L’ultima fatica letteraria di Giuseppe Gorlani, Pranam all’Ineffabile, da poco nelle librerie per i tipi de La Finestra Editrice (per ordini: info@la-finestra.com, pp. 102, euro 19,00) ha per sfondo la visione del mondo del Santana Dharma (Induismo) e, più in particolare, la Tradizione Shivaita, fiorente nell’India meridionale. L’autore fu, tra gli anni Sessanta e Settanta, tra quei giovani che si misero in cammino verso il sub-continente indiano al fine di incontravi la Conoscenza fondata sull’Intelligenza del Cuore.
La Parola per il nostro autore, canta un: «inno all’Ineffabile, proemio al Silenzio» (p. 70). Il Dire disvelativo è: «respiro da centellinare al mattino […] è profumo accetto agli dei», a condizione che sia espressività sottratta al logocentrismo, alla dimensione meramente concettuale, attraverso la quale la ratio calcolante, inevitabilmente, lega chi se ne faccia latore al parziale, al determinato, alla funzione denotativa. Il concetto, per definizione, legge il reale nella prospettiva diairetica, dualista ed escludente, centrata sulla contrapposizione degli opposti, sull’alterità soggetto-oggetto. Il sapere della ratio, si muove nel mondo onirico e caleidoscopico del Velo di Maya: in esso vige il dominio samsarico del desiderio, dell’attaccamento. Il Velo si dissolve quando davvero si sia imparato a guardare il mondo con altri occhi: con lo sguardo dell’Intelligenza del Cuore, che dice le determinazioni individuali esser, non altro, che i molteplici volti dell’Uno, visione radiosa del Sole. Allora la Parola, come si evince dalla prose poetiche di Gorlani, si fa evocazione della Presenza, allusione ad essa: «abbracciando l’attuale e l’inattuale» (p. 71). Il Detto qui è eco del silenzio interiore, dell’Unità conseguita mediante una pratica realizzativa condotta secondo Tradizione.
In tal caso: «E’ una sostanza inesprimibile quella a cui ci si apre […] il profumo sussiste, il colore celeste riverbera eco persistenti […] la parola intona stanze a cascata» (p. 71). Il Dire di queste pagine è pensato, smussato, levigato, adattato ai molteplici contesti evocanti l’Ineffabile. Parole come testimonianze del dire originario, del Suono primordiale, svincolate dal retaggio strumentale, utilitaristico, nel quale la Parola è stata oltraggiata dal senso comune della modernità. La Poesia di Gorlani è libera dal mercimonio con il mondo, corrisponde ai lievi sussurri della physis. Il mormorare ninfale di quest’ultima è il darsi dell’energheia che la sostiene. La sintonia con tale potestas la si può conseguire nell’atto del camminare: «nulla purifica e illumina tanto quanto il camminare» (p. 33), suggerisce l’autore in, Un lieve sorriso. Nel muoverci con sguardo attento e calmo, assistiamo, attorno a noi, al manifestarsi della metamorfosi perpetua, tutto scorre: «non la Presenza» (p. 33). Per questo, chi voglia davvero «vedere» deve confrontarsi con la physis, ascoltarne il coro dalle innumerevoli voci, che rinviano all’Uno. Questa è pratica quotidiana per il nostro poietes, persuaso che: «nel bosco la memoria s’acuisce, il tempo s’assottiglia […] la tracotanza delle sembianze onnipotenti si esaurisce» (p. 29). Nella selva ci è dato vedere che l’inizio e la fine sono il medesimo, che l’eternità è nel tempo e che, perfino nell’Età Ultima e oscura, permane il baluginare della Luce. Il tramonto non fa che annunciare l’aurora.
Gorlani ci invita all’abbandono della cecità: «Soltanto i ciechi rinunciano ad inerpicarsi lungo i […] pendii enstatici dove non ci si protende verso alcun oggetto, bensì all’origine eterna», memore dell’insegnamento ermetico che sostiene l’alto e il basso essere Uno. Egli si pone, in queste pagine, quale perfetto esegeta della Lingua degli Uccelli, di quegli esseri lievi e musicali che vivono tra terra e cielo e dicono agli umani della presenza dell’invisibile nel visibile. Tale linguaggio, illumina chi è in cammino: «Illumina il Viandante» (p. 62) e gli consente di lasciarsi alle spalle il peso cosale della vita. Infatti: «Prima che l’uomo si erga come Purusha tra le rovine […] l’esistenza è cacofonia, mascherata in mille modi, tragedia, angoscia, fame di vento» (p. 63). Ma l’uomo che voglia perseguire la Realizzazione non tende ad apparire, né si getta nell’agone del mondo: «Morto prima di morire, andato, risorto […] dedito all’eudaimonia» (p. 50), mira a ridestare, ri-cordare, a riportare nel Centro-Cuore la: «Coscienza di essere l’Essere» (p. 43).
Affinché la Parola che testimonia l’Ineffabile possa darsi, è necessario tacitare la piccola mente, far inginocchiare la monade triste di fronte alla Bellezza emanante dal Tutto, dimentica delle conquiste e della tragedie della storia che, come tragico nume tutelare, domina le sorti dei nostri contemporanei. La storia, la dimensione polemologica della vita, rileva Gorlani, se confrontata con i ritmi perenni della physis, mostra il suo volto nascosto: quello dell’inanità, della vacuità, dell’essere semplicemente dettaglio, rispetto all’Uno. Solo un uomo atto a riappropriarsi dell’ Eros conoscitivo, che connotò di sé l’iter dei Cavalieri animati dall’ amor cortese, capaci di camminare, ascoltare e guardare le voci e i segni della Presenza nella Natura potrà: «consapevolmente sfociare nella plenitudine divina» (p. 13). Il lettore che avrà la ventura di attraversare i Lemmi di Gorlani ne uscirà arricchito e potrà, quantomeno, sostenere di aver compiuto, con l’amico comune (di chi scrive e dell’autore) Gian Franco Lami: «Un passo per la vita, un passo per il pensiero». Cosa rara.
Giovanni Sessa
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