In piazza, la folla, straripante, si ferma, e non sa che fare, finché da una finestra al secondo piano appare un braccio che brandisce una rivoltella e fa fuoco, seguito da una scarica nutritissima di revolverate, che fanno molti feriti in piazza.
Frattanto, alcuni, che erano all’interno dell’edificio, sono saliti sul tetto e hanno cominciato a tirare bombe a mano sulla gente, seminando il panico, che coinvolge anche i militari di presidio, che si buttano a terra o cercano rifugio dietro gli angoli.
I colpiti, a questo punto, sono una decina, e la situazione è in stallo, così che altri militari, usciti dalla caserma Oberdan, supportati da alcune mitragliatrici che puntano l’edificio, decidono di salire sulle torrette del Palazzo delle Poste per aprire il fuoco contro i bombardieri appostati sul tetto.
Con loro, probabilmente, nuclei di squadristi, che però poco possono fare, perché sprovvisti di fucili. Da qui nasce la decisione di alcuni di raggiungere l’armeria del Battaglione Volontari, che è all’interno della stessa Caserma, e prelevare i moschetti. Il tentativo riesce, nonostante l’opposizione dello stesso Colonnello Comandante il 47° Battaglione Fanteria, e così anche dalla piazza è possibile una modesta risposta al fuoco proveniente da finestre e tetti.
A decidere la situazione sono però i tiri dei militari, così che, dopo una ventina di minuti, dall’interno del Balkan non si spara più, e la gente, che si è sparsa nelle vie adiacenti, fuori portata, può tornare.
Tutti si scagliano contro le saracinesche e l’ingresso principale dell’edificio, riuscendo infine, dopo molto insistere, a penetrare all’interno, consentendo l’uscita agli ospiti dell’albergo che si erano asserragliati nelle loro camere, e rastrellando quelli sospettati di essere tra coloro che hanno aperto il fuoco.
I mobili dell’albergo vengono distrutti, e l’imbottitura delle poltrone, fatta di paglia, fornisce l’ideale alimento per il fuoco che alcuni appiccano, aiutati dalle latte di benzina che ha portato il Capitano Carlo Lupetina, comandante di una delle squadre fasciste.
Mentre si scatena l’inferno, con i muri che cadono, i pavimenti che crollano, gli archi e i soffitti che vengono giù, si ode un’esplosione e ripetuti scoppiettii, causati dall’esplosivo e dalle munizioni stipate all’interno dei locali.
È da ritenere che sia proprio questa situazione di pericolo – e non un’azione “ostruzionistica” dei fascisti in piazza, come pure comunemente si sostiene – ad impedire un efficace intervento dei vigili del fuoco, che invece si danno da fare, per quanto possono.
“Il Piccolo” del 14 luglio lo testimonia, parlando di “sforzi dei pompieri che continuavano a lanciare colonne d’acqua sull’edificio ormai preda alle fiamme e sulle facciate delle case adiacenti, per impedire che il fuoco si estendesse”.
Certo, è da ritenere che i fascisti non siano intervenuti a supporto dei vigili, che non abbiano favorito o aiutato il loro intervento, ma certezza di un’azione “di ostacolo” non c’è da nessuna parte.
Al terzo piano si svolge, intanto, una scena drammatica. Da una finestra si affacciano le figure di un uomo e una donna, che invocano aiuto.
Immediata – e umanissima – la reazione della folla. Chi cerca una scala, chi cerca di buttar giù il cancello ancora sprangato, per correre al soccorso, chi si rivolge ai due sventurati per rassicurarli sull’imminente arrivo di aiuti. La donna, però, non vuole attendere. Prima lancia nel vuoto alcune valigette, e poi si butta lei stessa, planando su centinaia di braccia protese, e atterrando, fortunosamente su una coperta che alcuni avevano steso, sì da avere salva la vita, sia pure al prezzo di gravi ferite al volto.
Dopo qualche minuto, la imita l’uomo, ma con minore fortuna, perché manca la coperta e si schianta al suolo, morendo.
Anche qui – e sembra veramente strano – ci sono versioni contrastanti, a partire proprio dall’identificazione dei due protagonisti. L’uomo, infatti, si chiama Ugo Roblek – e non Kablek, come scrivono alcuni – ed è un farmacista di Bled, di origini lubianesi, e la donna é la moglie (figlia dell’avvocato Franz Tomiusch di Lubiana), e non sua figlia – come scrivono altri –.
