Io credo che non sia ora necessario richiamare se non in estremissima sintesi quanto vi ho esposto nelle cinque parti precedenti: la “mutazione genetica” della sinistra si è venuta preparando a partire dal ’68 con l’infiltrazione e poi il raggiungimento dei più alti livelli direttivi in essa, di persone appartenenti ai ceti borghesi e alto-borghesi. La caduta dell’Unione Sovietica è stata per costoro l’occasione per liberarsi della “pelle” marxista che andava loro sempre più stretta, e oggi abbiamo, a livello non solo italiano ma internazionale, una sinistra prevalentemente (perché occorrerà fare qualche distinguo) schierata dalla parte del progetto mondialista dell’alta finanza internazionale, per la quale è stato facile confondere l’attuale globalizzazione con gli antichi sogni di utopia cosmopolita dei “compagni”, “proletari di tutto il mondo unitevi”, ma che ancor prima di Marx risalgono a Rousseau e alla favola idiota del “buon selvaggio”.
A farne le spese sono in primo luogo proprio le classi lavoratrici, penalizzate dall’immigrazione/invasione dal Terzo Mondo di un gran numero di braccia a bassissimo costo che comporta per la legge della domanda e dell’offerta, un costante deprezzamento di ciò che esse possono offrire sul mercato del lavoro, e dalla forzata convivenza con questi estranei, da cui tocca subire qualsiasi prepotenza, perché qualunque cosa succeda, sono sempre i nativi ad avere torto. A ciò, come se non bastasse, tutte le “riforme” introdotte in Europa da governi di sinistra da un quarto di secolo in qua, sono andate nella direzione di un aperto liberismo, cioè di demolizione dello stato sociale a vantaggio di una ristretta oligarchia di privilegiati, cioè le stesse “riforme” che proposte da governi dichiaratamente di destra, avrebbero spinto la gente sulle barricate.
La più gravida di pesanti conseguenze di queste cosiddette riforme è stata senza dubbio l’alienazione di gran parte delle sovranità nazionali a favore della cosiddetta Unione Europea, in realtà una gang usuraia intenta a impadronirsi delle ricchezze che il lavoro dei popoli europei ha prodotto. “È l’Europa che ce lo chiede”, quante volte l’abbiamo sentito dire a ogni nuovo sacrificio che ci è stato imposto? In realtà la UE è “l’Europa” tanto poco quanto un tumore è l’uomo che ne è affetto, e appunto come un tumore, finirà per ucciderci se non la estirpiamo.
Tutto ciò l’abbiamo visto con ampiezza nelle parti precedenti, ma c’è una domanda a cui bisogna dare ancora una risposta: che ne è del “popolo di sinistra”, degli orfani non tanto della scomparsa dell’Unione Sovietica, quanto della “mutazione genetica”, dell’allinearsi della sinistra ai voleri del grande capitale mondialista dei cui piani oggi essa è la più zelante esecutrice?
C’è indubbiamente uno spostamento del consenso in tutta Europa dai movimenti di sinistra a quelli identitari e populisti etichettati come “di destra” (definizione che oggi sarebbe totalmente da ridiscutere come quella di “sinistra”), ma è ancora meno consistente di quanto sarebbe desiderabile, e lento. Ci sono soluzioni estreme, da un lato, diciamo l’inglese ex laburista Nigel Farage, messosi a capo di un movimento identitario e anti-UE, dall’altro chi, come l’italiano Marco Rizzo si propone – anacronisticamente – di ricreare un comunismo vecchia maniera. In mezzo c’è, come sempre, la massa amorfa.
“Si possono ingannare tutti per qualche tempo, e qualcuno per sempre”, diceva Abraham Lincoln, “Ma non è possibile ingannare tutti per sempre”. Sarà, ma è comunque possibile ingannare molta gente per molto tempo. Consideriamo poi che la propensione all’inganno e all’auto-inganno è praticamente consustanziale alla mentalità di sinistra, basti pensare che queste persone hanno creduto o fatto finta di credere per settant’anni che la mostruosità tirannica conosciuta come Unione Sovietica fosse “lo stato dei lavoratori”.
