelle vetrate di età medievale era usato per legare assieme i tasselli di vetro che costituivano le vetrate policrome), in conseguenza del fatto che Enrico II all’epoca, dopo essere stato scomunicato dal papa in seguito all’assassinio da lui ordinato, per ottenerne il perdono, fece costruire in tutta l’Isola inglese un gran numero di chiese e monasteri.
Perché menzionare ora questa ricerca che riguarda l’età medioevale e non le nostre remote origini? Il ghiaccio, lo sappiamo, costituisce un grande archivio di età remote, basti pensare a quanto i carotaggi nel ghiaccio della Groenlandia ci hanno permesso di conoscere riguardo alla storia del clima del nostro pianeta. Senza dubbio, questa nuova tecnica della spettrometria di massa al plasma potrà essere applicata a strati glaciali formatisi in epoche ben più remote dell’Età di Mezzo, fungere da vera e propria macchina del tempo.
Il problema di fondo è se gli conviene, perché quante più informazioni veniamo a conoscere sul nostro remoto passato, tanto più la vulgata, i dogmi che vogliono darci a intendere sul nostro remoto passato, l’Out of Africa e tutto il resto, traballano miseramente.
Veniamo ora a quella che probabilmente è la notizia clou di questo periodo. “Le Scienze” on line del 2 aprile riporta una notizia molto interessante, ripresa da “Nature”: un team di ricercatori dell’Università di Copenhagen guidato da Enrico Cappellini (probabilmente una delle tante eccellenze che buttiamo via perché in Italia non riescono a trovare un lavoro adeguato alle loro competenze) ha portato a termine un’analisi delle proteine dello smalto dentario dei resti di un Homo vissuto ad Atapuerca in Spagna tra 949 e 772.000 anni fa e conosciuto nella letteratura scientifica come Homo antecessor. I risultati sono, in una parola, sbalorditivi.
L’analisi, comparata con quella condotta sull’Homo erectus di Dmanisi (Georgia), ha rivelato una molto maggiore affinità con gli Homo successivi, compresi quelli moderni, noi. Antecessor, ammesso che lo si debba o possa considerare una specie diversa da sapiens sembra presentare proprio quelle caratteristiche che avrebbe dovuto avere la nostra specie prima della tripartizione nei tre rami di Cro Magnon, Neanderthal e Denisova. Questo antico uomo aveva già messo in imbarazzo i ricercatori per la forma globosa, “moderna” del cranio, che ha dimostrato che la famosa forma del cranio “a pagnotta” dell’uomo di Neanderthal, comparsa posteriormente, non è, come si era fin allora ritenuto, una forma più primitiva, ma una vera e propria caratteristica razziale dei neanderthaliani.
La Spagna – non vorrei sbagliarmi su questo punto – non è Africa ma Europa, e molto lontana da quell’area al disotto del Sahara dove i sostenitori della bufala out-of-africana vorrebbero collocare le nostre origini. È sempre una soddisfazione quando si vedono le roccaforti dell’ortodossia “scientifica” come “Nature” e “Le scienze” accumulare senza avvedersene materiale che va a contraddire in maniera vistosa i dogmi di questa ortodossia.
Ma c’è dell’altro: vi riporto quel che ci racconta un testo di divulgazione, uno dei tanti che si possono trovare che esprimono il medesimo discorso, semplicemente il primo che mi capita sottomano: “La Scienza 8 – Il comportamento degli animali”, La biblioteca di Repubblica – UTET – De Agostini, pag. 813:
“Attualmente non viene più accettata una netta suddivisione delle razze o sottospecie umane, dal momento che l’evoluzione dell’uomo è iniziata appena da qualche decina di migliaia di anni”.
In sostanza, si dice, le razze umane non esisterebbero, perché la nostra specie sarebbe troppo recente per aver avuto il tempo di suddividersi in razze o varietà. Bene, ora sappiamo che questo non è vero: l’umanità è le caratteristiche sapiens non hanno poche decine di migliaia, ma quasi un milione di anni. Se avessimo a che fare con una “scienza” onesta (ma sappiamo che non è così), dovrebbe ammettere che i giochi sono riaperti anche riguardo al discorso delle razze.