Roblek sarà una delle tre vittime della giornata, dopo Nini ucciso in piazza Unità. Ci saranno, infatti, anche un recluso del vicino carcere del Coroneo, che si affaccia ad una finestra e viene raggiunto da un proiettile vagante e il Tenente Luigi Casciana, del 142° Fanteria, che comanda una pattuglia di Carabinieri, è in piazza in servizio di ordine pubblico, ed è ferito dal fuoco proveniente dall’edificio.
Con lui, poi considerato – un pò abusivamente – “martire fascista” (sarebbe bastato dirlo “vittima della violenza sovversiva”) la sorte sarà particolarmente maligna. Soccorso e trasportato, nell’immediatezza del fatto, all’Ospedale Maggiore, le sue condizioni sembrano migliorare, al punto che viene disposto il trasferimento all’Ospedale Militare.
Trasferimento realizzato, però, con mezzi di fortuna (non su una lettiga, ma seduto su una sedia di vimini, in un carro trainato da cavalli!), tali da causare, probabilmente, un repentino peggioramento, fino alla morte, la sera stessa dell’arrivo al nuovo ospedale.
Che la responsabilità dell’accaduto sia ascrivibile agli occupanti dell’edificio, che per primi aprono il fuoco sulla folla e poi lanciano bombe a mano appare indiscutibile. Un modus operandi che ricorda il precedente dell’incendio dell’“Avanti”, il 15 aprile dell’anno prima a Milano, quando da una finestra dell’edificio sprangato fu esploso contro i manifestanti all’esterno – che ancora solo rumoreggiavano, come quelli del Balkan – un colpo di pistola che uccise un militare di guardia e scatenò l’ira fascista. Più o meno simile lo svolgimento dei fatti, il successivo 21 novembre, a Bologna, quando dai balconi di Palazzo d’Accursio, le Guardie Rosse, temendo un’invasione, lanceranno bombe sulla folla in piazza facendo dieci morti ed una sessantina di feriti tra i loro stessi sostenitori.
Il confuso andamento processuale successivo, con la fuga all’estero di molti arrestati, (sono oltre una ventina all’inizio, gli imputati di omicidio volontario) l’incerto e lento svolgersi di un processo caratterizzato dalla non conoscenza della lingua italiana di parecchi imputati e troncato dalla sopraggiunta amnistia, favorirà la nascita di vere e proprie leggende intorno allo svolgimento dei fatti, che è, invece, come abbiamo cercato di dimostrare, abbastanza lineare e “logicamente conseguente”, pur nella sua sua drammaticità.
Dell’indimostrato ostacolo fascista all’intervento dei pompieri abbiamo detto. Due righe per un’altra storia assolutamente priva di prove e anche di “logicità”: quella secondo la quale, all’interno del Balkan si sarebbe introdotto, la sera prima, un “caporione fascista” che vi avrebbe ammassato armi ed esplosivi.
Tesi illogica, dicevamo, perché presupporrebbe una premeditazione dei fatti che, invece, avvennero in maniera assolutamente casuale e presero la mano agli stessi organizzatori del comizio in piazza Unità, dopo l’assassinio di Nini, e pechè è poco chiara nella sua genesi:
Altrettanto poco fondata è la versione di Carlo Schriffer, secondo il quale le bombe e il materiale incendiario sarebbero stati portati all’interno dell’edificio quella stessa mattina da una squadra di fascisti.
Anche il lancio della bomba che uccise il Tenente Casciana sarebbe stato opera dei fascisti.
Tale versione si basa su una testimonianza orale di seconda mano, prodotta asseritamente nel 1943 da fascisti che si trovavano in carcere in seguito alle devastazioni di negozi di ebrei. (1)
Tornando ai fatti, e non alla “costruzione” (interessata) di essi, va aggiunto che, al sopravvenire della notte, con la piazza che è rimasta deserta, alte fiamme si alzano ancora dall’albergo, sospinte anche da un forte vento. Bisognerà attendere la mattina successiva, dopo che pure il tetto dell’albergo è crollato, e la ripresa del lavoro dei vigili del fuoco, per poter dire che l’emergenza è finita.
Prima però, verso le 11,00, mentre ancora la piazza è meta di un vero e proprio pellegrinaggio di curiosi e sfaccendati che “vengono a vedere”, si sentirà distintamente una nuova forte deflagrazione, e un vigile del fuoco, che era su una scala, sbalzato, precipita a terra e resta lì, in condizioni gravissime.