È ovvio che una sinistra che è sostanzialmente potere, ammanigliata all’alta finanza mondialista e con a disposizione un forte controllo del sistema mediatico, abbia cercato e cerchi di rallentare in tutti i modi il travaso della propria base di consenso verso movimenti populisti, sovranisti, identitari.
La tecnica a cui nell’ultimo trentennio la sinistra ha fatto e continua a fare ricorso per mantenere una base di consenso, sembra riflettere l’indicazione di Lincoln, nel senso che piuttosto che tentare un inganno “per sempre”, è più efficace, può raggiungere e tenere sotto controllo più gente, una serie ripetuta di inganni “per qualche tempo”.
La tecnica è quella di “giocare su due tavoli”, tenersi saldamente stretto il potere e nel contempo presentarsi falsamente come alternativi. Il primo di questi movimenti fasulli, destinati a non avere lunga vita man mano che avrebbero deluso i loro sostenitori, partito ancor prima del crollo dell’Unione Sovietica e della scomparsa di un comunismo ufficialmente dichiarato, ma in un’epoca in cui già l’ideologia “rossa” cominciava a perdere parecchio smalto dopo l’ubriacatura ideologica del ’68, è stato negli anni ’80 del XX secolo il movimento “verde”, che non era una creazione italiana, ma nasceva come imitazione dei Grünen tedeschi. Poiché, come dice il proverbio, il diavolo ci mette la coda nei momenti meno opportuni, sicuramente la sua nascita e il suo rapido momentaneo successo furono favoriti dall’impatto emotivo provocato dal disastro nucleare di Chernobyl, glissando naturalmente sul fatto che quest’ultimo è stato l’ultimo regalo al mondo fatto dal comunismo sovietico.
A pensarci bene, si trattava di una cosa davvero strana: fino ad allora le tematiche ecologiste e ambientaliste non erano considerate un appannaggio della sinistra, tutt’altro, erano semmai viste come “una cosa di destra”, per così dire, retaggio di chi continuava a nutrire una certa nostalgia per le epoche pre-industriali senza rassegnarsi a un “progresso” in grado di travolgere tutti e ogni cosa, ambiente naturale compreso. Esemplare in questo senso, ad esempio il movimento giovanile tedesco dei Wandervogel (“uccelli migratori”) nato nei primi decenni del novecento, e poi confluito nel nazionalsocialismo che ne recepì in buona parte le istanze.
La sinistra viaggiava in tutt’altra direzione. Ad esempio, il celebre rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo pubblicato nel 1970 fu ferocemente attaccato e sbeffeggiato dalla sinistra. La sua improvvisa conversione all’ecologia suonava come un “contrordine compagni” di guareschiana memoria.
Qui sarà il caso di introdurre un concetto che ci sarà utile non solo riguardo al movimento “verde” degli anni ottanta, ma anche alla sua attuale rinascita legata al nome di Greta Thunberg: l’ecologia, la sensibilità ai problemi ambientali, il desiderio di non lasciare dietro di noi un mondo ridotto a una pattumiera, per non parlare delle conseguenze sulla salute di noi tutti, dovrebbe essere un patrimonio comune, indipendentemente dall’ideologia di ciascuno, e non gli si rende un buon servizio trasformandolo in una bandiera ideologica di una parte politica, e perciò allontanandolo dalla condivisione di tutti.
Siamo sicuri che scioperi, manifestazioni, cortei siano il modo migliore per risolvere le problematiche ambientali, piuttosto che conoscenza scientifica, soluzioni tecnologiche e rigore nell’applicarle?
Il problema è lo stesso di certe manifestazioni “antimafia” che anni fa sollevarono una comprensibile protesta dei presidi siciliani. Non che questi ultimi fossero a favore della mafia, ma scioperi e cortei sono un modo efficace per combatterla? Non sarebbe meglio una polizia più efficiente e dotata di mezzi, una magistratura che si occupi di far rispettare la legge invece di offrire scappatoie ai criminali, una legislazione meno labirintica che offra meno appigli per ritardare sentenze fino alla prescrizione o per far saltare processi? No, la questione era semplice, le manifestazioni “antimafia” erano per molti studenti siciliani un pretesto per saltare giorni di scuola, per “bigiare” come si dice, e lo stesso vale per le manifestazioni “verdi” degli anni ’80 e quelle “ecologiste” di oggi.