Qui capita a proposito (il famoso dono della serendipità) una discussione della quale vorrei mettervi a parte, che ho recentemente avuto con altri membri di MANvantara, il gruppo facebook dedicato alla tematica delle origini amministrato dal nostro amico Michele Ruzzai, una di quelle discussioni come dovrebbero sempre essere ma raramente capita, un sereno scambio di idee dal quale è sempre possibile imparare qualcosa.
Che tutte le scoperte e le prove più recenti che si sono accumulate nel campo della paleoantropologia vadano in direzione contraria all’Out of Africa, svelino la vulgata ufficiale sulle nostre origini per la bufala che effettivamente è, è qualcosa che non si può seriamente mettere in dubbio. Tuttavia, non ci si può limitare a questa constatazione, occorre vedere quali alternative ci sono. Io ho citato, perché mi sembra quanto meno un’ipotesi degna di essere presa in considerazione, l’Out of Eurasia nella versione di Ulfur Arnason dell’Università di Lund, il ricercatore svedese, che chiaramente si appoggia alle ricerche di paleogenetica di Svante Paabo.
Secondo Arnason, mentre in Africa l’Homo erectus sarebbe rimasto sostanzialmente immutato, in Eurasia si sarebbe evoluto in heidelbergensis poi in sapiens dividendosi nei tre rami di Cro Magnon, Neanderthal e Denisova dai quali discende l’umanità attuale (a parte, ovviamente, l’introgressione africana, la traccia genetica non sapiens che, abbiamo già visto, può arrivare fino al 19%, quasi un quinto del DNA dei neri subsahariani).
Noi possiamo aggiungere che la famosa “specie fantasma” da cui il DNA non sapiens proverrebbe, e che, incrociandosi coi sapiens provenienti dall’Eurasia circa 40.000 anni fa, avrebbe dato origine ai neri subsahariani, altro non sarebbe che il “vecchio” Homo erectus, e la prova di ciò sarebbe costituita dalle ricerche condotte dall’archeologa italiana Margherita Mussi nel sito etiopico di Melka Kunture e da lei esposte nel libro Due Acheuleani, due umanità. In sostanza, fino alla comparsa di sapiens e all’aprirsi di prospettive fin allora inimmaginabili, lo sviluppo “culturale” degli strumenti litici procede di pari passo con lo sviluppo dell’organizzazione cerebrale, ne è, per così dire, il riflesso diretto. L’acheuleano è l’industria litica tipica di Homo erectus che, mentre in Eurasia si sviluppa verso forme sempre più complesse e raffinate, in Africa rimane stagnante per quasi mezzo milione di anni, denunciando un minore sviluppo cerebrale dell’homo africano rispetto a quello eurasiatico.
Tuttavia, mi hanno fatto notare gli amici di MANvantara, in questo ragionamento c’è una pecca. Tutto ciò che abbiamo e in base a cui è stata definita la specie di Homo heidelbergensis non è altro che la famosa mandibola di Mauer (località vicino a Heidelberg, da cui il nome della specie), in precedenza classificata come erectus, e non è che solo da una mandibola si possa cavare molto.
Potrebbe essere che heidelbergensis sia una specie fittizia come lo è l’Homo abilis letteralmente non scoperto ma inventato da Louis Leakey sulla base del ritrovamento di alcuni crani di australopiteco molto frammentati di cui è impossibile ricostruire l’esatto volume cerebrale e nella cui ricostruzione Leakey ha assegnato quello più alto possibile nella persuasione che gli antenati dell’umanità dovessero essere i fossili scoperti da lui e quelli di tutti gli altri null’altro che rami collaterali. D’altro canto, noi sappiamo che c’è stata in passato una kermesse di invenzioni di nuovi generi e specie, ogni ricercatore che trovava un fossile aveva la convinzione che quello da lui trovato fosse qualcosa di speciale: Pitecanthropus, Sinantrophus, Atlantrophus, Parantrophus, Teleantrophus, Zinjantrophus eccetera, eccetera. Un po’ di modestia e di pulizia hanno convinto anche la scienza ufficiale a sfoltire questa fauna immaginaria riducendola a due soli generi, Australopithecus e Homo.
Avete presente quella celebre illustrazione che dovrebbe rappresentare graficamente il concetto di evoluzione, dove si vede una catena di creature disposte in fila, dalla più scimmiesca fino a un uomo moderno, noi: bene, scordatevela, la maggior parte dei personaggi che vi compaiono non sono mai esistiti.
