17 Luglio 2024
Religione

Ex Oriente Lux, ma sarà poi vero?, ventinovesima parte – Fabio Calabrese

 

 

Questo articolo, di cui, pressato da cose più urgenti, ho rimandato varie volte la pubblicazione, è la seconda parte del riepilogo delle argomentazioni fin qui svolte sulla tematica delle origini iniziato con la centesima parte di Una Ahnenerbe casalinga. Erano rimasti da riesaminare i livelli più vicini a noi: le origini della civiltà europea e delle popolazioni italiche.

 

Tutti noi sappiamo che l’origine mediorientale della civiltà è presentata come un fatto acquisito da qualsiasi testo di storia: l’Egitto e la Mesopotamia, la Mezzaluna Fertile, ce lo siamo sentito ripetere tante volte che ci vuole una grande indipendenza di giudizio per riconoscerla come la panzana che è, eppure il fatto che si tratti di una favola senza fondamento è l’unica conclusione ragionevole una volta che si abbia un’adeguata conoscenza dei fatti.

Io ho insistito su questa tematica in tutta la serie degli articoli raccolti sotto il titolo di Ex Oriente Lux, ma sarà poi vero?, la più ampia e longeva dopo Una Ahnenerbe casalinga fra quelle che ho collocato sulle pagine di “Ereticamente”, al punto che ora sono riluttante a ripetermi. Vi farò ora un solo esempio di invenzioni a cui si attribuisce un’origine mediorientale ma che invece a mio parere vanno considerate prettamente europee: la scrittura. Le iscrizioni di qualsiasi genere che sembrerebbero possedere la maggiore antichità in assoluto, che siano mai state rinvenute, sono quelle ritrovate nell’ipogeo francese di Glozel, ma poiché la loro autenticità è stata messa in dubbio, veniamo a qualcosa di certo: la scrittura della Cultura del Danubio, i cui primi esemplari noti, le cosiddette tavolette di Tartaria, furono rinvenuti nel 1963, e risultano essere almeno di un millennio più antichi dei più antichi pittogrammi sumerici noti.

Parlando di scrittura occorre distinguere fra le scritture ideografiche, sillabiche (o quelle che sono un misto fra le due come i geroglifici egizi) e quelle alfabetiche. Queste ultime hanno un vantaggio enorme rispetto a primi due tipi, di poter esprimere qualsiasi concetto con non più di una ventina di segni, laddove negli altri due sistemi ne occorrono centinaia, di non richiedere quindi caste di scribi specializzati, ma di poter essere patrimonio comune.

L’invenzione dell’alfabeto è comunemente attribuita ai Fenici, ma costoro non fecero altro che semplificare la scrittura demotica egizia eliminando le vocali, e il difetto di questo metodo è la sua ambiguità (ad esempio, se scrivo “pzz”, potrebbe voler dire pezzo, pazzo, pozzo, pizza, puzza, eccetera), al punto che ancora oggi c’è un forte disaccordo sul significato dei testi che ci sono stati tramandati, ad esempio la Torah o Antico Testamento, scritto in alfabeto ebraico derivato da quello fenicio: molti gli danno un significato religioso, ma qualcuno, Mauro Biglino ad esempio, l’interpreta come una storia di UFO.

La VERA invenzione dell’alfabeto, con la divisione della sillaba in consonante e vocale e l’introduzione degli spazi fra le parole, il metodo chiaro, semplice e pratico che in sostanza usiamo ancora oggi, è stata opera dei Greci, non è un’invenzione mediorientale ma europea.

Ora, come vi ho detto non vorrei accennare se non in estrema sintesi a questioni sulle quali ormai mi sto diffondendo da anni, ma forse è bene rimarcare un ulteriore punto che ha implicazioni politiche evidenti e drammaticamente attuali.