Fare leva sull’emotività e la disinformazione della gente, sarà senz’altro giovevole per il demagogo di turno, ma raramente porta le persone comuni a prendere decisioni di cui poi non si debbano pentire. Sull’onda emotiva dell’incidente di Chernobyl, si arrivò al referendum sul nucleare del 1987, che oltre a essere stravinto da quanti chiedevano la rinuncia all’energia nucleare, almeno temporaneamente lanciò alla grande il movimento verde.
Tuttavia, ai pochi – fra cui il sottoscritto – che anche in quei giorni conservavano una testa raziocinante, era chiaro che si trattava di una decisione disastrosa: l’insufficienza energetica è uno dei maggiori problemi dell’Italia, ed era chiaro che avremmo dovuto importare dall’estero l’energia che avevamo rinunciato a produrre, energia prodotta da centrali poste non distanti dai nostri confini, da parte dei nostri vicini: Francia, Svizzera, Jugoslavia, più cara e senza che noi avessimo voce in capitolo sugli standard di sicurezza, i rischi connessi al nucleare in tal modo non sono diminuiti ma aumentati. In particolare, noi del nord-est saremmo investiti in pieno in caso di incidente dall’onda nucleare della centrale ex jugoslava di Krsko, dello stesso obsoleto e pericoloso modello di quella di Chernobyl.
Peggio ancora, da ciò si evinceva una lezione che noi non capimmo, ma gli altri si, e la tennero ben presente nella costruzione successiva della cosiddetta Unione Europea: gli Italiani si sono dimostrati i fessi d’oro d’Europa, quelli che è quasi un dovere fregare.
Da un certo punto di vista fu anche peggiore la rinuncia alla ricerca sul nucleare, mentre si prospettava, non vicino ma nemmeno irraggiungibile, l’obiettivo del nucleare pulito, dell’energia da fusione che a differenza di quella da fissione, non produce radiazioni né scorie. Ciò che si conosce si può anche decidere di non applicare, ma rinunciare alla conoscenza è sempre un errore: Come disse lo scrittore Eric Frank Russell: “L’ignoranza può essere una benedizione, ma la conoscenza è un’arma”.
Quasi immediatamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del sistema comunista in Europa, con sorprendente subitaneità quasi si trattasse di – e forse era – un piano B da tempo predisposto, scattò il movimento no global.
Ispirato come manifesto ideologico al libro No logo della giornalista canadese Naomi Klein che è, al pari del Capitale di Karl Marx, uno di quei testi a cui tutti fanno riferimento senza averlo mai letto. Il movimento no global ha una contraddizione di fondo: la globalizzazione è la fusione di tutte le economie mondiali in un unico mercato planetario, ma essa non è che una parte di un fenomeno più vasto che possiamo chiamare mondialismo: la sparizione di culture, popoli, stili di vita, etnie in un unico calderone multiculturale e multietnico, attraverso immigrazioni, meticciati e contaminazioni del più svariato genere, fino alla trasformazione dell’umanità in una massa amorfa.
Non ha nessun senso voler mantenere dei settori separati dal resto dell’economia mondiale, se intanto si guarda con favore a tutti gli altri aspetti del mondialismo, ma essere sul serio anti-mondialisti identitari, difendere l’identità etnica, storica, culturale dei popoli, significa buttare a mare tutte le idee di sinistra.
Forse per l’impossibilità di uscire da questa contraddizione, perché sul piano delle idee esso costituisce un’assurdità totale, il movimento no global è rapidamente degenerato nella violenza pura, confondendosi con quei professionisti della violenza che sono i Black Block e con quei relitti della contestazione del ’68 che sono i cosiddetti Centri Sociali.
Per quanto riguarda l’Italia, sarebbe forte la tentazione di includere fra i movimenti-patacca lo stesso PD, il sedicente Partito Democratico, “geniale” creazione di Walter Veltroni, ottenuto fondendo e rimodellando gli ex democristiani e gli ex comunisti a imitazione dei Democrats americani, se non fosse per il fatto che questo partito che ha ereditato le strutture organizzative e le posizioni di potere di “babbo” PCI e di “mamma” DC ha dimostrato persistenza nel tempo e nel mantenersi al potere da ormai un quarto di secolo. Diciamo che il PD è una malattia cronica dell’Italia, mentre gli altri sono intossicazioni passeggere.