Permane grave la situazione anche negli ospedali cittadini, dove si sommano i feriti dal fuoco e dalle bombe provenienti dall’albergo agli ospiti intossicati, e a singoli oggetto di atti di violenza.
Anche al carcere del Cotroneo viene domato, grazie all’intervento dei Carabinieri, un tumulto provocato dai reclusi, convinti che gli spari e gli scoppi che sentivano fossero il segnale di una rivolta cittadina in atto.
Prima, però, ci sono state altre violenze “minori” ad opera dei manifestanti. A farne le spese sono lo studio dell’avv. Kimovec e la trattoria Leneck, siti in piazza Oberdan, oltre al caffè Commercio e l’appartamento dell’avv. Olretick.
Più grave, e con un più preciso significato “politico”, contro l’invadenza economica dell’elemento slavo, sono gli assalti, con conseguente distruzione degli interni e di materiale cartaceo, ai danni della Cassa di Risparmio generale slovena, in via Torrebianca, della Banca Adriatica in via S. Nicolò, e della cassa di Risparmio Croata di piazza della Borsa.
Si salva dalla distruzione, grazie all’intervento dei Carabinieri, l’odiato giornale “Edinost”, in via S. Francesco d’Assisi, mentre niente e nessuno possono salvare la scuola serba di via Rossini e alcune botteghe private.
Verso le 10,15 toccherà alla Delegazione jugoslava, in piazza Venezia, dove viene appiccato il fuoco ai locali, che, però, viene con prontezza spento dai vigili del fuoco.
Per tutto il giorno 14 a Trieste, comunque, aldilà di questi – limitati – episodi, domina una calma innaturale. Teatri, cinematografi e caffè chiusi, ad eccezione di qualche locale che comincia a riaprire nella tarda serata.
I giornali, intanto, forniscono descrizioni più dettagliate dei fatti. L’elenco dei feriti, oltre ai colpiti da proiettili e da schegge di bomba, mostra molte donne, ospiti dell’albergo, che hanno ceduto al panico alle prime fiamme, e non pochi slavi percossi nelle strade adiacenti. Tra gli arrestati vi sono anche una decina di “sciacalli” che, intrufolatisi nella calca, si sono dedicati al prelevamento ladresco di generi alimentari e oggetti – in genere di modesto valore – razziati all’interno.
Poi, piano piano, tutto torna normale, e l’intera vicenda si chiude con i funerali del cuoco Nini (il giorno 16) e del Tenente Casciana (il 22), che vedono una folta partecipazione di fascisti e cittadini, tale da imporre, nel primo caso, il ritiro dell’ordinanza del Questore che avrebbe voluto vietare esequie pubbliche.
Il giorno dopo viene dato alle fiamme anche il Narodni Dom di Pola, e a Pisino la sede del giornale sloveno “Puckij Prijatelj”. Sono i primi tangibili segnali della marcia fascista nell’intera regione, destinata a proseguire per la dichiarata volontà di Giunta.
Il ricordo di questo 13 luglio resterà indelebile nella memoria dei Triestini, e non solo. Può ben valere il giudizio di uno storico non bendisposto verso la causa “nazionale”:
L’assalto e l’incendio del Narodni Dom di Trieste, il più importante centro culturale sloveno della regione, è forse l’azione più spettacolare e nota della campagna militare fascista.
La distruzione del simbolo per eccellenza della presenza slovena in città, realizza ciò che liberal-nazionali e nazionalisti avevano sempre auspicato senza poterlo realizzare: la cancellazione simbolica di una borghesia composta da intellettuali e professionisti sloveni alternativa a quella italiana.
L’identificazione di una presenza slovena con una minaccia jugoslava, l’appoggio di Reparti dell’Esercito, la campagna di stampa che prepara e poi copre la violenza fascista sono tutti elementi che ritroveremo nelle azioni fasciste, assieme ad un gusto coreografico che Giunta assorbe certamente da d’Annunzio. (2)
La conferma viene da uno che all’epoca era, e non in posizioni di retroguardia, nelle fila fasciste, e poi ancora ci sarà, Roberto Farinacci. Egli, più di quindici anni dopo, scriverà:
Là era il Narodni Dom (la Casa del popolo) dove avevano sede le organizzazioni slave, la Pevsko Drutsvo, l’Akademicno Jeralno, la Slavjanska Citalnika, la Glaslena Metica, che avevano unito gli Slavi del Sud, li avevano guidati alla lotta sotto la protezione della monarchia danubiana contro gli Italiani irredenti, li avevano temprati con la speranza del “trialismo”, caro all’Arciduca Ferdinando ucciso a Sarajevo.