Contro l’età medioevale, lo sappiamo, c’è una calunnia di matrice illuminista che tende a presentarcelo come l’era oscura che certamente non fu, tuttavia il periodo di caos immediatamente successivo al collasso del mondo romano fu effettivamente un’epoca buia. Ora, da parecchie parti si insiste nell’enfatizzare il ruolo avuto dagli Arabi nel favorire la rinascita europea dopo quest’epoca certamente difficile, e il motivo sottinteso di ciò è piuttosto evidente: indurci all’accettazione degli allogeni che oggi ci invadono, persuaderci che la loro presenza sul nostro suolo possa rappresentare per noi qualcosa di positivo.

Si cita la filosofia “araba” e il fatto che essa avrebbe permesso di riscoprire all’Europa il pensiero di Aristotele, ma questa storia della filosofia “araba” è davvero strana. Per prima cosa, se andiamo a esaminare le biografie di questi filosofi “arabi”, da Avicenna ad Averroè, scopriamo sempre che si tratta di persiani e di iberici, cioè indoeuropei islamizzati, e un arabo vero non si trova a cercarlo col lanternino, poi il fatto che dopo la morte di Averroè, l’ortodossia islamica non ha avuto difficoltà a sopprimere questa filosofia in modo quasi indolore, mostrandola per quel corpo estraneo nella “cultura” arabo-islamica che effettivamente era, e soprattutto il fatto che dopo di allora (ma nemmeno allora, in realtà) gli Arabi non hanno mostrato alcuna inclinazione verso la speculazione intellettuale, ma solo il fanatismo intollerante dell’estremismo religioso.

Se l’apporto della filosofia araba fosse stato così determinante come taluni pretendono, ci si potrebbe chiedere come mai umanesimo e rinascimento abbiano dovuto aspettare la metà del XV secolo. Invece, si può indicare una data precisa che è quella del 1438, anno del concilio di Firenze che sancì la riunificazione della Chiesa ortodossa con quella cattolica. Bisanzio e non l’islam, fu il “ponte” che permise all’Europa occidentale di riappropriarsi della cultura classica.

Nello stesso tempo, non si può negare che dopo i “secoli bui” (concetto che, lo sottolineo, non può essere esteso a tutta l’età medioevale, ma solo al periodo immediatamente seguente la caduta dell’impero romano) l’Europa ha ricostruito e ridefinito la sua identità difendendosi prima dall’aggressione araba del periodo califfale, poi da quella ottomana, cioè lottando contro l’islam.

Vi confesserò che ho iniziato la mia ricerca storica-archeologica-antropologica partendo proprio da questa tematica “europea”, spinto da un guizzo di patriottismo europeo e una franca antipatia per tutte le mode orientaleggianti diffuse negli anni ’70 e ’80, e solo in un secondo momento mi sono accorto che TUTTA la questione delle origini, nei suoi diversi livelli, ci è presentata in maniera falsata.

Da diversi anni seguo il Triskell, il festival celtico che abbiamo qui a Trieste, e nel suo ambito ho preso a tenere annualmente una serie di conferenze. Nel 2016 l’argomento che avevo scelto era Stonehenge, poiché in questo importante monumento megalitico e nei suoi dintorni negli ultimi due decenni sono avvenute una serie di importanti scoperte che però più che chiarire in maniera univoca il significato di questa testimonianza del passato preistorico del nostro continente, hanno dato il via a una ridda di nuovi interrogativi, ipotesi e interpretazioni.

Poiché ho visto un generale interesse dell’uditorio sull’argomento, ho fatto agli ascoltatori una promessa: l’anno successivo mi sarei impegnato ad allargare il discorso all’insieme del fenomeno megalitico nelle Isole Britanniche, cosa che poi ho fatto. Di nuovo nel 2017 ho potuto riscontrare un interesse generale e una partecipazione piuttosto viva, quindi mi sono lasciato andare a un’ulteriore promessa: nel 2018 avrei affrontato la tematica ancora più impegnativa di un discorso complessivo sul megalitismo dell’intera Europa continentale, cosa che – ve lo dico subito – si è rivelata non facilissima, soprattutto tenendo conto di una serie di nuove scoperte archeologiche verificatesi nell’Europa orientale e in Russia. Nel 2019 l’argomento è stato l’ancor più sconosciuto megalitismo italiano.