Si può dire alla gente quello che si vuole, perlopiù essa non recepirà quel che le viene detto, ma quel che pensa o desidera sentirsi dire, così ad esempio è sorprendente ma innegabile il fatto che i dirigenti del Movimento Cinque Stelle hanno sempre ammesso che si tratta di un movimento fasullo, una patacca, senza che questo peraltro producesse effetti visibili di una qualche sorta sull’elettorato.
È ovvio che la sinistra, in uno con il potere mondialista e grazie alla sua capacità di controllo del sistema educativo e mediatico, cerchi per ogni dove di contenere il danno rappresentato dai movimenti populisti, cioè precisamente da coloro che si propongono di occupare quello spazio che essa ha lasciato libero tradendo le classi lavoratrici, movimenti che essa identifica come “di destra”, razzisti e xenofobi, ma che in realtà sono autenticamente popolari e identitari.
Le soluzioni per ovviare a questo problema sono diverse, ma a quella adottata in Italia non si può negare una punta di genialità: la creazione di un movimento finto-identitario che, sotto un’apparenza populista e “trasversale” servisse a “tenere a sinistra” e quindi vanificare la protesta popolare, stiamo parlando dei Cinque Stelle, il movimento che certamente non è stato fondato da Beppe Grillo, l’ex comico che con le sue esternazioni umorali e sopra le righe è soltanto un uomo di facciata, ma da menti ben più raffinate della sua che si tengono nell’ombra, nascoste forse dietro il paravento della Casaleggio associati.
Può sembrare strano, ma sebbene tanto Grillo quanto Luigi Di Maio, ex segretario del movimento e altro uomo di paglia, abbiano ammesso più volte e con sorprendente candore le vere finalità del movimento, è come se non avessero detto nulla.
Sia l’uno che l’altro hanno ripetutamente dichiarato che lo scopo dei Cinque Stelle è quello di impedire che in Italia nasca un forte movimento populista, qualcosa di simile all’Alba Dorata greca, (e, implicitamente, di sbarrare la strada alla Lega).
Tutto ciò è completamente sfuggito alla gran parte degli Italiani che hanno invece creduto alla favola del movimento “alternativo” e “trasversale” e alle elezioni politiche del 2018 hanno dato ai Cinque Stelle la maggioranza relativa. Purtroppo, la loro patacca truffaldina ha pescato anche voti “nostri”, probabilmente anche come reazione al fatto che il lungo periodo della Guerra Fredda e la necessità di difenderci fisicamente dall’aggressione comunista, ci hanno costretti a schiacciarci su posizioni di pura destra e atlantiste (si vedano, sempre su “Ereticamente” i miei articoli Oscillazioni e Nuove oscillazioni.
Dopo quattordici mesi di convivenza impossibile in un governo Lega-Cinque Stelle in cui le due parti della maggioranza cercavano in ogni modo di ostacolarsi a vicenda, creato probabilmente per non smentire subito la truffa del movimento “alternativo” e “trasversale”, i Cinque Stelle hanno gettato la maschera e l’hanno fatto sostenendo l’elezione di Ursula Von der Leyden alla presidenza della Commissione Europea. Non fosse stato per i loro voti, si sarebbe potuta concretizzare l’occasione storica per i movimenti populisti rappresentati nel parlamento europeo, di mettere finalmente in crisi la dittatura EUsuraia che sta saccheggiando le risorse dei nostri popoli e favorendo in ogni modo l’immigrazione/invasione secondo le direttive del piano Kalergi.
La rottura dell’accordo con la Lega e l’abbraccio con il PD sono state la logica conseguenza di ciò. Le più recenti prove amministrative hanno evidenziato un crollo dei consensi pentastellati dalla maggioranza relativa al 4%, ma ormai il danno è fatto: le amministrative non sono le politiche, e fino al 2023 ci toccherà tenerci un governo e una maggioranza parlamentare del tutto contrari all’orientamento dell’opinione pubblica, che sicuramente farà il maggior danno possibile.