Se come sembra dalle ricerche più recenti, come l’analisi compiuta sui resti della famosa Lucy da un team di anatomisti britannici guidati da sir Solly Zuckermann il maggior esperto mondiale di anatomia comparata, gli australopitechi erano semplicemente un genere di scimmie estinte che non ha nulla a che fare con la genealogia umana, allora tutte le creature riconoscibili come nostri antenati appartengono a un solo genere: Homo e nient’altro. All’interno di Homo, poi, troviamo solo due specie, erectus e sapiens.
Come se non bastasse, anche la storia dell’Homo erectus è parecchio strana. Il primo esemplare noto di questa specie fu rinvenuto nel 1891 da Eugene Dubois, un medico militare olandese di stanza a Giava. Dubois aveva letto L’origine delle specie di Darwin e se ne era appassionato al punto di mettersi in testa di trovare l’anello di congiunzione fra l’uomo e la scimmia; aveva tra l’altro lo stesso vizietto di Louis Leakey, quello di pensare che se trovava qualcosa, doveva essere per forza quello che si era messo a cercare.
Trovato dunque questo antico fossile umano, si convinse subito che doveva trattarsi di un uomo-scimmia e lo battezzò Pithecanthropus erectus. In seguito, ci si accorse che non si trattava di un uomo-scimmia, ma di un uomo a tutti gli effetti anche se diverso da noi. Il termine pitecantropo fu ufficialmente bandito dalla nomenclatura scientifica, ma fu mantenuto il nome di specie erectus attribuitogli da Dubois. Ciò non toglie però che la sua umanità fosse gravemente sottovalutata, per le stesse ragioni per le quali furono a lungo falsamente attribuite caratteristiche scimmiesche all’uomo di Neanderthal, si trattava di trasformare l’uno e l’altro in pioli di una sorta di scala che andasse dalla scimmia all’uomo.
A smentire queste ricostruzioni fantasiose su cui l’ideologia evoluzionista aveva facilmente la meglio sui dati di fatto, basterebbe un ritrovamento fatto a Dmanisi: il cranio completo di un uomo molto anziano e completamente edentulo, cioè privo di denti, persi quando era in vita e non post mortem. È chiaro che un soggetto così non sarebbe potuto sopravvivere senza l’assistenza degli altri membri della sua comunità, famiglia o tribù, e questo rivela un comportamento tipicamente umano.
A questo punto, è il concetto stesso di evoluzione a tornare sub iudice, infatti, se l’uomo di Atapuerca, l’antecessor era in sostanza un sapiens vecchio di un milione di anni, allora non ha senso pensare che esso derivi da un erectus di cui era sostanzialmente contemporaneo. Erectus potrebbe non essere stato affatto un nostro antenato, ma piuttosto un ramo collaterale, derivato (o decaduto) da un Homo primordiale non meno umano e non più primitivo di quanto siamo noi (no, degenerato direi proprio di no, perché la qualità morale e la capacità di prendersi cura dei propri genitori anziani, almeno l’erectus di Dmanisi ce le aveva, mentre sembrano drammaticamente mancare a molti nostri contemporanei), un Homo primordiale di cui forse gli uomini di Atapuerca erano esemplari.
La storia remota della nostra specie, quella che precede la storia scritta e documentata, è forse tutta da riscrivere, ma quello che sappiamo è che oggi “la scienza” o meglio le istituzioni cosiddette scientifiche e i sistemi “educativo” e mediatico, sono nelle mani di una banda di ciarlatani al servizio del potere mondialista che ha il preciso scopo di minimizzare il ruolo dell’uomo bianco caucasico per ridurre le resistenze alla sostituzione etnica, oltre ad alimentare la favola progressista secondo la quale ogni cambiamento avverrebbe per il meglio.
A tutto ciò, noi possiamo contrapporre in primo luogo la fedeltà alle nostre radici, l’amore per la nostra stirpe, l’orgoglio di essere caucasici ed europei.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra una miniatura raffigurante l’assassinio di Thomas Becket nella cattedrale di Canterbury, al centro “Le Scienze” di marzo 2020, a destra Louis Leakey forse uno dei più sfacciati ciarlatani e malati di protagonismo fra quanti hanno preteso di aver ricostruito la storia remota dell’umanità.