Voi però non dovete temere, i testi di queste conferenze li trovate o li troverete tutti su “Ereticamente”. Dal momento che mi rivolgevo a un pubblico generalista, non è stato possibile affrontare tematiche politiche in maniera esplicita, ma certo a voi non sfuggirà il significato anche politico di tutto ciò. Mantenere il legame con la nostra eredità ancestrale è di importanza fondamentale, soprattutto per quella parte di essa che il potere mondialista intento a costruire “l’uomo nuovo” senza volto e senza identità, vorrebbe farci dimenticare.

Vi devo confessare che man mano che raccoglievo il materiale per preparare la conferenza dell’anno scorso, non ho potuto fare a meno di provare un vivissimo stupore: è mai possibile che l’archeologia ufficiale, quella canonica che scrive i libri di testo e informa i programmi divulgativi, ignori alla grande tutte le testimonianze del passato europeo, i circoli megalitici delle Isole Britanniche, l’immenso campo megalitico di Carnac, i forti vetrificati, i nuraghi sardi, i templi maltesi, l’antichissimo cerchio megalitico tedesco di Gosek e moltissime cose ancora, che non solo rivelano conoscenze astronomiche (con gli allineamenti megalitici in coincidenza con gli equinozi e i solstizi) e ingegneristiche (per mettere in posa blocchi di pietra di svariate tonnellate) raffinate, ma presuppongono anche strutture sociali complesse, gruppi di lavoratori specializzati, la disponibilità di un surplus economico che eccede di gran lunga lo stadio tribale dove non è possibile sottrarre energie altro che alla pura sussistenza, insomma le prove evidenti che per quanto riguarda il nostro passato remoto, le posizioni dell’archeologia, della “scienza” ufficiale sono di totale e certamente voluta cecità.

Non vi nascondo che quando ho cominciato a collaborare con “Ereticamente” ero molto incerto se questa tematica, frutto di una ricerca e di riflessioni personali potesse collimare con la nostra visione del mondo, che certamente è ricca di sfaccettature. In fondo, la dottrina delle quattro età, cardine del pensiero tradizionalista, viene dai Veda indiani, Julius Evola ha scritto La dottrina del risveglio, un testo sul buddismo, e per non parlare del fatto che certamente non possiamo non sentire vicino a noi il mondo nipponico dei samurai e dei kamikaze. Naturalmente c’è Oriente e Oriente, e indubbiamente il mondo indiano e quello estremo-orientale sono di gran lunga più vicini alla nostra sensibilità di quanto lo sia il Medio Oriente semitico e abramitico, giudaico-cristiano-islamico. L’ultima cosa che desideravo al riguardo, era introdurre ulteriori motivi di frizione e frazionismo ideologico nei nostri ambienti che malauguratamente sono già anche troppo frammentati.

Feci allora una piccola inchiesta sollecitando il parere al riguardo degli intellettuali “nostri” con cui ero in contatto: Ernesto Roli, Silvano Lorenzoni, Gianfranco Drioli, Michele Ruzzai. Con mia grande sorpresa e soddisfazione, la risposta fu unanime: non solo riscontrai una concordia totale nel ritenere fuorviante la favola dell’ex Oriente lux, ma tutti costoro, forse con qualche sfumatura diversa, ritennero opportuno sottolineare il primato dell’uomo europeo e indoeuropeo come un punto assolutamente centrale della nostra visione del mondo. Assemblai insieme questi interventi e ne feci un articolo che pubblicai su “Ereticamente” con un titolo molto esplicito: Il coraggio di essere eretici.

Per quanto riguarda l’ultimo livello, quello più vicino a noi, della nostra questione delle origini, cioè la nostra identità di italiani, la mia tentazione sarebbe quella di rimandarvi semplicemente al saggio in due parti Alle radici dell’italianità. La tesi che vi ho esposto è semplice, per qualcuno sarà un’ovvietà anche se prevedo che per altri sarà motivo di irritazione: gli Italiani, gli Italici sono un popolo di stirpe indoeuropea, in cui non mancano, come dovunque, delle variegature etniche locali, ma che non sono certo tali da non permettere di riconoscere negli Italiani un’entità chiaramente riconoscibile.