Morto un papa, e rivelatosi un movimento-patacca per quello che è, se ne fa un altro. Questa volta, la palla è tornata in campo internazionale con il fenomeno rappresentato da una ragazzina svedese: Greta Thunberg. A questo riguardo, e alla nuova ondata ecologista che si è sollevata attorno a questo personaggio ‘costruito’ si possono muovere le stesse obiezioni che abbiamo già visto riguardo ai cosiddetti verdi: le manifestazioni di piazza non sono certo un modo adatto per risolvere i problemi ambientali riguardo ai quali occorrono conoscenza e tecnologia, e in più, fare dei problemi ambientali, che dovrebbero interessare tutti, il monopolio di una parte politica, della sinistra, non può che rendere le cose più difficili, allontanando da essi coloro che non condividono tale orientamento politico.
In più, è evidente a chiunque non abbia le fette di prosciutto sugli occhi, che Greta Thunberg è un personaggio finto, costruito. Figuratevi: una ragazzina decide di marinare la scuola utilizzando come scusa la protesta contro i cambiamenti climatici, e di colpo ottiene un’esposizione mediatica planetaria: viene ricevuta a Davos, al parlamento europeo, all’ONU, dal papa, dall’ex presidente USA Barack Obama, in luoghi e persone a un chilometro dalle quali una persona comune come me o voi sarebbe immediatamente fermata dai servizi di sicurezza. È chiaro che non si tratta altro che della figura di paglia di una campagna mediatica ben preordinata.
La stessa cosa si può dire per il movimento “italiano” delle sardine (in questo caso, le virgolette sono d’obbligo, perché andando a vedere chi sono i leader di questo movimento, vediamo che perlopiù si tratta di gente che di italiano ha solo i documenti, è forse il primo esempio di come gli invasori-immigrati, una volta ottenuta una cittadinanza che loro non spetta, possono influire sul nostro quadro politico, decidere del nostro destino, e non si fa fatica a intravvedere il fantasma sogghignante di Robert Coudenhove-Kalergi).
La storiella sembra la materializzazione di una canzone di Gino Paoli, “quattro amici al bar” che “decidono di cambiare il mondo” e, detto fatto, ottengono immediatamente un’enorme esposizione mediatica non meno sospetta di quella accordata a Greta Thunberg. In entrambi i casi, pare si voglia generare l’impressione che una o poche persone comuni, perse in una massa di miliardi di loro simili, possano influire in modo determinante sulle sorti, vuoi di una nazione, vuoi dell’intero pianeta, il che non è se non una gratificante illusione offerta al popolino.
Probabilmente hanno voluto chiamarsi sardine per vantare la capacità di riempire le piazze stipati come sardine in una scatoletta (e in qualche caso, quando non ci sono fisicamente riusciti, le hanno riempite con il photoshop), come contenuto di idee, zero, tranne un punto: l’ostilità verso la Lega e chi non è di sinistra, in questo riflettendo l’assunto fondamentale della democrazia come l’intendono i “compagni”: tappare la bocca a chi la pensa diversamente. Abbiamo visto il fatto finora inedito di un sedicente movimento di protesta non contro il governo ma contro l’opposizione.
In questo caso, gli altarini si sono scoperti presto, grazie a una foto che ha fatto il giro del web: i leader delle sardine assieme ai Benetton, che non sono solo imprenditori nell’ambito dell’industria tessile, ma hanno le mani in un monte di cose, comprese le autostrade, e hanno una responsabilità diretta nella mancata manutenzione che ha portato al crollo del ponte Morandi di Genova.
Dopo di che, il movimento sembra essersi sgonfiato e una manifestazione a Napoli è stata un insuccesso totale. Possiamo essere sicuri che il potere dietro le quinte sta già lavorando al prossimo movimento-patacca di finta protesta. Il vero dubbio è semmai quando la gente si stuferà di farsi prendere per i fondelli.
NOTA: nell’illustrazione, i poco accattivanti leader della “nuova” sinistra. A sinistra Beppe Grillo, al centro Greta Thunberg, a destra Mattia Santori leader delle sardine.