Quella speranza era mutata, era cresciuta nel sogno di una grande Serbia, da quando l’on. Orlando, fermato l’Esercito italiano con un delittuoso ed assurdo armistizio, aveva pianto davanti alla sorda astuzia degli Alleati e alla ingenua e vanitosa ostinazione di Wilson.
Là era il cervello del nazionalismo slavo, tanto più feroce ed ingenuo, quanto più incolto e primitivo, dove l’italiana Trieste, negli anni della solitudine eroica, disperata degli eventi, aveva tentato più volte l’assalto, subito oppressa dalle cariche della cavalleria dell’Imperatore e del Re. Ora ritornavano i Triestini, sospinti da una furia che i Governi di orlando, di Nitti e di Giolitti avevano reso micidiale. (3)
Dall’altra parte, tralasciando qui le ricostruzioni più propriamente storico-politiche, varrà la pena di ricordare il racconto – peraltro fantasioso, nella stessa misura di quelli più “scientificamente” accreditati – dello scrittore Boris Pahor, nel suo “Il rogo nel porto”:
Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono ad ululare tra la folla, ma la confusione aumento, perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette.
“Eia eia alalà” gridavano come dei forsennati, e tutt’attorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano ad ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere. Evka si avvinghiava a Branko perché nella grande casa, oltre alle fiamme, si vedevano anche delle figure umane alle finestre, e una di esse era appena salita sul davanzale, guizzando accanto alla lingua rossastra che lambiva la finestra. Evka rabbrividì, e anche Branko si strinse a lei.
“Eia eia alalà” cantavano gli uomini dai fez neri… (4)
Mussolini renderà merito ai suoi uomini di Trieste, che hanno saputo interpretare e pilotare lo sdegno popolare, rivolgendo loro un pubblico elogio:
Per fortuna a Trieste vi sono parecchie migliaia di fascisti, diconsi parecchie migliaia di fascisti, organizzati, inquadrati, pronti ad ogni azione di difesa e di offesa.
L’incendio del Balkan è il capolavoro del fascismo triestino. (5)
Più in là si spingerà, qualche mese dopo, in una pubblica occasione, il comizio tenuto il 20 settembre al Politeama “Rossetti”, estendendo il suo compiacimento a tutti gli abitanti della città di San Giusto:
Io non vi considero, o Triestini, come degli Italiani ai quali non si può dire ancora la verità o tutta la verità, poiché io vi considero i migliori fra gli Italiani, ed il vostro entusiasmo di oggi me lo dimostra. (6)
Negli anni a venire il Narodni Dom assumerà un alto valore simbolico: difesa dell’italianità delle terre di confine per il fascismo, manifestazione di violenza e sopraffazione dopo il 1945.
Oggi l’edificio ospita la sede della Sezione Studi in Lingue Moderne dell’Università, e, a piano terra, istituzioni culturali e scientifiche della Comunità slovena.
Il 24 gennaio del 2020, a Gerusalemme, a margine delle cerimonie per la Giornata internazionale della memoria dell’Olocausto, il Presidente italiano Sergio Mattarella e quello Sloveno Borut Pahor hanno annunciato che il 13 luglio, nel centenario, avverrà la cerimonia della restituzione dell’edificio alla comunità.
Annuncio confermato pochi giorni fa, nel corso della sua visita a Lubiana, dal Ministro degli Esteri Di Maio, che probabilmente non ha mai sentito parlare di quattro innocenti vittime: il Comandante Gulli, il motorista Rossi, il cuoco Nini e il Tenente Casciana.
FOTO 5: la più nota foto dell’incendio del Balkan
FOTO 6: Il Tenente Luigi Casciana
NOTE
- Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna 2007, pag. 143
- (Dario Mattiussi, il Partito Nazionale Fascista a Trieste, Trieste 2002, pag. 18
- Roberto Farinacci, Storia della rivoluzione fascista, vol. II, Cremona 1937, pag. 211
- Boris Pahor, Il rogo nel porto, Rovereto 2008, pag. 42
- Articolo intitolato “Varsavia e il PUS triestino, su “Il Popolo d’Italia” del 22 agosto 1920
- In: (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, Firenze 1954, vol. XV, pag. 214