Fosse vera la “verità ufficiale”, la menzogna di stato riguardo alla nostra nazione, insistentemente ripetuta dai media, secondo la quale l’Italia e gli Italiani sarebbero caratterizzati dalla precisa conformazione geografica della nostra Penisola e, al massimo, da un lieve collante culturale, allora potremmo anche chiudere subito bottega, perché non vi sarebbe un bel nulla da salvaguardare, ma comprendiamo anche troppo bene che questa non è altro che l’ennesima menzogna inventata per favorire l’accettazione dell’immigrazione.

Come credo di avervi già spiegato, questi due articoli costituiscono il testo di una conferenza che avrei dovuto tenere qui a Trieste alla Casa del Combattente ed è poi saltata. Ora, non è che mi sia stata censurata, ma di volta in volta sono stati preferiti altri argomenti, fino a che questa possibilità si è chiusa, almeno per il momento. D’altra parte, ricorderete che un articolo che scrissi anni fa su “Ereticamente” sul medesimo soggetto, fu forse quello che nell’arco di questi ormai non pochissimi anni, mi fu maggiormente contestato.

Da dove venga, anche negli ambienti “nostri” la riluttanza ad affrontare la tematica nazionale, a mio parere non è affatto un mistero: tre quarti di secolo di repubblica democratica e antifascista ci hanno portati ad avere nausea di noi stessi, e vorremmo essere padani, galli cisalpini, Magni Greci, bi-siculi (delle Due Sicilie), qualunque cosa tranne che italiani, ma non è di essere italiani che ci dobbiamo vergognare, è la democrazia antifascista che ci deve fare schifo.

Tuttavia, benché in Italia il problema sia indubbiamente più grave che altrove, bisogna riconoscere che oggi tutta l’Europa occidentale è percorsa da localismi, municipalismi, separatismi, e non è difficile ricordare ad esempio non molto tempo addietro, la vicenda grottesca del separatismo catalano rispetto alla Spagna.

Bene, occorre ricordare che questa è precisamente l’attuazione di uno dei punti previsti dal piano Kalergi, che vede negli stati nazionali il maggiore ostacolo alla sua realizzazione, e prevede contro di essi un doppio attacco, sia “dall’alto” attraverso il trasferimento di quote sempre più massicce della sovranità a organismi internazionali, sia “dal basso” mediante la diffusione di localismi e separatismi.

Il problema è che gli inconsapevoli attuatori di questa parte del piano che mira alla distruzione dei popoli europei, non sono alieni come i sinistri imbottiti di utopie cosmopolite o coloro la cui perversione mentale viene stimolata nelle parrocchie e nei seminari, parlano un linguaggio che è anche il nostro, di sangue, suolo, radicamento nell’identità etnica, sbagliano nel riferire tutto ciò a micro-nazioni che non saranno certo in grado di opporre una qualche resistenza alla globalizzazione e alla sostituzione etnica, sono spesso contigui ai nostri ambienti e talvolta ne fanno parte.

Si tratta di una battaglia che possiamo sperare di vincere solo se non abbiamo paura di fare riferimento schietto e coraggioso alla nostra identità nazionale come qualcosa che non è negoziabile, ma va salvaguardato a ogni costo.

Occorre non prestare il fianco al nemico, non permettergli di rivoltare le nostre armi contro di noi, un nemico non solo estremamente potente, ma sommamente furbo. Tocca a noi dimostrare quanto meno di non essere degli sprovveduti.

NOTA: Nell’illustrazione, opliti greci. L’invalicabile “muro oplitico” fu il protagonista delle guerre persiane. Sia all’epoca di esse, sia durante l’età medioevale quando dovette ripetutamente difendersi dagli attacchi islamici, l’Europa ha costruito e poi ricostruito la sua identità difendendosi dagli attacchi da oriente.

.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *